Premessa
Quando ero professore di Sacra
Scrittura e avevo l' occasione di andare frequentemente in Israele
per motivi di studio e di trovarmi con studiosi ebrei, il mio
approccio al problema delle relazioni ebraico-cristiane era
influenzato dall'aspetto sociale e culturale.
Ora che sono
vescovo, e quindi responsabile di una comunità cristiana, vedo il
problema in un modo in un certo senso molto più semplice, quasi
ingenuo.
Non si tratta,
infatti, di discutere tra specialisti sui rapporti fra ebrei e
cristiani, ma piuttosto di trovare dei punti di riferimento per il
popolo di Dio, anche perché il problema si è fatto più preciso
e decisivo per il futuro della chiesa stessa. La posta in gioco
non è semplicemente la maggiore o minore vitalità di un dialogo,
bensì l'acquisizione della coscienza, nei cristiani, dei loro
legami con il gregge di Abramo e le conseguenze che ne deriveranno
per la dottrina, la disciplina, la liturgia, la vita spirituale
della chiesa e addirittura per la sua missione nel mondo d'oggi.
D'altra parte, la
necessità che la chiesa si autocomprenda vitalmente nella sua
natura e missione in relazione al popolo ebraico richiede
innanzitutto attenzione a ciò che il popolo ebraico dice e pensa
di se stesso. Per questo mi sembra importante richiamare, come
punto di partenza, qualche aspetto dell'autocoscienza religiosa
ebraica alla luce di alcuni gravi problemi che i cristiani e tutta
l'umanità si trovano oggi di fronte.
In un secondo
momento suggerirò le tappe che potrebbero aiutare lo sviluppo
delle relazioni ebraico-cristiane al fine di affrontare insieme i
problemi comuni del nostro tempo.
Sarà così
possibile, in un terzo momento, comprendere quali mete si
raccomandano come necessarie per un'azione comune che dovrebbe
corrispondere alla natura e alla missione dei cristiani e degli
ebrei in obbedienza allo stesso comandamento di Dio.
Alcuni aspetti dell'autocoscienza
religiosa ebraica e i gravi problemi
dell'umanità contemporanea
Il passo di
Deuteronomio 6 rimane essenziale per la comprensione della
tradizione religiosa ebraica: " Ascolta Israele, il Signore
è il nostro Dio, il Signore è uno. Amerai il Signore tuo Dio con
tutto il tuo cuore" (6, 4).
Rashi commenta lo Shema'
osservando che "Dio non è ancora il Dio dei popoli
idolatri, ma un giorno, come profetizzano Sofonia e Zaccaria, ci
sarà un solo Signore e unico sarà il suo nome.
E Michea profetizza
la missione universale di pace che Israele è destinato a portare
in mezzo a tutti i popoli: "Sarà portatore di pace [...] e
il resto di Giacobbe sarà in mezzo a molti popoli come rugiada
sull'erba" (5, 4, 6).
La creazione
stessa, secondo il commento di Rashi al capitolo 1 della Genesi,
è orientata alla Torah e a Israele. Dio creò il mondo "bishvil
ha Torah", per amore della Torah, e "bishvil
Ysra'el", per amore di Israele. Israele è dunque
consapevole di essere un popolo separato per il servizio
sacerdotale, consacrato per guidare tutti i popoli alla perfetta
obbedienza e all'amore di Dio.
Perciò l'ebraismo
non può disperare della fedeltà di Dio, è prigioniero della
speranza. Ma anche noi siamo legati a questa speranza.
Nonostante la
fedeltà di Dio all'alleanza e all'amore per il suo popolo,
Israele ha rischiato più volte, nel cammino della storia, di
essere eliminato e si è trovato spesso in condizioni di
inferiorità e di persecuzione.
Come vanno
interpretati questi avvenimenti senza cedere alla disperazione,
senza rischiare di rimuoverli, nella loro tremenda e concreta
realtà, dalla memoria storica?
Le reazioni degli
ebrei di fronte a queste tragedie furono, di volta in volta,
diverse: talora ne cercarono la causa nella disobbedienza alla
legge; in altri momenti accusarono l'ingiusti- zia dell'uomo;
oppure cercarono conforto adorando, in silenzio, l'incomprensibile
mistero di Dio.
Leggiamo, ad
esempio, nel Midrash Rabbà sul libro delle Lamentazioni:
"Israele fu punito", dice ben Aza'i, "per aver
ripudiato l'unico Dio, la circoncisione, i dieci comandamenti, i
cinque libri della Torah".
La Mishnah, in
un noto passo, mostra con quale coscienza unitaria l'ebraismo
rifletteva su questi fatti della sua storia: "Cinque
disgrazie caddero sui nostri padri il 17 di Tammuz e il 9 di Ab;
il 17 di Tammuz, le tavole della legge furono spaccate, l'offerta
quotidiana interrotta e una breccia fu aperta nella città e
Apostomos bruciò i rotoli della legge e mise un idolo nel tempio;
il 9 di Ab fu decretato che i nostri padri non sarebbero entrati
nella terra promessa, il tempio fu distrutto la prima e la seconda
volta, Bethar fu catturato e la città fu devastata".
L'ultima di tutte
queste grandi tragedie è stata la Shoah: essa non ha alcuna
proporzione con le persecuzioni precedenti e appare come il climax
tragico dell'antisemitismo dei millenni precedenti.
Mi riferisco ad
Auschwitz: alcuni ebrei lo giudicano come il martirio e la
sofferenza più duri che Dio abbia chiesto ad Israele; altri (André
Neher ed Elie Wiesel) come il tempo del più grande buio e del
totale silenzio di Dio.
Ma la speranza
continua a brillare sul sentiero del popolo ebraico attraverso la
storia. La speranza riemerge dall'orrore della Shoah perché c'è
un segno concreto che splende come un faro nella notte: è la
promessa messianica di una terra, della terra riconciliata di
Gerusalemme, la città della pace, di un mondo futuro, di uno shalom
messianico. Questo sguardo verso il futuro, nonostante e forse
proprio a causa di cosi numerose sofferenze, ci conduce al cuore
di un problema che affligge non solo Israele ma anche la chiesa.
Israele ha una missione messianica universale di "shalomizzazione"
del mondo; la chiesa si propone di portare gli effetti della
riconciliazione attuata da Cristo al mondo e all'universo intero.
Le
tappe per aiutare e sviluppare le relazioni ebraico-cristiane
A partire da queste
considerazioni e per comprendere meglio le mete verso le quali
ebrei e cristiani possono muoversi insieme, suggerisco sei tappe.
La prima tappa è
la preghiera. Siamo consapevoli che, nel dramma della storia,
"l'uomo non è solo". Dimensioni insospettate di fede,
speranza e amore si aprono sia per il laico sia per l'uomo di
chiesa, sia per l'ebreo sia per il cristiano.
Per il cristiano,
il vertice della tensione religiosa è l'eucaristia. Per l'ebreo,
ogni momento e ogni condizione di vita è una possibilità di
adorare il nome dell'Altissimo, è un'opera di santo servizio, di Avodà:
la Torah, lo Shabbat, il Talmud (lo
studio), le mitzvot, sono tutti esempi di questi modi e
momenti di culto spirituale.
È allora
necessario che i cristiani comprendano questo costante
atteggiamento ebraico di benedizione e di lode: Berakhà e Todah.
Per vivificare l'eucaristia, per celebrare la liturgia con
tutti i venerandi e preziosi valori anche oggi presenti nella vita
ebraica intesa come liturgia, come Avodà, i cristiani
dovrebbero abituarsi sempre di più a capire le preghiere e la
spiritualità degli ebrei.
La seconda tappa è
precisamente uno di questi valori dell'ebraismo: la conversione
del cuore, teshuvah.
Per l'ebreo, ogni
giorno è fatto per la teshuvah del singolo e della comunità.
Ogni giorno, perciò, è anche per noi il momento di cominciare a
chiedere a Dio e ai nostri fratelli - in questo caso agli ebrei -
di accettare il nostro dolore per il male che abbiamo fatto e per
il bene che ci siamo dimenticati di compiere. Ritorniamo a Dio, e
all'uomo che è sua immagine, curviamoci sul fratello ebreo, sulla
storia delle sue sofferenze, del suo martirio, delle persecuzioni
che ha subito. Rimuoviamo le interpretazioni tendenziose,
ingiuriose, di passi contenuti nel Nuovo Testamento e in altri
scritti. Dissipiamo le incomprensioni che ancora ci rendono
diffidenti della buona volontà reciproca. In realtà noi
desideriamo la stessa cosa: essere fedeli alla verità.
La terza tappa è
lo studio e il dialogo, Talmud Torah. Per cercare
strenuamente la verità, l'umanità costruisce università e
centri scientifici. L'ebraismo ha elaborato in passato la
riflessione talmudica con tutte le successive trattazioni.
La chiesa non può
ignorare i risultati di questa elaborazione, come sono presentati
nei testi religiosi, giuridici, filosofici della letteratura
ebraica post-biblica.
Ci sono tanti altri
esempi di queste iniziative. Ma perché possano portare frutto è
necessario che siano estesi al maggior numero possibile di
diocesi, di comunità e gruppi ecclesiali, così che l'ignoranza
che ci ha separato e contrapposto nel passato, non senza
responsabilità da parte nostra, venga gradualmente colmata.
Sono convinto che
una profonda penetrazione all'interno dell'ebraismo sia vitale per
la chiesa non soltanto per superare l'ignoranza vecchia di secoli
e per avviare un dialogo fruttuoso, ma anche per approfondire l'autocomprensione
di sé. In altre parole, vorrei sottolineare l'importanza, per la
teologia e la prassi cristiana, dello studio dei problemi che
derivarono dall'interruzione del contributo che la teologia e la
prassi dei giudeo-cristiani avevano dato alla primitiva comunità
cristiana.
Ogni scisma e
divisione nella storia della cristianità priva la chiesa di
contributi che avrebbero potuto essere preziosi e produce una
certa carenza nell'equilibrio vitale della comunità cristiana. Se
questo è vero per ogni grande divisione che si è verificata
nella storia della chiesa, lo è particolarmente per il primo
grande scisma che ha privato la chiesa dell'aiuto che le sarebbe
venuto dalla tradizione ebraica.
Mi limito a citare tre
conseguenze di questo mancato apporto: la prassi cristiana ha una
permanente difficoltà a focalizzare esattamente il giusto
atteggiamento dei singoli e delle comunità nei confronti del
potere tecnico, economico e politico del mondo; la prassi
cristiana fa fatica a trovare il giusto atteggiamento nei
confronti del corpo, del sesso, della famiglia; la prassi
cristiana non riesce a trovare il giusto rapporto tra la speranza
escatologico-messianica e le speranze, le aspettative degli
individui e delle comunità, in relazione alla giustizia, ai
diritti umani e così via.
Le discussioni senza fine sulle
applicazioni pratiche e sugli atteggiamenti in questi settori -
non
tanto, quindi, sui principi teologici generali - che caratterizzano
anche l'attuale situazione, hanno le loro radici in quella ferita
non guarita del primo scisma. Possiamo allora comprendere perché
san Paolo diceva che la riunione degli ebrei sarà come "vita
da morte", come ritornare in vita dalla morte.
In ogni caso è
assai importante, per i cristiani, promuovere la comprensione
della tradizione ebraica per riuscire a comprendere più
autenticamente se stessi. La quarta tappa è il dialogo
universale, aperto. L'ebraismo e la chiesa sanno che non possono
fermarsi a un dialogo che escluda altri interlocutori.
Questo rapporto,
per natura sua, deve essere innanzitutto aperto all'Islam, per le
comuni radici storiche, culturali, religiose, per la fede di
Abramo.
Qui non dobbiamo
aspettarci risultati a breve termine o vantaggi strategici
preferenziali: al contrario, bisogna cominciare a proporre comuni
valori, per scoprire obiettivi e strumenti di dialogo, sapendo di
rendere così un servizio all'intera umanità.
Vorrei ricordare,
con le parole del Concilio Vaticano II nella costituzione sulla
chiesa, che il piano di salvezza include anche coloro che
riconoscono il Creatore e: "In primo luogo tra questi vi sono
i maomettani che, professando di possedere la fede di Abramo,
insieme con noi adorano il Dio unico e misericordioso, che
giudicherà gli uomini nel giorno finale". (1)
E Giovanni Paolo II ha sottolineato, in una sua recente lettera
apostolica a proposito della città di Gerusalemme che: "È
naturale ricordarsi come noi dobbiamo invocare la desiderata
sicurezza, la giusta pace per il popolo ebreo, mentre d'altra
parte il popolo palestinese ha il diritto naturale, secondo
giustizia, di trovare di nuovo una terra e di poter vivere in pace
e in serenità con gli altri popoli della regione", il santo
padre sottolinea che: "La città santa di Gerusalemme, così
cara a ebrei, cristiani e musulmani, si eleva come un simbolo di
incontro, di unione di pace per l'intera famiglia umana" e
invoca che: "Con buona volontà e larghezza di vedute sia
trovato un modo giusto ed effettivo nel quale i differenti
interessi e aspirazioni possano essere messi insieme in una forma
armoniosa e ferma" e siano difesi in modo adeguato ed
effettivo.
L'ebraismo offre
molti esempi di apertura al dialogo non solo con l'Islam ma pure
con altre religioni, con la scienza e la filosofia. Trai
cristiani, a proposito di questo dialogo, ricordiamo gli esempi
recenti di Louis Massignon e di Charles de Foucauld, ricordiamo
Giorgio La Pira, che ho potuto incontrare spesso in occasione di
incontri tra ebrei e cristiani, nell'interesse dell'Oriente.
La quinta tappa è
quella delle iniziative. L'approccio alla religiosità e alla
cultura ebraiche può essere coltivato a vari livelli. A livello
di studio, promovendo incontri e ricerche, e coordinando ciò che
già esiste; nelle scuole, usando possibilità previste dalle
leggi scolastiche e rivedendo i libri di testo; si possono poi
programmare corsi di aggiornamento per il.clero e i catechisti e
istituire corsi e iniziative nei seminari e nelle diocesi.
Se le tappe
precedenti verranno seguite progressivamente sarà più facile
anche l'ultima tappa, quella della creazione di punti d'incontro e
luoghi di collaborazione sociale, politica e culturale.
Possiamo così
sperare che, nel promuovere e nel difendere la vita e la libertà
di tutti gli uomini, ebrei e cristiani si troveranno più spesso
di un tempo gli uni accanto agli altri, per il comune impulso
religioso e per le ragioni etiche e ideali.
Le mete
comuni alla natura e alla missione degli ebrei e dei cristiani
Che cosa ci
aspetta? Qual è la meta comune, alla fine di queste sei tappe
progressive che ho suggerito?
Proporre alcuni
obiettivi comuni a lunga scadenza potrebbe apparire presuntuoso se
non facessimo affidamento sullo Spirito di santità che, fin
dall'inizio, ha aleggiato sulle acque primordiali. È lui che noi
invochiamo in ogni tempo: "Manda il tuo Spirito, Signore, e
rinnova la faccia della terra" (Sal 104, 30).
Un primo obiettivo
comune sarà di essere testimoni ", dell'amore del Padre in
tutto il mondo. Per l'ebreo come per il cristiano non v'è dubbio
che l'amore verso Dio e verso il prossimo riassume tutti i
comandamenti. Tutti gli uomini sono egualmente oggetto dell'amore
di Dio. Dice Seder Eliyahn Rabbah che ebrei e non ebrei, uomini o
donne, maschi o femmine, tutti sono uguali per il fatto che lo
Spirito divino discende su di loro secondo le loro azioni. Per il
cristiano, l'amore di Dio è conosciuto e sperimentato per mezzo
del suo Figlio Gesù. In questa testimonianza reciproca d'amore
siamo dunque uniti, come da una meta che ci attira. Questa stessa
legge di santità ci unisce pur nella diversità dei modi nei
quali ci viene trasmessa.
Il fatto che la
chiesa si sia sempre considerata "verus Israel" non
dovrebbe essere inteso come uno svuotamento dell'antico Israele:
se noi cristiani crediamo di essere in continuità e in comunione
con i patriarchi, i profeti, le tribù d'Israele, con i martiri
Maccabei e gli esuli di Babilonia, è necessario che questa
comunione si realizzi in tutti i modi possibili anche nei riguardi
degli ebrei che a Jabneh hanno codificato la Mishnah, a
Babilonia il Talmud, a Toledo e a Magonza hanno composto la
Selichot, e che furono perseguitati dai crociati e processati per
infanticidio rituale.
Forse oggi non è
ancora chiaro come la missione della chiesa e quella del popolo
ebraico possono arricchirsi e integrarsi reciprocamente senza
venir meno a ciò che l'una e l'altra hanno di essenziale e di
irrinunciabile. C'è tuttavia un obiettivo finale: quando saremo
un unico popolo e il Signore ci benedirà dicendo: "Benedetto
sia l'Egitto mio popolo, la Siria opera delle mie mani, Israele
mia eredità". Dice san Paolo che le promesse di Dio sono
senza pentimento!
Un secondo
obiettivo è quello di un servizio comune allo stesso progetto di
alleanza. Sia gli ebrei che i cristiani svolgono un servizio nei
riguardi di tutta l'umanità. Infatti, attraverso gli ebrei e i
cristiani, Dio, Padre di tutti, continua a rivolgersi a ogni
persona. Il popolo ebraico nel suo insieme, e ciascun ebreo,
considera se stesso come figlio primogenito del Padre, chiamato a
dargli lode. Secondo il Nuovo Testamento la chiesa è il popolo
messianico al servizio dell'alleanza tra Dio e l'uomo, tra Dio e
l'umanità, tra Dio e il cosmo.
C'è dunque un servizio comune
allo stesso progetto di alleanza e questo servizio costituisce un
ministero sacerdotale, una missione che può unirci senza
confonderci, fino a quando verrà il Messia che noi invochiamo: Marana-tha.
Se vogliamo tentare
di descrivere questo ministero sacerdotale di Israele e della
chiesa, possiamo usare la categoria del "fare santo il Suo
nome", cioè di rendere presente la santità di Dio in noi
stessi, nelle famiglie, nella società, nella creazione.
L'ebraismo ha sviluppato un'attenta riflessione sui precetti che
santificano ogni momento della vita, e sull'intenzione del cuore
che ne costituisce l'anima vivificante.
Il cristianesimo
sta ora riscoprendo, specialmente la chiesa cattolica con la
promulgazione del nuovo codice, i significati santificanti delle
norme ecclesiastiche e delle tradizioni. Ricercare, studiare e
approfondire la legge di santità e libertà può dunque essere un
altro degli obiettivi comuni più importanti.
Tra i molti campi
di confronto, possiamo sottolineare la difesa e la protezione
della vita umana in ogni momento; l'impegno di volontariato
sociale, di non violenza; l'aiuto alle popolazioni in stato di
grave necessità; l'assistenza ai malati, ai drogati; l'educazione
dei giovani; la promozione artistica, culturale e scientifica. In
tutti questi sforzi siamo guidati dal desiderio fondamentale di
promuovere la pace e la giustizia. Una pace - ha ricordato
Giovanni Paolo II ai rappresentanti della Federazione israelitica
svizzera a Friburgo - fondata sulla giustizia, sul rispetto dei
diritti di ciascuno, sull'eliminazione delle cause di inimicizia,
cominciando da quelle che sono nascoste nel cuore dell'uomo.
Conclusione
Vorrei ricordare
che questa collaborazione richiede anche strutture comuni. C'è,
ad esempio, l'International Liaison Committee tra la
Commissione della Santa Sede per le relazioni religiose con
l'ebraismo e il Comitato internazionale ebraico sulla
consultazione interreligiosa. Altri incontri altamente qualificati
si tengono in varie parti del mondo.
Occorre tuttavia
che i singoli sforzi siano coordinati all'interno di canali di
collegamento, sufficientemente agili da non mortificare la
creatività, ma insieme capaci di assicurare un'unione fruttuosa
di energie.
Un'altra struttura
comune da creare e sviluppare potrebbe essere un centro di
soccorso per gli emarginati, dove ebrei, cristiani e musulmani
collaborassero insieme.
Se la chiesa
cristiana si sente chiamata a essere coscienza critica,
specialmente in Europa, dei tragici eventi e problemi che
affliggono tutti noi, allora troverà al suo fianco, in questa
missione, la forza della dottrina religiosa ed etica
dell'ebraismo. Se la chiesa desidera essere ovunque promotrice del
dialogo e della pace, luogo d'incontro universale dei popoli, nel
nome di Cristo in cui tutte le cose verranno ricapitolate, allora
è proprio nei confronti dell'ebraismo che questo dialogo e questa
pace devono essere innanzitutto promossi. Più intensamente e
profondamente ebrei e cristiani, nel rispetto della diversità dei
contenuti specifici delle fedi, attueranno questa collaborazione
fraterna, più la loro presenza avrà un significato per l'Europa
del terzo millennio, e per il compito che l'Europa ha di fronte ha
di fronte al resto del mondo.
1.
Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, 16
[Tratto da Cristianesimo
ed ebraismo, articolo pubblicato su "Explorations",
rivista del Princeton Theological Seminary, maggio 1987, poi in Interiorità
e futuro, EDB, Bologna 1988]