COMMISSIONE
PER I RAPPORTI RELIGIOSI CON L'EBRAISMO
NEL SOLCO DEL CONCILIO
Questo
importante discorso è stato pronunciato il 28 ottobre 2002 dal
Presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell'unità
dei Cristiani in occasione del 37° anniversario della
"Nostra Aetate", dichiarazione di condanna
dell'antisemitismo.
Solo poche
generazioni fa questo incontro sarebbe stato semplicemente
impensabile: ed è per questo che dobbiamo essere riconoscenti. Non
possiamo nasconderci che poche generazioni fa montagne di
pregiudizio e secoli di ingiustizia creavano una separazione fatale
fra cristiani ed ebrei.
L'esito e il punto di svolta di questa tensione, dolorosa per gli
ebrei e umiliante per i cattolici, è stato il Concilio Vaticano II,
di cui abbiamo ricordato il quarantesimo anniversario.
In quella
"nuova pentecoste" i cattolici, alla presenza e nella
compagnia con gli altri cristiani e in certo modo con tutta l'umanità,
hanno sperimentato come la fede possa consegnare a Dio il passato
perché lo giudichi e perché col perdono Egli possa aprire innanzi
ad ognuno vie di pace. Ed è per questo atto globale di fede (non
per opportunismo) che i cattolici hanno scoperto che potevano
guardare indietro al complesso fenomeno dell'antisemitismo e
deplorarlo - termine tecnico che il linguaggio ecclesiastico riserva
a ciò che l'antisemitismo è: un peccato.
Nel Concilio Vaticano II una generazione di credenti, con
"tranquilla audacia", come diceva Giovanni XXIII, ha preso
sul serio l'esperienza che s'era consumata durante la seconda guerra
mondiale: esperienza dell'orrore della Shoa' ed esperienza di una
fragilità silenziosa davanti all'immensità di quella tragedia.
Quella generazione conciliare si rese conto che il cambiamento di
atteggiamento nei confronti di Israele e del giudaismo non
apparteneva all'ambito della cortesia, ma stava al cuore della
ricomprensione della Chiesa come communio. Giovanni XXIII, il Padre
e poi Cardinale Agostino Bea, il Monsignore e poi Cardinale Johannes
Willebrands furono capaci di spiegare che nelle relazioni col
giudaismo e con Israele era in gioco niente di meno che l'anima
della Chiesa cattolica, la sua capacità di riconoscere
teologicamente come fedeltà e infedeltà avevano potuto convivere
l'una accanto all'altra.
Il punto non era imbarcare l'autorità della Chiesa in un processo
giudiziario postumo sul passato della Chiesa cattolica: questo è un
compito per il quale bastava e basta l'onestà della ricerca
storica.
Il punto non era trovare una persona o pochi leaders
"colpevoli" di alcuni dei tanti tragici errori che resero
possibile l'incubo della Shoà.
Il punto era comprendere quanto profondamente bisognava scendere per
sradicare la cultura del disprezzo e quanto necessaria era questa
purificazione della memoria che era anche purificazione del futuro
perché la Chiesa possa essere se stessa.
Giacché si può vivere lontano dai propri fratelli, ma non per
sempre. Si può sbagliare e rimanere silenti in una situazione
tragica: ma non si può rimanere in silenzio per sempre.
E il Concilio operò questo necessario cambiamento: disse una
parola, senza perdersi a condannare o ad assolvere, ma
concentrandosi sul nuovo cammino da compiere. Questo è stato un
cambiamento doloroso. Nei cinque volumi della Storia del Concilio
Vaticano II recentemente editi ci si può rendere conto di quante
resistenze, teologiche e politiche, europee, arabe ed israeliane, vi
furono per un atto - quella che poi sarebbe diventata la
dichiarazione Nostra Aetate - dopo il quale tutta la Chiesa ha
intrapreso un cammino di conversione di cui sembrava mancasse solo
l'inizio. Il Concilio proprio grazie alla sua capacità intrinseca
di far dialogare tesi diverse, mostrò il deficit teologico che
l'antisemitismo aveva causato alla Chiesa cattolica: un deficit
talmente grave da far apparire poca cosa il grande coraggio di
coloro che misero a repentaglio la propria vita per salvare le
vittime del tentato genocidio perpetrato dai nazisti, dai fascisti e
dai loro collaboratori. Passo dopo passo la Chiesa del Vaticano II
arrivò alla "deplorazione" conciliare del l'antisemitismo
e al riconoscimento solenne della validità perpetua della promessa
di Dio: da questo punto di vista Nostra Aetate, approvata la mattina
del 28 ottobre 1965, resta un reale punto di svolta.
Punto di svolta che non significa qualcosa di compiuto una volta per
sempre. Come nessuno può negare che il 1965 fu un reale
cambiamento, e nessuno può ritenere che quanto fu fatto nel 1965
esoneri le generazioni successive dal far proprio quel passaggio,
come se Nostra Aetate e il Vaticano II fossero una sequenza di
formule morte. Su questo punto, l'esempio di Sua Santità Giovanni
Paolo II è illuminante: egli è un modello vivente di cosa sia la
"ricezione" del Vaticano II. Recandosi da fratello nella
sinagoga della sua diocesi, impegnando le Chiese e le religioni a
pronunciarsi per la santa pace, recandosi pellegrino a Gerusalemme,
egli ha reso visibile come la qualità del discorso conciliare sia
espressa dal suo svilupparsi ed accrescersi, secondo una fedeltà
viva.
È infatti evidente che da un punto di vista teologico Nostra Aetate
ha affermato tutto quanto era strettamente necessario dire sulla
materia. E dunque, dopo il 28 ottobre 1965 non c'è spazio, sotto
nessun punto di vista, per l'antisemitismo nella chiesa cattolica.
Anzi. La Chiesa cattolica, come una madre paziente, è capace di
attendere coloro che per cultura o abitudine si sentono a disagio
davanti alla riforma liturgica o ad altre riforme del Vaticano II.
Ma la Chiesa cattolica non può accettare in nessuna forma e per
nessuna ragione l'attardarsi nel pregiudizio e nel disprezzo verso
gli ebrei e verso il giudaismo.
Su questo essa è impegnata e si impegnerà sempre più: con
l'insegnamento, con la vigilanza attenta sul proprio linguaggio, ma
soprattutto con l'incontro. È per questo che incoraggiamo e
partecipiamo volentieri ad iniziative come questa di cui il Centro
Dionysia di Villa Piccolomini ci dà l'occasione - per non presumere
di noi. Certo: gli ebrei sono i nostri fratelli maggiori nella fede
di Abramo e noi volentieri ascoltiamo le loro preoccupazioni, le
loro richieste; forse non sempre ci intenderemo su tutto; forse in
qualcosa ci deluderanno o li deluderemo. Ma la fraternità è
proprio questo contatto entro il quale uno ascolta il cuore
dell'altro come fosse il suo cuore.
Riconoscere che l'antisemitismo è stato un peccato contro la libertà
di Dio e la libertà dell'uomo comporta molte conseguenze:
l'antisemitismo metteva in discussione la libertà di Dio, nella
quale noi vediamo radicata ogni altra libertà che l'uomo intuisce
come naturalmente sua; e voleva privare gli ebrei della loro dignità
spirituale e della loro capacità di stare liberamente sulla scena
pubblica. Un peccato, dunque, che mette in gioco libertà e alterità.
E su questo l'esperienza del Magistero dei Vescovi e del Papa, della
Commissione che ho ora l'onore di presiedere permette di affermare
che per la Chiesa cattolica il giudaismo non è una delle tante
religioni con le quali aprire un dialogo rispettoso ed onesto, né
il partner di rapporto di reciproca cortesia. Il giudaismo nella sua
alterità può mostrare che ogni "altro" è per noi
allusivo di Colui che è totalmente Altro e totalmente Prossimo ad
ogni donna e uomo. È questo mistero di libertà che noi vogliamo
annunciare e sperimentare nell'incontro e nel dialogo
ebraico-cristiano.
Certo: in questo contesto politico le ragioni di preoccupazioni sono
molte e la condizione di guerra che oggi tormenta lo Stato d'Israele
e i Territori dell'Autorità nazionale palestinese non aiuta questo
percorso.
Ma per parte nostra siamo consapevoli che proprio questa condizione,
con le sue asimmetrie e le sue distorsioni, potrebbe far riemergere
linguaggi, immagini pericolose, nelle quali dal dissenso politico
sull'azione di un governo e dei suoi ministri (sempre legittimo), si
scivoli inavvertitamente verso una riduzione del diritto ad esistere
(e a sbagliare) di cui Israele gode, nei limiti e nei termini in cui
ne gode ogni altro Stato sulla terra.
Lo dico perché non vorrei che, quando si parla di relazioni
"religiose" con l'ebraismo, si avesse l'idea che la Chiesa
cattolica rivendichi una competenza marginale, limitata, parziale,
su un terreno che non interessa a nessuno, perché fa parte del
"privato religioso". Quando noi diciamo che da Nostra
Aetate in poi la stessa Chiesa cattolica vuole dedicarsi con un
organo permanente alle dimensione "religiosa" del dialogo
ebraico-cristiano, intendiamo indicare un tutto, rispetto al quale
le questioni politiche sono spesso un mero epifenomeno.
Per noi cristiani è un modo di affermare che noi non contribuiamo
al bene della società umana, alla crescita della bellezza,
all'esperienza del sapere lasciando la fede in un angolo: anzi
sappiamo che è vivendo fino in fondo la nostra fede come compagnia
con ogni uomo e donna possiamo rendere questa terra più bella e più
degna di chi l'ha creata.
E sappiamo che nella perversione di questo tesoro che portiamo in
vasi di creta c'è un abisso nel quale tutto - la pace, la dignità,
il bene - può essere travolto. Basta pensare a come l'accusa di
"deicidio" (usata contro gli ebrei in troppa predicazione)
ha creato e in qualche luogo continua a creare le condizioni di una
inimicizia che bestemmia sia il giudaismo che l'evangelo che
l'umanità. Rompendo con la perversione "religiosa" del
deicidio abbiamo dato come cristiani un contributo a credenti e non
credenti, riconoscendo che un giudizio dato per generalizzazioni è
sempre una ingiuria all'uomo come creatura immagine di Dio.
Come cristiani, come cattolici sappiamo che il perdono può essere
una scorciatoia astuta per sfuggire alla responsabilità e alla
conversione. E sappiamo anche che può essere un gesto sincero e
profondo (lo dicevamo in un appello che abbiamo sottoscritto con
molti uomini e donne di fede e di cultura nel marzo scorso) che apre
una via di pace, che dà, semplicemente, vita. In questo cammino
siamo avviati in una ricerca che è ricerca di libertà e di pace.
Come scrive Qoelet: "Dio ha messo la nozione di eternità nei
nostri cuori, senza però che possiamo capire l'opera sua dal
principio alla fine"; oggi, trentasette anni dopo Nostra Aetate
noi possiamo affermare che di quell'opera non abbiamo visto l'inizio
e forse non vedremo la fine.
Ma non dimenticheremo di benedire l'Altissimo per averci benedetto
con la possibilità di vivere oggi una realtà di pace e di
fraternità.
28 Ottobre 2002
Cardinale Walter Kasper,
Presidente
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