Orazio La Rocca (*)
Il ricordo
commosso e grato della storica visita di Giovanni Paolo II nella
sinagoga di Roma. Intervista a Elio Toaff, allora da 45 anni guida della comunità ebraica romana: «Il Papa ha aperto una strada nuova.
Ancora oggi mi chiedo perché sia capitata proprio a me una cosa del
genere»
Roma 13 aprile 1986 - Assisi 27
ottobre 1986: due città e date storiche per il cammino delle grandi
religioni e, in particolare, della Chiesa cattolica. Dieci anni fa,
Roma e Assisi furono teatro di due eventi straordinari, a distanza
di sei mesi l'uno dall'altro, destinati in un certo senso a spaccare
l'evolversi della storia dei rapporti interreligiosi: il 13 aprile
1986, la prima visita di un papa, Giovanni Paolo II, nella Sinagoga
maggiore di Roma e il successivo 27 ottobre il primo grande incontro
dei capi delle più importanti religioni ad Assisi.
Il rabbino capo della comunità ebraica di Roma, Elio Toaff, è
stato uno dei protagonisti di quei due eventi. Ottantuno anni
portati benissimo (li compie il 30 aprile), il professor Toaff da
quarantacinque anni è guida spirituale e punto di riferimento degli
ebrei romani e italiani, carica confermata a "furor di
popolo" dopo aver dichiarato lo scorso anno la sua disponibilità
a farsi da parte al compimento dell'ottantesimo compleanno. A dieci
anni di distanza, quando parla di quegli avvenimenti gli brillano
ancora gli occhi per l'emozione. «E sì, sono passati dieci anni da
quei due grandi incontri alla Sinagoga e ad Assisi, ma è come se
fosse ieri, quando ci penso il tempo mi sembra che si sia fermato»,
confessa con un sorriso da bimbo il rabbino capo, seduto dietro la
grande scrivania nel suo ufficio al secondo piano del Tempio
Maggiore, sul Lungotevere dei Cenci.
Maestro, cosa prova, quali sentimenti vive nel suo animo quando
pensa, a dieci anni di distanza, a quella prima visita di un Papa
alla Sinagoga di Roma?
Ancora oggi mi chiedo perché sia capitata proprio a me una cosa del
genere. Pensi, era dai tempi di san Pietro che il capo della comunità
cristiana non entrava ufficialmente in una Sinagoga. Ci sono voluti
quasi duemila anni, ma alla fine anche quest'incontro c'è stato. Un
avvenimento impensabile solo pochi anni fa. Le racconto questo
episodio. Mio padre, quando era rabbino a Livorno era grande amico
del vescovo della città. Quando nel 1964 morì, il vescovo ci fece
visita, ma si fermò davanti alla porta della Sinagoga. Vedendolo lì,
lo invitai ad entrare, ma lui garbatamente mi rispose che non poteva
perché non gli era permesso. Però durante il corteo funebre ordinò
a tutte le chiese di suonare le campane.
Con papa Wojtyla invece è caduto un muro...
Con Giovanni Paolo II per la prima volta un Papa è entrato in una
Sinagoga. Non può immaginare quanta impressione, quanta emozione
provai quando quel pomeriggio del 13 aprile 1986, alle ore
diciassette in punto, entrammo insieme nel Tempio Maggiore il Papa
seguito da cardinali, vescovi, monsignori e io accompagnato da
rabbini ed altri rappresentanti della comunità ebraica. Abbiamo
camminato insieme, uno accanto all'altro, in mezzo a due ali di
folla. Poi ci siamo seduti e l'emozione è stata enorme, ha colpito
tutti. Mi ricordo con commozione che in quel momento ero felice, ma
non riuscii a non pensare alle sofferenze dei tempi del Ghetto,
quando gli ebrei erano tenuti rinchiusi come bestie. Con quella
visita del Papa quanta strada era stata fatta!
Durante l'incontro c'è stato un momento che potrà essere ricordato
nei libri di storia come l'apertura di una nuova era per i rapporti
tra ebrei e cristiani?
Intanto la visita in sé, un evento storico. Poi, e lo ricordo con
commozione, quando Giovanni Paolo II ci definì «nostri fratelli
maggiori». Ebbene, fu proprio in quel momento che si aprì una
nuova pagina tra ebrei e cristiani. Il Papa con quella frase ha
chiuso definitivamente duemila anni di incomprensioni, di
incomunicabilità, secoli di sofferenze, ed ha aperto una storia
tutta nuova.
Merito di Karol Wojtyla, ma merito anche di Elio Toaff. Non crede?
Quando si dialoga come minimo si deve essere in due.
Non so se è stato anche merito mio. Certamente quella visita è
stata possibile grazie all'attuale Papa. Io posso dire che è merito
suo, perché ha avuto il coraggio di concepire un evento che ha
aperto un nuovo cammino tra ebrei e cristiani.
È stato facile preparare la comunità ebraica all'incontro col
Papa?
Per arrivare alla visita in Sinagoga del 13 aprile '86 c'è voluto
un lungo lavoro di preparazione, sia per il Vaticano, sia per la
comunità. Ricordo con piacere il grande e discreto lavoro svolto da
uomini come monsignor Jorge Mejia, che in quel tempo era segretario
della pontificia commissione per i rapporti con l'ebraismo, come il
mio amico vescovo Clemente Riva, presidente della commissione
diocesana romana per l'ecumenismo. Da parte nostra, ricordo che,
oltre a preparare la comunità ebraica romana, consultammo il
rabbinato europeo al gran completo nel corso di una teleconferenza.
Tutti i rabbini interpellati si mostrarono entusiasti dell'idea.
La visita di papa Wojtyla alla Sinagoga può essere considerata il
capolavoro dei suoi 45 anni di rabbinato?
Questo lo dice lei: se si tratta o meno di un capolavoro non lo so.
So di certo che quell'incontro è stato una svolta nella storia dei
rapporti tra ebrei e cristiani.
Come storico fu, sei mesi dopo, l'altro grande incontro del 1986, la
preghiera comunitaria dei capi religiosi di Assisi del 27 ottobre.
È vero. Quel giorno ad Assisi faceva tanto freddo, per tutta la
giornata cadde pioggia e nevischio, e il vento era gelido. Ma noi
tutti eravamo felici e circondati da un calore autenticamente
fraterno. Il Papa ci ricevette tutti, la mattina, davanti alla
basilica di Santa Maria degli Angeli. Ci accolse come fratelli e
l'incontro fu caratterizzato da un autentico ecumenismo. Ricordo il
calore della gente, l'entusiasmo. Per la prima volta eravamo insieme
a pregare e a parlare di pace. Ricordo ancora con emozione il grande
corteo del primo pomeriggio lungo le strade di Assisi, col Papa e a
fianco dei musulmani. Dai due lati di folla salivano applausi,
saluti fraterni e tanti «Viva gli ebrei, viva i cattolici, viva i
musulmani!». Era la prima volta che assistevo a uno spettacolo
simile. Nelle chiese di Assisi si pregò secondo i vari riti. Io
lessi passi del Talmud davanti a ebrei, cristiani, islamici. Una
cosa incredibile e veramente ecumenica.
Cosa è cambiato dopo quegli avvenimenti dell'86?
È cambiato il clima, naturalmente in positivo, anche se non posso
indicare fatti specifici. Con le istituzioni statali e religiose il
rapporto è ottimo. In questi dieci anni ci siamo incontrati tante
volte. Ricordo con piacere il concerto in Vaticano in ricordo della
Shoa, insieme al Papa e al presidente della Repubblica. Eccellenti
sono i rapporti con l'amministrazione comunale di Roma, con i
cittadini.
Sono caduti tanti muri e il processo di reciproca conoscenza non può
che esserne avvantaggiato, anche se i tarli dell'ignoranza non sono
del tutto debellati.
È vero, purtroppo c'è ancora da lavorare. Specialmente in quelle
aree sociali e religiose dove ancora la parola del Papa non viene
recepita nella sua interezza. Ma non bisogna mai scoraggiarsi.
L'ignoranza si combatte con la formazione e sono sicuro che alla
fine gli avversari del dialogo, della reciproca conoscenza, saranno
sconfitti. Sono certo che con la prossima generazione questi
problemi non esisteranno più. Lo dico perché ne sono convinto e
perché già vedo i primi grandi segni di cambiamento nella società
italiana. Oggi tra cristiani ed ebrei c'è più dialogo, più
reciproca conoscenza. Lo dico io, un rabbino, che oggi ho tra i miei
più grandi amici Giovanni Paolo II, il vescovo cattolico Clemente
Riva, tanti sacerdoti.
Cosa si deve fare per eliminare le ultime sacche di resistenza di
quanti tentano di frenare il dialogo ebraico-cristiano?
Ripeto, lavorare per favorire la reciproca conoscenza. Far conoscere
l'ebraismo per quello che veramente è. Senza le storture del
passato.
Il Giubileo del 2000 va in questa direzione?
Credo proprio di sì. Tutte le occasioni, se vissute in positivo,
sono utili per favorire reciproca conoscenza, dialogo, processi di
pace. Anche il Giubileo può essere una occasione utile per far
conoscere il vero ebraismo.
Quindi anche il rabbino capo di Roma Toaff guarda con interesse al
Terzo Millennio cristiano. Ma, maestro, e le sue dimissioni
annunciate lo scorso anno?
Sono interessato a tutto ciò che può essere utile al dialogo.
Quanto alle mie dimissioni, è vero, lo scorso anno doverosamente,
pur essendo consapevole che si è rabbini per tutta la vita, misi a
disposizione della comunità il mio mandato al compimento
dell'ottantesimo compleanno. Sono arrivato a 81 anni e sono ancora
qua. Non hanno voluto mandarmi via. E io dico a loro rischio e
pericolo. Scherzo, naturalmente. Mi fa tanto piacere poter servire
la mia comunità fino a quando Dio vorrà.
Auguri, maestro.
(*)Vaticanista de
la Repubblica
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