Condizioni
di un dialogo
La parola collega
tra loro gli interlocutori, l'uno all'altro. Ma il parlare
innanzitutto separa e implica l'esteriorità radicale di uno
nei confronti dell'altro. La comunicazione, attraverso la
mediazione del linguaggio verbale, promuove il legame naturale tra
gli esseri viventi al livello culturale caratteristico degli
esseri umani. I segni, le parole, devono allora significare per
questi le stesse realtà perché essi possano intendersi e
parlarne allo stesso modo. È quello che Socrate spiegò ai
sofisti obbligandoli ad usare la ragione e la logica per fare in
modo che la comunicazione avesse un senso e perché la pace e la
giustizia fossero possibili nella società.
Se, però, il
linguaggio e il discorso, che impongono a tutti gli esseri
razionali di parlare e di pensare allo stesso modo, si fondano
sull'identità, la parola, al contrario, si costituisce sulla
differenza: ogni essere umano ha il suo modo di parlare, cioè
di significare la realtà, di viverla e di assicurarla, il che si
nasconde dietro il linguaggio impersonale ed anonimo, universale e
valido per tutti.
Ogni uomo è
unico al mondo, di diritto e di fatto; il suo modo di
utilizzare il linguaggio, che si chiama parola, gli è proprio
perché esprime il suo desiderio e la sua attesa. In questo stesso
modo la comunicazione verbale si costituisce come messa in
discussione dei desideri degli interlocutori, uno da parte
dell'altro. La parola è sovversiva nella misura in cui
mette in questione la parola dell'altro che l'ascolta,
comprendendo immediatamente che lo stesso avvenimento, lo stesso
fatto oggettivo, può essere significato in molti altri modi
diversi dal proprio. Parlare separa, non solo perché ognuno di
noi è unico al mondo, ma anche e soprattutto perché la parola ha
l'obiettivo e l'effetto di dire la differenza. Io ti parlo perché
non sono te, certo, ma soprattutto perché non voglio essere te.
Io voglio essere me ed essere riconosciuto come tale. Io comunico
con te per significarti questo, prima di trasmetterti un
messaggio. Si parla per significare e non per comunicare.
Parola e
senso
Credo che il
dialogo ebraico-cristiano è un rimettere in questione il
cristianesimo attraverso l'ebraismo e un rimettere in questione
l'ebraismo attraverso il cristianesimo. Forse esso ha senso
solo se si svolge al di fuori della sfera di verità intesa in
senso filosofico, come adeguamento del pensiero all'essere.
Propriamente parlando né l'ebraismo, né il cristianesimo sono un
pensiero, e neppure un'ontologia: essi si sviluppano, l'uno e
l'altro, al contrario della scienza, nel mondo del senso, e
più precisamente del simbolo, definito come il senso del senso,
il Midrash.
L'importante nel
dialogo tra la chiesa e la sinagoga non sta nel cercare di sapere
ciò che è la nascita verginale e l'immacolata concezione, ma ciò
che esse significano. Perché, sul piano della "verità",
la nascita di Yitshaq (Isacco) è altrettanto impossibile che la
nascita di Gesù. Come l'ascensione di questi al cielo è
altrettanto ridicola di quella di Hanokh o di Eliyahu (Elia); e
anche la risurrezione di Gesù è altrettanto contraria alla
ragione di quanto lo sono tutte le risurrezioni che si incontrano
nella Torah e nella Ghemarà (Talmud). E per un
ebreo l'essenziale è cercare di sapere la "verità"
sull'uscita dall'Egitto o ciò che essa significa per lui, oggi,
attraverso il racconto biblico? Il discorso e il linguaggio,
in effetti, appartengono all'ordine della verità, mentre
la parola è dell'ordine del senso. Il vero dialogo è quello
che si fonda su questa in quanto essa è negatività e
sovversione.
Parola e
Spirito
Poiché oggi noi
dobbiamo elaborare un pensiero ebraico sul cristianesimo, in uno
spirito di sincerità, di rispetto e di fraternità, prenderemo
una citazione degli Atti sull'insegnamento di rabbi
Gamaliele a questo proposito: “Uomini di Israele, badate bene
a ciò che state per fare contro questi uomini… Per quanto
riguarda il caso presente, ecco ciò che vi dico: Non occupatevi
di questi uomini e lasciateli andare. Se, infatti, questa teoria o
questa attività è di origine umana, verrà distrutta; ma se essa
viene da Dio, non riuscirete a sconfiggerli; non vi accada di
trovarvi a combattere contro Dio!”.
Ora la chiesa ha
tenuto: non è scomparsa. Il messaggio cristiano, pur tradito
tante volte dalla stessa chiesa, ha resistito alla storia e noi
non vogliamo trovarci a combattere con Dio a proposito di
cristiani. Non sarebbe logico né morale esigere dalla
chiesa una teologia della Shoah, del ritorno degli ebrei
nella loro terra, della perennità del popolo ebreo, né un
pentimento per tutte le sue azioni e le sue parole antiebraiche,
se nello stesso tempo non ci si sentisse chiamati a dire anche la
stima e il rispetto con i quali consideriamo la spiritualità e il
ruolo del cristianesimo nella storia.
D'altra parte la
religione cristiana non è sorta dalla matrice ebraica? Gesù
e gli apostoli non furono ebrei e non è proprio in quanto ebrei
che questi ultimi si sono riempiti di zelo e di entusiasmo per un
maestro che credevano essere il messia? Non dobbiamo noi oggi
rendere conto del sorgere del cristianesimo dal nostro seno? Qual
è dunque la funzione di questi nei confronti di Israele? Quale
senso e quale valore gli accordiamo in quanto ebrei? Se l'“insegnamento
del disprezzo” caratterizza la chiesa fino alla Shoah,
facciamo in modo che esso non si applichi anche a noi nei
confronti della religione cristiana, quando essa si sforza di
liberarsi della sua fobia nei riguardi dell'ebraismo. Quanto a
noi, noi resteremo fedeli, nella nostra parola sul cristianesimo e
con esso, allo spirito definito dai grandi maestri medievali
quando essi hanno dovuto soffrire le persecuzioni e le esclusioni
che ben conosciamo.
“Il
cristianesimo e l'islam sono in un certo modo una preparazione e
una introduzione ai tempi messianici che noi attendiamo, frutto di
quest'albero che essi dovranno alla fine riconoscere come la loro
radice, anche se per il momento lo disprezzano”: questa è
l'opinione autorevole di Yehuda Halewy (Giuda Halévi), mistico,
filosofo e poeta del medioevo spagnolo. Noi richiameremo accanto
al suo anche il parere di un rabbino francese del xii secolo,
Menahem Méiri: “Quanti, tra gli antichi pagani, rispettavano
le sette leggi di Noah (Noé), cioè si astenevano dal culto degli
idoli, non bestemmiavano il Nome di Dio, non rubavano, non
commettevano incesto, non erano crudeli verso gli animali e
possedevano dei tribunali, godevano degli stessi diritti degli
ebrei. Ma quanto di più oggi questo deve accadere, dal momento
che le nazioni si distinguono per la loro religione e il loro
rispetto della fede! Tuttavia noi dobbiamo concedere gli stessi
diritti anche a coloro che non hanno alcun codice di leggi, per
santificare il Nome di Dio”.
Gli stessi
discepoli di Rachi (Tossafot) scrivevano nel xii secolo:
“Non è proibito alle altre nazioni di associare alla fede in
Dio la fede in altre creature”.
Infine Maimonide,
che pur non era tenero nei confronti dei cristiani, scrisse: “Tutte
le parole di Gesù di Nazaret e quelle di Mohammed che venne dopo
di lui, sono state pronunciate unicamente per raddrizzare la
strada per il re Messia, che renderà il mondo perfetto e capace
di servire Dio, come sta scritto: Allora io darò a tutti i popoli
delle labbra pure perché tutti possano pregare il Signore e
servirlo spalla contro spalla”.
Questo è lo
spirito con cui deve essere pronunciata la nostra parola. Non è
uno spirito di tolleranza, come si vede. L'altro non è lì per
essere tollerato, ma per essere rispettato, amato a causa
della sua diversità che mostra come si possa andare a Dio in
molti modi e servendosi di molte strade. Non è necessario essere
ebrei per meritarsi la felicità e il mondo futuro: c'è salvezza
anche fuori della sinagoga, e i giusti ed i pii delle nazioni
partecipano, come gli ebrei, al mondo che viene, cioè alla dignità,
alla pace, alla giustizia e all'amore.
Il duplice
destino
C'è una duplice
Alleanza di Dio in seno
all'Alleanza generale che egli fa con l'umanità: l'Alleanza con
Yisra'el e l'Alleanza con la comunità cristiana. Ma il progetto
del Creatore non può realizzarsi che attraverso la partecipazione
della creatura. La clausola universale dell'Alleanza è la
giustizia e il rispetto dell'essere umano. La clausola
particolare è, per Yisra'el, l'amore, cioè la responsabilità
di questa giustizia, responsabilità seconda, per così dire, in
seno alla prima, responsabilità davanti al male che non si è
compiuto e che si trova nella creazione aggiunta alla
responsabilità davanti al male che si è fatto e di cui, di
conseguenza, si è colpevoli. E perché? Per amore, gratuitamente.
Al cuore
dell'Alleanza con Yisra'el è iscritta la legge, cioè l'etica.
Per Yisra'el la sorte del mondo si gioca sul piano della legge
intesa non come regole, costumi, abitudini sociali, ma come limite
dell'umano, a partire dal quale tutto prende senso: limite
metafisico, per così dire, che si esprime nei limiti sociali,
politici, economici e familiari che non sono che luoghi di
esercizio e di apprendistato della legge. Limite radicale del
desiderio di conoscenza, di potenza e di godimento: sono queste le
condizioni del dialogo e della vita con gli altri. L'uomo non è
Dio e non esiste che una sola modalità di separazione
dall'Infinito e dall'Assoluto, è il finito e il relativo,
rappresentati dalla legge interiorizzata quotidianamente
attraverso le leggi dello studio, del potere e del godimento, o
ancora attraverso i tre interdetti fondamentali: l'idolatria,
l'omicidio e l'incesto.
Nel cuore dello Spirito vi è l'etica
che fonda le morali dei popoli ed è in essa che si gioca il
destino umano, individuale e collettivo. Poniamo domande allora ai
nostri amici cristiani a proposito del contenuto esatto della loro
Alleanza con Dio. In che cosa consiste se non può essere quella
di Yisra'el? Essi hanno sicuramente una missione in seno
all'umanità. Essi sono stati chiamati a ciò da Dio, non se ne può
dubitare. Ma qual è questa missione?
Riguardo al popolo
ebraico, noi non possiamo più accettare che essi lo accomunino
alle nazioni, nel loro desiderio di conversione generalizzata di
tutta l'umanità. Il popolo ebreo non è un popolo già
cristiano in potenza e non ha nessun bisogno del cristianesimo per
essere fedele a Dio. Dio, infatti, non ha chiamato gli ebrei
perché gli preparino Gesù e la chiesa universale. È vero anzi
il contrario: il cristiano non può assumere la sua fede senza
passare attraverso una conoscenza profonda dell'ebraismo.
Bisogna constatare,
andando contro le encicliche del Vaticano, che l'ebraismo non può
essere classificato tra le religioni non cristiane. È il
cristianesimo, piuttosto, che sarebbe una religione non-ebrea,
almeno sul piano storico. La chiesa, costi quel che costi, non può
più evitare di considerare Gesù come ebreo, almeno a fior di
labbra. Dio non si è fatto uomo, si è fatto ebreo, e
questo è un "mistero" che rimane scritto nel cuore
della fede cristiana.
Preservare,
rispettare ed amare questo cuore conduce ad amare e rispettare il
popolo di Gesù e ad interpellarlo continuamente per comprendere
in che cosa esattamente Dio aveva bisogno della comunità
cristiana nella storia. Forse per formare un baluardo attorno ad
Yisra'el, e, presentandolo alle nazioni nella persona di Gesù,
insegnare loro la risurrezione e la vita e non la passione e la
morte. È sicuramente la tomba vuota e non la croce ad essere il
segno di Gesù.
La perennità di
Yisra'el è anche una questione cristiana e noi stessi conosciamo
molti amici e fratelli cristiani che ritrovano la grandezza della
loro spiritualità bimillenaria nel riscoprire la Torah e
il pensiero rabbinico e che ne diventano garanti e testimoni. Allo
sguardo delle nazioni, Dio non ha chiamato i cristiani a
convertirle alla chiesa più di quanto egli non abbia chiamato gli
ebrei a convertire l'umanità all'ebraismo. Non si tratta di
nient'altro che della conversione degli uomini a Dio, della
loro apertura allo spirito e all'esigenza etica, e della loro
propria memoria. Se tra essi alcuni desiderano maggiormente
consacrarsi a questa vocazione e impegnarsi personalmente, essi
devono averne la possibilità all'interno della comunità ebraica
o cristiana. Ma nessuno può imporre loro, per andare a Dio, di
convertirsi a queste due religioni.
La nobiltà
dello spirito si trova nell'amore e nella libertà. Amare l'altro
non consiste nel decidere per lui della sua salvezza e della sua
felicità, ma aiutarlo ad accedervi attraverso le strade che gli
sono proprie e secondo quello che egli è. Infine, allo sguardo
di Dio, la vocazione cristiana consiste nel salvare l'uomo,
l'umano in ognuno. Ma da che cosa? L'obiettivo ebraico si
riassume nella capacità dell'uomo ad assicurare la legge, cioè a
non essere Dio, e ad assicurare la sua condizione di creatura.
L'esigenza cristiana potrebbe dispiegarsi senza tenerne conto? C'è
un amore possibile senza la legge? Si può amare nell'altro
qualcos'altro che non sia l'alterità?
Colui che viene
chiamato "Dio" e al quale la Torah dà solo dieci
nomi, non può essere rappresentato, cioè realizzato nella
sensazione, nell'immagine o nell'idea. La sua caratteristica è
di essere altro, radicalmente, di essere un riferimento che è
impossibile, e quindi proibito, colmare, di essere Qadosh, Santo.
L'unico simbolo che
noi possiamo farci di lui è la parola, con la quale noi
possiamo - e dobbiamo - identificarci. Parlare all'altro è l'attualizzazione
di questo riferimento alla santità di Dio. Nessuno può parlare
senza rapportarsi ad essa perché è solo in questo modo che la
vita dell'altro è preservata. L'alleanza religiosa cristiana è
forse innanzitutto l'impegno a preservare i diritti di Dio,
costi quel che costi, foss'anche attraverso il sacrificio umano.
L'alleanza
religiosa ebraica è forse, innanzitutto l'impegno a preservare
i diritti umani, costi quel che costi, contro i diritti di
Dio. Come Abraham, a proposito di Sedom e 'Amorah (Sodoma e
Gomorra) o come Mosheh (Mosé) a proposito del vitello d'oro e
come tanti altri rabbini e maestri chassidici. Noi crediamo che il
Midrash è l'unico luogo in cui si gioca il confronto tra
la religione cristiana e la religione ebraica, tra i diritti di
Dio e i diritti degli uomini. L'unica articolazione di questa
relazione è la legge-Torah, che ricorda ai due partners
la loro reciproca responsabilità. Essa non appartiene né
agli ebrei, né ai cristiani: è Yisra'el che ne è testimone
nella propria vita quotidiana liberandosi dalle perversioni
idolatriche grazie ai processi simbolici. Ed è Yisra'el che
rifiuta di essere Dio per amore di Dio.
Armand
Abécassis*
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* Esegeta biblico di
rinomanza internazionale, Armand Abécassis, professore di
filosofia comparata presso l'Università Michel-de-Montaigne di
Bordeaux, è una personalità di primo piano nell'ambito del
dialogo ebraico-cristiano europeo.
Autore di molti saggi intorno ad ebraismo e cristianesimo, tra cui
La Pensée juive, un imponente studio in quattro volumi (Hachette-Biblio-essais,
1996), e En vérité je vous le dis - Une lecture juive des Évangiles
(Hachette, 1999).
Questo commentatore di provata esperienza sui testi dell'Antico e
del Nuovo Testamento ha pubblicato nel 2000 la prima edizione di
un saggio molto provocatorio, che ha fatto scorrere molto
inchiostro, Judas et Jésus, une liaison dangereuse.
Un'opera di grande erudizione che riabilita l'apostolo Giuda,
maledetto dalla Chiesa per due millenni.
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