Giuseppe Laras
Un
intervento del rabbino capo di Milano a partire dall'articolo di don
Giussani pubblicato su la Repubblica del 2 gennaio 1999, dal titolo:
«Noi siamo degli ebrei». I motivi di un dialogo che deve
continuare, a partire dalla comune radice e dalla storia che ne è
nata
A distanza di sessant'anni dall'emanazione delle norme
anti-ebraiche del regime mussoliniano, a chi mi chiede un commento,
un'impressione o un ricordo che riassuma l'impatto che quella
normativa scellerata ebbe sugli ebrei italiani, che dall'oggi al
domani scoprirono di non essere più uomini e donne normali, ma una
sorta di "paria" emarginati ed estromessi dalla vita, che
fino a poco tempo prima, bene o male, riuscivano a condurre insieme
agli altri cittadini, io rispondo con una parola: incredulità.
Al di là, infatti, del dolore, delle preoccupazioni e della
disperazione che un tale stato di cose induceva in tutte le famiglie
degli ebrei d'Italia, lo stupore per un'iniziativa tanto criminale
quanto ingiusta, in me (allora ero piccolissimo) e nei miei era
prevalente su altri sentimenti, anche se in realtà chi avesse
tenuto d'occhio i segnali sempre più intolleranti che emergevano
dalla politica del regime già da diversi anni, si sarebbe accorto
che qualcosa di efferato stava maturando contro gli ebrei.
Oggi, con riferimento a quei giorni, sono più portato a chiedermi
come sia potuto accadere che la popolazione, cioè la gente comune,
i colleghi, i conoscenti dei quarantamila ebrei italiani, nella loro
stragrande maggioranza, non abbiano reagito, non abbiano mosso un
dito, non abbiano detto una parola magari solo di solidarietà e di
condivisione nei confronti delle vittime, fino a pochi giorni prima
persone libere e normali come loro.
Ricordando
la Shoah
A pensare e scrivere queste cose mi induce una lettera di Luigi
Giussani pubblicata su la Repubblica del 2 gennaio scorso,
intitolata «Noi siamo degli ebrei». Don Giussani si riferisce al
rifiuto di Pio XI di dare un avallo alle leggi razziali, come gli
veniva richiesto, rifiuto formulato più o meno con le parole «Noi
siamo spiritualmente degli ebrei».
È certo che questa frase torna ad onore del Papa di allora, ma, a
un tempo, fa emergere in maniera drammaticamente evidente come quei
nobili e religiosi sentimenti non fossero di fatto condivisi e
testimoniati dalla stragrande maggioranza dei cittadini italiani di
allora, tutti di fede cattolica. E viene, in particolare, da
chiedersi - stimolati dalle parole elevate di don Giussani - quale
concezione dell'uomo sia stata insegnata e trasmessa a quella
generazione, se si è potuto abbandonare alla persecuzione e alla
morte - senza dire o fare pressoché nulla - uomini, donne e bambini
che, ancorché colpevoli di essere ebrei, erano pur tuttavia
portatori, assieme a tutti gli altri uomini, del marchio divino
(immagine=zélem) che conferisce una sorta di sacralità da
non conculcare e da non profanare mai.
Debbo riconoscere che da quei tempi lontani a oggi, è stato
percorso un lungo tratto di strada che ha consentito al popolo
cristiano (almeno in una sua parte che non sono in grado di
quantificare, ma che è comunque qualitativamente rilevante) di
vedere con altri occhi e con altro cuore gli ebrei, riscoprendo
nella loro lunga e misteriosa storia spirituale taluni elementi
comuni che spiegano e giustificano alcuni tratti dell'identità
religiosa dello stesso popolo cristiano.
La
storia di Israele
Sono gli effetti del cosiddetto "dialogo" che, sia pur
faticosamente, sta plasmando un nuovo tipo di approccio da parte di
cristiani ed ebrei nei confronti gli uni degli altri.
Io oso pensare - anche in questo particolare contesto ci si sente
troppo inadeguati e fragili per esprimere giudizi e previsioni - che
da parte della Chiesa si dovrebbe insistere di più (anche se già
qualcosa si sta facendo in tale direzione) per una maggior
conoscenza della storia e della spiritualità di Israele, al fine di
riuscire a restituire un "volto ebraico" a Gesù.
Che cosa significa "un volto ebraico"? Significa che fino
a pochissimo tempo fa il volto, la figura, la vita, i pensieri, la
lingua di Gesù non avevano alcunché che ricordasse l'Ebraismo e l'ebraicità.
Eppure Gesù era ebreo e, fino alla sua morte, si muove e opera
all'interno di un'ottica, religiosa e comportamentale, assolutamente
ebraica.
Una tale operazione di estraneazione di Gesù dal popolo d'Israele -
che risponde evidentemente a motivi politici, apologetici e
quant'altro in cui, peraltro, non sono legittimato a entrare - ha,
secondo me, posto le premesse e acuito un antisemitismo divenuto
sempre più virulento e aggressivo.
Il recupero della figura di Gesù all'interno di un contesto
ambientale dominato da idee, concezioni e usi appartenenti alla
tradizione d'Israele, potrebbe - col tempo, con perseveranza, con
pazienza, con l'ottimismo che nasce dalla fede in un futuro
pacificato e affratellato, giusta la concezione messianica -
rivelarsi la carta vincente risolutiva della partita contro
l'antisemitismo cristiano.
Ritrovamento
e riconciliazione
Occorre che cristiani ed ebrei vadano avanti in questo cammino di
ritrovamento e di riconciliazione, ciascuno con la sua fede e le sue
certezze, nella consapevolezza che un superiore e misterioso disegno
provvidenziale entrambi ci coinvolge e ci guida fino al momento,
quando Dio vorrà, del suo disvelamento.
Come scrive don Giussani, penso anch'io che la fedeltà nell'attesa
di Dio sia faticosa e possa talvolta tradursi in uno stato doloroso
del credente. Aggiungerò solo che la certezza di un domani che sarà
migliore di oggi (è questa la quintessenza della dottrina
messianica d'Israele), unita a un senso di umiltà, che dobbiamo
ritrovare in vista di un appuntamento così promettente e grandioso,
potrà forse liberarci dalle angosce e dalle ingiustizie del
presente.
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