Elemento
unificatore di queste tre tematiche bibliche - popolo, esilio,
cammino - può essere considerato l'annuncio profetico di Isaia
48, canto di trionfo che annuncia la fine dell'esilio:
Uscite da Babilonia, fuggite dai
Caldei;
annunziatelo con voci di gioia,
diffondetelo,
fatelo giungere fino all'estremità
della terra.
Dite:
"Il Signore ha riscattato il
suo servo Giacobbe"
(Is 48, 20).
E un altro oracolo proclama:
Svegliati, svegliati,
rivestiti della tua magnificenza,
Sion,
indossa le vesti più belle,
Gerusalemme
(Is 52, 1).
E ancora:
Fuori, fuori, uscite di là!...
voi non dovete uscire in fretta, ne
andarvene come uno che fugge, perché davanti a voi cammina il
Signore,
il Dio d'Israele chiude la vostra
carovana
(Is 52,11-12).
Si potrebbe ancora citare Ez 36:
Vi prenderò dalle genti, vi radunerò da ogni terra
e vi condurrò sul vostro suolo
(Ez 36,24).
Il
popolo a cui sono rivolte queste e altre simili parole non è un
popolo qualunque, ma il popolo per eccellenza, il popolo di Dio.
L'esilio, perciò, non è un castigo senza speranza, una rimozione
dalla storia, ma tempo di prova in vista della salvezza. Il
cammino diventa così un ritorno pieno di fiducia, come una strada
di luce sulla quale tutti i popoli sono invitati a seguire
Israele:
Alzati,
rivestiti di luce,
perché viene la tua luce,
la
gloria del Signore brilla su di te
[...]
cammineranno i popoli alla tua luce,
i
re allo splendore del tuo sorgere
(ls
60, 1.3).
Così
questa promessa del ritorno dall'esilio tocca tutti i popoli:
lo
verrò a radunare tutti i popoli e tutte le lingue,
essi
verranno e vedranno la mia gloria
(ls
66, 18).
In
questo cammino, guidati dalla stella della redenzione, anche i
lontani diventano vicini al popolo di Israele, i popoli dispersi
si radunano in un solo popolo, per adorare un solo Dio, e
costruire insieme la pace, lo shalom biblico.
Pace e unità
sono dunque un solo grido profetico, una sola speranza, una
preghiera accorata, e questo ce lo diciamo ancora oggi, mentre
ascoltiamo il grido delle folle dei poveri che bussano alla nostra
porta, dei popoli martiri in tante parti del mondo.
Il
popolo ebraico, ancora ai nostri giorni, nella sua costante
tensione fra una diaspora dalle mille voci e una rinascita
nazionale nello stato d'Israele, testimonia del cammino continuo
dal particolare all'universale e viceversa, proteso nella ricerca
di creare un popolo nuovo e un uomo nuovo, l'antico Adamo
rinnovato.
Per
i credenti in Gesù Cristo questa tensione può ben esse- re
espressa con le parole di san Paolo agli Efesini:
In
Cristo Gesù,
voi [popoli pagani] che un
tempo eravate lontani,
siete diventati i vicini
grazie al sangue di Cristo.
Egli infatti è la nostra
pace,
colui che ha fatto dei due un
popolo solo,
abbattendo il muro di
separazione
che era frammezzo, cioè
l'inimicizia
[...] per creare in se stesso,
dei due,
un solo uomo nuovo facendo la
pace,
e per riconciliare tutti e due
con Dio
in un solo corpo, per mezzo
della croce,
distruggendo in se stesso
l'inimicizia.
Egli è venuto perciò ad
annunziare pace a voi che eravate lontani
e pace a coloro che erano
vicini
(Ef2,13-17).
Alla luce di questi testi
rifletteremo dunque sui legami fra i tre termini il popolo,
l'esilio e il cammino e ci porremo tre domande.
Può ancora oggi il popolo ebraico essere posto da un cristiano
sotto la categoria teologica di "popolo di Dio", cioè
ricevere lo stesso appellativo che la chiesa cristiana dà a se
stessa? È noto infatti che la categoria di "popolo di
Dio" è una di quelle che il Concilio Vaticano II ha
privilegiato per descrivere la chiesa. Dopo avere, nel primo
capitolo della Lumen Gentium, richiamato molti termini e
immagini per descrivere la Chiesa, come ovile o campo di Dio,
edificio di Dio, tempio, sposa, corpo di Cristo, la costituzione
conciliare sviluppa nel secondo capitolo il tema del "popolo
di Dio", popolo che "ha per capo Cristo [...] ha per
condizione la libertà e la dignità dei figli di Dio [...] ha
per fine il Regno di Dio".(1)
In che senso può
dunque la stessa espressione designare, nel linguaggio teologico
cristiano, anche gli ebrei di oggi?
Una risposta precisa a questa domanda è importante per definire
in maniera positiva e con rigore teologico il ruolo provvidenziale
e salvifico di quel popolo di Dio che è oggi Israele in una
visione cristiana della storia del mondo, come pure per definire
il rapporto di comprensione e collaborazione che è possibile
sviluppare tra la chiesa e Israele, al di là della mutua
accettazione e tolleranza, nel quadro del disegno di Dio sul
cammino umano.
Di fatto la designazione del popolo ebraico odierno come "popolo
di Dio" insieme con la chiesa di Cristo appare per esempio
nel documento del Segretariato per l'unione dei cristiani del 4
giugno 1985 dal titolo Ebrei
ed ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa
cattolica. Sussidi per una corretta presentazione. In esso
si afferma che l'quando il popolo di Dio dell'antica e della nuova
alleanza considera l'avvenire, esso tende, anche se partendo da
due punti di vista diversi, verso fini analoghi: la venuta o il
ritorno del Messia".(2)
E continua dicendo:
la persona del Messia, sulla quale il popolo di Dio è diviso,
costituisce per questo popolo anche un punto di convergenza. Si può
pertanto dire che ebrei e cristiani si incontrano in un'esperienza
simile, fondata sulla stessa promessa fatta ad Abramo (cfr. Gen
12, 1.,3; Eb 6, 13-18)".(3)
Dunque in questo
documento si parla per tre volte di un unico popolo di Dio,
intendendo gli ebrei e i cristiani di oggi. Quale significato
preciso può avere un tale modo di esprimersi, a cui forse non
siamo abituati, e quali conseguenze esso comporta per il nostro
agire di cristiani?
Che senso può avere l'esilio per il
popolo di Dio? Quale in particolare il senso dell'esilio per il
popolo ebraico biblico e quale il senso per le chiese cristiane?
C'è un significato particolare dell'esperienza dell'esilio per la
chiesa cattolica nel suo insieme o comunque per le diverse realtà
o aggregazioni che la compongono?
Il cammino dell'esilio verso la
patria può essere fatto in qualche modo insieme da ebrei e
cristiani? Come esso tocca anche gli altri popoli della terra?
Il popolo
Veniamo anzitutto a considerare
attentamente, in spirito di fede, il mistero del popolo ebraico,
con il quale la chiesa ha in comune un grande patrimonio
spirituale (richiamato ampiamente dal Concilio Vaticano n nel
decreto Nostra Aetate,
4).(4)
Se è vero, infatti, che esistono
differenze sostanziali tra cristiani ed ebrei a motivo della fede
in Gesù Cristo redentore e della corrispondente dottrina
cristologica (evidenti in specie nelle categorie teologiche oggi
più correnti, e meno nelle formulazioni giudeo-cristiane
originarie), è però altrettanto vero che i figli d'Israele
restano "carissimi propter patres" (Rrn 11, 28),
partecipi, in quanto figli primogeniti, dei tesori spirituali
dell'alleanza di Dio con Abramo e con Mosè. Essi sono, pertanto,
nostri "fratelli maggiori nella fede di Abramo"
(Giovanni Paolo II, 31 dicembre 1986), in quanto "possiedono
l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il
culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo
la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei
secoli" (Rm 9,4-5).
Tra questi tesori di fede del popolo ebraico si trovano in
particolare le Sacre Scritture ebraiche; la Torah, i Nevi'im
(i Profeti), i Ketuvim (Scritti), entrati a far parte
del canone cri- stiano. Il Catechismo della Chiesa cattolica, riassumendo
una bimillenaria tradizione, afferma: "L'Antico Testamento è
una parte ineliminabile della Sacra Scrittura. I suoi libri sono
divinamente ispirati e conservano un valore perenne, poiché
l'Antica Alleanza non è mai stata revocata".(5)
Il filosofo ebreo Franz Rosenzweig nel suo libro La stella
della redenzione (pubblicato nel 1921) scrive: "Come
mostra quella lotta sempre attuale contro gli Gnostici, è l'
Antico Testamento che rende possibile la resistenza del
Cristianesimo contro i suoi stessi pericoli interni".(6)
E sant'Ambrogio
diceva: "Bevi per prima cosa l'Antico Testamento, per bere
poi anche il Nuovo Testamento. Se non berrai il primo, non potrai
bere il secondo".(7)
Tesori comuni a ebrei e cristiani sono pure la rivelazione
del Dio unico, creatore e padre, ma anche tenero e materno; il
dono dei comandamenti che hanno dimensione etica universale, di
perenne valore per l'umanità; l'intera Torah e lo studio (Talmud)
della Parola rivelata.
Tra i segni particolari della fede del popolo di Israele va
ricordata la circoncisione. Di essa così parla il Catechismo
della Chiesa cattolica: "La circoncisione di Gesù, otto
giorni dopo la nascita, è segno del suo inserimento nella
discendenza di Abramo, nel popolo dell'Alleanza, della sua
sottomissione alla Legge, della sua abilitazione al culto
d'Israele al quale parteciperà durante tutta la vita. Questo
segno è prefigurazione della 'circoncisione di Cristo' che è il
battesimo".(8)
Si può
comprendere, quindi, che san Tommaso abbia lungamente studiato
questo evento dell'infanzia di Gesù, e al termine della Summa sia
giunto alla conclusione che la circoncisione "dava la
grazia", in quanto "segno di fede nella passione di
Cristo futura": "Et ideo dicendum quod in
circumcisione conferebatur gratia quantum ad omnes gratiae
effectus [...] in quantum erat signum passionis Christi futurae".
E in una risposta a un'obiezione aggiunge: "Sed et
circumcisio, si haberet locum post passionem Christi, introduceret
in regnum".(9)
Molte e varie possono essere le modalità di accesso al popolo di
Israele e al suo mistero. Il Catechismo della Chiesa cattolica ce
ne ricorda diverse, tra cui l'epifania di Cristo, con queste
parole: "L'Epifania è la manifestazione di Gesù come Messia
d'Israele, Figlio di Dio e Salvatore del mondo; insieme con il
battesimo di Gesù nel Giordano e con le nozze di Cana, essa
celebra l'adorazione di Gesù da parte dei magi venuti
dall'Oriente". La venuta dei magi, che "rappresentano le
nazioni pagane circostanti [...] sta a significare che i pagani
non possono riconoscere Gesù e adorarlo come Figlio di Dio e
Salvatore del mondo se non volgendosi ai giudei e ricevendo da
loro la promessa messianica quale è contenuta nell'Antico
Testamento. L'Epifania manifesta che 'la grande massa delle
nazioni' entra nella 'famiglia dei Patriarchi' (san Leone Magno, Sermones,
23) e ottiene la 'dignità israelitica' (Messale Romano,
orazione dopo la seconda lettura della veglia pasquale)".(10)
A proposito del popolo ebraico e della sua missione attuale si
possono ancora ricordare alcune autorevoli affermazioni
pontificie:
"Dio agisce per amore gratuito. Questo amore lega Israele con
Dio Signore in modo particolare ed eccezionale. Per esso Israele
è divenuto proprietà di Dio [...]. Così nell'Alleanza [del
Sinai] nasce un nuovo popolo, che è il popolo di Dio [...].
Israele è chiamato ad essere un popolo di sacerdoti".(11)
"Israele fa l'esperienza di un Dio personale e salvatore (cfr.Dt
4,37; 7,6-8; Is 43, 1-7), del quale diventa il testimone e il
portavoce in mezzo alle nazioni. Nel corso della sua storia
Israele prende coscienza che la sua missione ha un significato
universale (cfr., ad esempio, Is 2,2-5; 25,6-8; 60, 1-6; Ger 3,
17; 16, 19)".(12)
Con questi brevi
cenni possiamo forse meglio entrare nelle profondità del mistero
di quel popolo che è il popolo ebraico e della conseguente
comunione che ci lega a esso fin dalle radici della Chiesa, popolo
dell'alleanza rinnovata ed eterna. Papa Giovanni Paolo Il
riassumeva così (6 dicembre 1990) gli elementi fondamentali su
cui sviluppare oggi le relazioni religiose tra queste due parti
del popolo di Dio: "Quando noi consideriamo la tradizione
ebraica, osserviamo quanto profondamente voi venerate la sacra
Scrittura, la Miqrah e in particolare la Torah. Voi
vivete una relazione speciale con la Torah, insegnamento
vivo di Dio vivo. Voi la studiate con amore, nel Talmud Torah, per
praticarla nella gioia. n suo insegnamento dell'amore, della
giustizia, del diritto, è ripetuto nei profeti - Nevi'im -
e nei Ketuvim.
Dio, la sua santa Torah, la
liturgia sinagogale e le tradizioni familiari, sono certamente
elementi caratteristici del vostro popolo, dal punto di vista
religioso. E questi elementi costituiscono il fondamento del
nostro dialogo e della nostra cooperazione".
A queste relazioni tutte particolari fra chiesa e popolo ebraico
fa chiaro riferimento anche il recente Accordo fondamentale fra
Santa Sede e Stato di Israele (30 dicembre 1993).
L'esilio
L'esperienza dell'esilio, della lontananza dalla patria, è
presente fin dalle origini del racconto biblico: Adamo ed Eva sono
esiliati dal paradiso, Caino fugge ramingo dopo il fratricidio, i
popoli si disperdono lontano da Babele. L'esilio e la prigionia
toccano poi più direttamente il popolo ebraico: Giuseppe è
venduto come schiavo agli egiziani, Israele - il popolo del Nord -
è sottomesso agli assiri nel 722 a.C., Giuda e Gerusalemme sono
infine distrutte dai babilonesi nel 586 a.C. Viene poi l'ultimo
esilio, apparentemente interminabile, dal 70 d.C. al 1948, anno hj
della rinascita di uno Stato d'Israele nella terra dei padri.
Come
già abbiamo visto a proposito del popolo di Dio, anche
nell'esperienza dell'esilio ritornano alcune dimensioni
fondamentali della vita di Israele: il suo rapporto con il Dio
dell'alleanza, con la terra di santità, con gli altri popoli in
mezzo ai quali è disperso. Infine, quasi al limite di ogni
esperienza vissuta e possibile, si colloca un abisso di orrore
indicibile che ha portato oltre l'esilio, in una notte oscura, il
popolo ebraico in Europa sotto il dominio nazista: lo sterminio
sistematico, la Shoah.
Mentre dall'esilio ci si poteva attendere che "un resto
ritornerà", germoglio santo della redenzione, dalla Shoah
questa speranza viene negata in linea di principio.
Possiamo dire che con la Shoah
appare possibile un duplice esito dell'esilio: sia come redenzione
(l'esito tradizionale annunciato dai profeti), sia come
antiredenzione (l'esito diabolico dell'annichilimento del popolo
ebraico).
L'esilio di per sé non distrugge il
rapporto fra Dio e il suo popolo, anzi, mentre ne rende più acuta
l'esigenza, lo fa maturare, predisponendo alla conversione e alla
redenzione. Costringendo a lasciare Gerusalemme, l'esilio fa
comprendere, nel dolore, tutta la profondità e il valore
spirituale del Santo dei santi e dei sacrifici, cessati con la
distruzione del tempio. La Shekinah, la Gloria di Dio, non
lascia per questo il popolo, ma va con lui in esilio in mezzo alle
nazioni pagane, continuando a preparare così la diffusione
universale del messaggio della salvezza rivolto in principio a un
solo popolo particolare. Il profeta Ezechiele vede la gloria di
Dio presso i deportati in Babilonia, e l'annuncia con queste
parole: "Giunsi dai deportati di Tel Aviv, che abitano lungo
il canale di Chebar, dove hanno preso dimora [...] ed ecco, la
gloria del Signore era là" (Ez 3, 15.23); il profeta
descrive anche l'esilio della Shekinah: "La gloria del
Signore uscì dalla soglia del tempio" (Ez 10, 18).
E un testo della tradizione
successiva aggiunge, come sentenza di R. Shimon ben Jochaj:
"Vieni e guarda quanto è caro Israele al Santo, benedetto
sia: in ogni luogo in cui essi vennero esiliati la presenza di Dio
era con loro" (Meghillot 29a).
Nell'esilio millenario si alzano più
struggenti le lamentazioni attribuite a Geremia e le elegie, dense
di commozione e di pianto per il tempio distrutto. L'esilio è un
costante appello alla conversione dal peccato e alla missione di
Israele tra le nazioni pagane.
In questo senso l'esilio di
Israele è un caso tipico per ogni fatto simile della storia.
L'esilio infatti è una situazione dolorosa e spesso drammatica,
che, in vario modo, tocca tante persone e tanti gruppi sociali.
Anche ai nostri giorni i fenomeni dell'emigrazione, delle guerre,
delle fughe di intere popolazioni ci coinvolgono tutti. "
La risposta esemplare offerta dal popolo ebraico può pertanto
essere considerata paradigmatica: nelle situazioni d'esilio
scaturisce più intensa la preghiera, matura la coscienza della
fraternità, si creano nuovi vincoli e strutture di solidarietà.
Ben diversa è la situazione di quell'aldilà dell'esilio che può
rifarsi alla Shoah. L'immensità del martirio del popolo ebraico
sembra qui invitarci a un infinito silenzio, dal quale possa
scaturire un proposito, un gesto, un grido di perdono a causa del
male compiuto. La conversione, dopo la Shoah, è un appello
urgente e necessario non per il popolo ebraico in esilio, ma per
coloro che hanno concepito e predisposto l'annientamento di questo
popolo, e con esso, per assurdo, l'annientamento di Dio stesso, se
fosse stato possibile.
Il paganesimo assoluto e mostruoso è
apparso nel centro dell'Europa del ventesimo secolo, dopo duemila
anni di annuncio del Vangelo.
Spesso, purtroppo, dobbiamo riconoscere che la dottrina cristiana
aveva proposto un "insegnamento del disprezzo" nei
confronti dei nostri fratelli ebrei. Dopo la Shoah, dobbiamo
sostituirlo con "l'insegnamento del rispetto", della
conoscenza, della stima, dell'amore fraterno.
Dobbiamo anche
vigilare attentamente perché i sentimenti del passato non
ritornino mai più, né nella chiesa, né nei giovani, ne nella
società. Abbiamo bisogno anche noi della conversione, la teshuvah,
per riprendere insieme il cammino della salvezza. Preghiamo il
Signore che ci dia occhi nuovi ed energie rinnovate per questo
pellegrinaggio.
Infatti il popolo ebraico, aiutandoci a comprendere il senso di
ogni sofferta lontananza dalla patria, ci invita a riflettere su
forme particolari di esilio che toccano da vicino il popolo dei
cristiani, il popolo di tutti i credenti in Cristo (cattolici,
ortodossi, protestanti) e anche il senso di esperienze di esilio
per i cattolici, nella loro totalità o in gruppi e aggregazioni
diverse.
Vi sono tante vicende storiche che
possono essere interpretate come l' esilio da una patria, da una
cultura, da un contesto culturale, sociale e anche politico al
quale ci si era abituati e anche un po' come adattati. In questo
senso ogni privazione di un radicamento precedente, di una terra
sicura sotto i piedi,di un terreno su cui contare, di un
palazzo o di una casa spirituale da abitare con tranquillità è
una prova, una sofferenza, spesso anche uno strappo doloroso, un
trauma.
A esso si può reagire con la
rabbia, oppure con una nostalgia rassegnata e passiva, o
addirittura con il chiudere gli occhi all'evidenza e non volere
che ci sia stato ciò che c'è stato, o volere a tutti i costi il
ritorno a ciò che fu.
È possibile invece reagire come i
profeti hanno insegnato a Israele: riconoscendo la mano di Dio,
lasciandosi purificare dalla prova, cercandone il senso.
Una particolare forma di esilio, di
privazione della patria, è quella dell'esilio culturale, dello
sfocarsi di evidenze ideologiche che costituivano la tela di fondo
su cui esprimere i nostri pensieri, del venir meno di abitudini
che sembravano ovvie. Vi sono, sia chiaro, alcune certezze che non
verranno mai meno: sono quelle che riguardano l'amore di Dio che
è stato diffuso nei nostri cuori dallo Spirito Santo, l'amore con
cui Cristo ci ha amato fino alla morte. Su questo non può esserci
dubbio. Qui, come dice san Paolo, "la speranza non
delude" (Rm 5, 5). Ma vi sono al contrario giudizi
categoriali, abitudini mentali, processi ideologici su cui
contavamo, che è bene che talora vengano messi in questione, per
cogliere ciò che è essenziale. L'esilio diventa allora uno
stimolo per il cammino.
Il cammino
La chiesa crede di essere
il popolo di Dio pellegrino nel mondo, popolo bisognoso di
conversione e chiamato in Cristo a essere servo di pace tra gli
uomini e i popoli.
Nello stesso tempo, con eguale
forza, la chiesa riconosce egualmente nel popolo ebraico un popolo
chiamato esso pure a una missione particolare di santità e di
pace nel mondo.
Pensatori, teologi ed esegeti
hanno il dovere di riflettere sui vari aspetti di questo popolo di
Dio che si presenta in due diverse comunità di fede.
Ma il fatto
che abbiamo ripreso, dopo duemila anni di estraneità,
incomprensioni, persecuzioni, a parlarci e a camminare insieme,
lavorando insieme per la pace e la giustizia, è una prova forse
maggiore delle dimostrazioni teologiche, di cui pure abbiamo
urgente bisogno.
È quanto affermava il 2 febbraio 1994 il
cardinale Ratzinger a Gerusalemme durante un convegno interreligioso:
"Penso che il nostro compito principale è diventato più
chiaro [...] Ebrei e cristiani dovrebbero accettarsi
reciprocamente in profondo spirito di riconciliazione interiore,
non disprezzando o negando la propria o altrui fede, ma a motivo
delle radici della loro fede. Nella loro mutua riconciliazione
dovrebbero divenire una forza di pace nel mondo e per il mondo.
Con la loro testimonianza dell'unico Dio, che non può essere
adorato senza un amore unico per Dio e per il prossimo, essi
dovrebbero aprire per Dio la porta nel mondo, così che la sua
volontà 'sia fatta in terra così come è fatta in cielo', perché
'venga il Suo Regno' ".
Il nostro
camminare insieme è un peregrinare operoso e orante verso la città
di Dio, la celeste Gerusalemme, verso quella che possiamo chiamare
tutti la "nostra terra", il "nostro paese".
Possiamo
ascoltare in proposito una delle grandi preghiere : che nutrono la
fede del popolo ebraico in cammino, la Ahavà . rabbà:
Di un grande amore ci hai amati, Signore, nostro Dio; di una
grande, infinita pietà ci hai fatto oggetto. Nostro Padre,
nostro Re, in , grazia dei nostri progenitori che hanno avuto
fede in te e ai quali hai insegnato le tue leggi di vita, sii
propizio anche con noi e istruiscici. Padre nostro, Padre
misericordioso, clemente, abbi pietà di noi e dà al nostro
cuore la facoltà di discernere e di comprendere, di ascoltare,
di imparare e di insegnare, di osservare e di praticare con
amore tutte le parole che studiamo nella tua Torah. Illumina
i nostri cuori con la luce della tua Legge, avvinci il nostro
cuore ai tuoi comandamenti e disponi il nostro animo all'amore e
i al timore del tuo Nome, sì che non abbiamo mai da arrossire.
Noi fidiamo nel tuo Nome santo, grande e venerabile e perciò
noi giubileremo e gioiremo per il tuo soccorso. Riuniscici in
pace dai i quattro angoli della terra e riconducici a testa alta
nel nostro paese, poiché tu sei Dio, autore di salvezza, e noi
hai scelto fra tutti i popoli e tutte le lingue e ci hai
avvicinati al tuo Nome grande perché ti lodiamo e proclamiamo
la tua unità con ardore. Benedetto tu, Signore, che nel tuo
amore eleggesti il tuo popolo Israele.
La
meta e il centro di questo cammino dei popoli è Gerusalemme.
Verso di essa leviamo i nostri occhi, per la sua pace prega il
nostro cuore. Ma non per questo dimenticheremo l'immensa e urgente
sofferenza del mondo. Lavoreremo insieme, qui, ovunque.
Tra gli impegni
comuni vorrei ricordare anche quello contenuto negli accordi
tra Santa Sede e Stato d'Israele, per combattere ogni forma di
antisemitismo e tutti i tipi di razzismo e di intolleranza
religiosa. Tale impegno va sempre mantenuto alto, in tutti i
campi.
Altre aree e modalità di
collaborazione sono state definite dal Comitato internazionale
cattolico-ebraico, che fu istituito ne1 1970.
Si è discusso dei
temi della famiglia, ecologia e diritti umani. Per la prima volta,
forse dal 49 d.C., cioè dal Concilio di Gerusalemme, temi
religiosi e precetti esplicitamente elaborati dalla comunità e
dalla tradizione ebraica e dalla comunità cristiana (in questo
caso in materia di famiglia) sono stati affermati come tali, e
come tali sono entrati in un documento comune sulla famiglia. In
questa dichiarazione comune si afferma "il valore sacro del
matrimonio stabile e della famiglia [...] La famiglia è la
risorsa più preziosa dell'umanità. Per ebrei e cristiani è una
comunità stabile di amore e solidarietà fondata sull'alleanza di
Dio".
Camminando insieme stiamo
cominciando a sperimentare e a capire che l'identità cristiana
non ha bisogno, per affermarsi, di negare l'identità ebraica e
la Torah, né, viceversa, l'identità ebraica si afferma
negando il valore della chiesa, popolo dell'alleanza rinnovata nel
sangue di Cristo.
Ancor più fortemente e in modo asimmetrico, noi
cristiani abbiamo invece bisogno, per comprendere la chiesa, di
affermare l'identità ebraica e la Torah. Franz Rosenzweig
lo esprime in maniera efficace: "Se il cristiano non avesse
alle sue spalle l'ebreo, si perderebbe, dovunque si trovi". (13)
Conclusione
Vedo
un grande monito e una grande missione.
Occorre affermare la propria identità
non nella contrapposizione ma nella apertura e nella comprensione.
Potremo capire sempre meglio noi
stessi quanto più ci sforzeremo di capire, amare, apprezzare
tanti altri, anche molto diversi, cercando le radici dell'impegno
comune.
A proposito dell'impegno comune per
la famiglia, il documento ebraico-cristiano sulla famiglia sopra
citato dice ancora:
"La
società è chiamata a sostenere i diritti della famiglia e dei
membri della famiglia, specialmente donne e bambini, il povero e
il malato, il giovanissimo e l'anziano, a una sicurezza fisica,
sociale, politica ed economica. I diritti, doveri e opportunità
delle donne sia in casa come nella più ampia società devono
essere rispettati e promossi. Nell'affermare la famiglia, noi
vogliamo raggiungere nello stesso tempo anche altre persone come
le persone non sposate, i genitori singoli, i vedovi e le vedove
e coloro che non hanno bambini, nelle nostre società e nelle
nostre sinagoghe. In vista della dimensione mondiale della
questione sociale oggi, il ruolo della famiglia è stato esteso
così da coinvolgere una cooperazione per un nuovo senso di
solidarietà internazionale".
La nostra reciproca estraniazione di
ebrei e cristiani è durata venti secoli, ci siamo inflitti
reciprocamente un esilio ingiusto che ha privato noi e il mondo di
immense ricchezze spirituali. Si è trattato, insieme, di un
esilio dalla Terra di Dio e dalla casa del fratello. Ecco ora il
tempo propizio, il momento favorevole: lavoriamo da fratelli perché
altri fratelli, altri popoli, passino dall'esilio al cammino
comune, al santo pellegrinaggio verso la Gerusalemme che è nostra
madre, città di pace e di giustizia.
_________________________
1. Concilio Vaticano II, Lumen
Gentium, 9: Enchiridion Vaticanum 1/309.
2. N. 10: Enchiridion Vaticanum 9/1634.
3. Ibidem.
4. Cfr. Enchiridion Vaticanum 1/86155.
5. Catechismo della Chiesa cattolica, D. 121.
6. La stella della redenzione, Marietti, Genova 1985, p.
443.
7. Commento ai dodici salmi, Sal 1, 33.
8. Catechismo della Chiesa cattolica, n. 527.
9. Summa Theologiae, IIIa, q. LXX, art. IV, corpus et ad
4.um.
10 Catechismo della Chiesa cattolica, n. 528.
11 Giovanni Paolo II, Catechesi del mercoledl, 16 agosto 1989.
12 Giovanni Paolo Il, Redemptoris Missio, 12: Enchiridion
Vaticanum 12/574.
13 La stella della redenzione, cit., p. 442.
[Relazione al
meeting di Rimini, 20 agosto 1994, in Guardando al futuro,
EDB, Bologna 1995]