La prima pagina del
decreto Nostra Aetate del
Concilio Vaticano II, recita: "Una sola comunità infatti
costituiscono tutti i popoli, una sola origine, un solo fine
ultimo".
Vorrei fare qualche
annotazione su quattro aspetti. Anzitutto, questa brevissima
dichiarazione conciliare di appena cinque pagine costituisce una
svolta importante nella storia non solo delle relazioni
ebraico-cristiane, ma della chiesa cattolica.
L'inizio di tutto
questo lavoro è stato l'affidamento di esso, da parte di Giovanni
XXIII, al cardinal Bea, il 28 settembre 1960. Il cardinal Bea è
stato mio maestro e confratello. Con lui ho condiviso questi
ideali. Mi piace anche ricordare che, nella storia di questo
decreto conciliare, un documento importante fu quello del 24
aprile 1960 in cui il Pontificio Istituto Biblico rispondeva alle
domande fatte dalla Santa Sede rispetto al futuro Concilio. I
professori dell'Istituto unanimemente firmarono il documento che
volevano proporre al prossimo Concilio, dal titolo De
antisemitismo vitando, Contro l'antisemitismo. Da lì è nato
il nucleo del documento. Il documento dell'Istituto Biblico era
uno studio dottrinale ampio che ricordava tutti gli eventi
positivi con lo scopo preciso di combattere tutte le forme di
antisemitismo. Mi piace anche ricordare che l'estensore del
documento fu soprattutto padre Stanislao Lyonnet, morto qualche
anno fa, anch'egli mio venerato maestro, amico e collaboratore.
Così sono stato anch'io parte di questa storia, come pure della
storia successiva.
Da allora sono
passati venticinque anni e si è fatta molta strada, molta di più
di quella fatta in tanti anni precedenti, forse in secoli
precedenti, malgrado le difficoltà, le incertezze, gli incidenti
di percorso. Per l'assimilazione, l'integrazione nel popolo
cristiano di quei principi, la strada è stata veramente lunga. Ho
vissuto questi eventi come membro del gruppo del dialogo
ebraico-cristiano, che faceva riferimento al Segretariato per
l'unità. Ricordo bene la preparazione del documento del 1974, il
primo testo applicativo al quale ci siamo dedicati. Soprattutto
gli esegeti vi si sono consacrati con impegno; dobbiamo
ringraziarli perché il lavoro è stato grande. Dobbiamo
ringraziare tutti coloro, conosciuti e sconosciuti, che lo hanno
portato avanti sia tra il popolo ebraico sia tra i cristiani.
Il cammino da fare
ora è ancora lungo. Occorrerà un sempre maggiore approfondimento
da parte della teologia cattolica (ma anche del pensiero ebraico),
tenendo ben presente che Israele è un mistero, il mistero di
Israele - come lo chiamavano Maritain e tanti altri studiosi di
queste realtà. Israele non è qualcosa che si possa ridurre a
equazione matematica, non è una domanda che ammetta risposte
semplici. È qualcosa che continuamente rimette in moto la
coscienza sui grandi valori dell'essere e del non essere, di Dio e
del non senso. È un mistero che continuamente ci rimette in
questione. Per questo è così affascinante, così difficile. È
un mistero nodale della storia umana e anche la Chiesa lo
riconosce come sua misteriosa origine.
Dobbiamo fare
ancora molti passi avanti, avere molta pazienza. Chi attende
l'impossibile è deluso, però è sempre valido il detto rabbinico
"non spetta a te portare a termine il lavoro, ma non sei
neppure libero di esimerti da esso" . Il mistero di Israele
interpella tutti, i teologi ma anche il popolo cristiano. Non
basta che i teologi dicano alcune cose, se non sono recepite nella
catechesi.
Mi piace ricordare
che la Conferenza episcopale italiana ha istituito una giornata
per il dialogo con gli ebrei, che naturalmente deve essere ancora
recepita dalle comunità. Ci vorrà tempo, tuttavia il fatto che
essa è stata istituita è un passo avanti. Speriamo di fare altri
piccoli passi, sapendo che la realtà misteriosa di Israele si
proietta su un futuro lontano. È un mistero che si muove verso la
pienezza come il cristianesimo e l'umanità tutta. Il cammino
umano, dice Teilhard de Chardin, si muove verso una realtà
totale.
Il quarto aspetto
è forse il più delicato e difficile: Gerusalemme. Dobbiamo
tenere sempre presente Gerusalemme con i suoi problemi
particolari. È una realtà alla quale guardano gli ebrei con
tutta l'intensità del loro cuore, ma alla quale guardano anche
i cristiani e i musulmani. I cristiani sono presenti in questo
sguardo verso Gerusalemme ed è molto importante per noi fare di
tutto perché Gerusalemme sia sempre un luogo significativo di
dialogo, di distensione e di riconciliazione. Certamente vi sono
gravissime colpe dell'Europa. Si potrebbe anche dire colpe dei
cristiani, ma è meglio dire del continente europeo in tutte le
sue componenti. Per i primi quarant'anni del secolo scorso
l'Europa ha lasciato degenerare la situazione verso la Shoah,
un crimine imperdonabile che graverà sempre sulla coscienza
europea.
Da allora il rischio grave dell'Europa è di lasciare
psicologicamente troppo solo Israele. La solitudine psicologica di
Israele crea reazioni verso gli altri, e quindi si impone il
nostro sforzo di non lasciare solo lo Stato di Israele. È chiaro
che tutto questo comporta valutazioni, critica delle azioni dei
governi, giudizi anche severi, però con lo spirito di non
lasciarlo solo, di non volerlo isolare.
Credo che questo sia un
grande compito dei cristiani d'Europa, di tutte le nazioni
europee, memori e consce delle loro pesantissime responsabilità,
cosicché questi gravissimi problemi che ci pesano oggi possano
essere visti in una luce positiva e possano trovare una soluzione
organica, con l'aiuto di tutti. In particolare con l'aiuto di
tutte quelle nazioni che in qualche maniera sono state all'origine
di quanto oggi succede. Gravissime sono le responsabilità europee
per quanto si è preparato là nell'ultimo decennio e anche negli
anni più vicini.
Concludo con alcune
parole molto belle che ci vengono proprio da Gerusalemme. È la
lettera pastorale del patriarca latino monsignor Sabbah, scritta
in occasione della Pentecoste de11990. Parla a nome dei cristiani
di Gerusalemme, che sono nella loro grande maggioranza
palestinesi, anche se a Gerusalemme esistono cristiani ebrei. "Amiamo
questo Dio che parla agli uomini e amiamo la sua scelta divina.
Auguriamo al popolo dei nostri padri, Abramo, Isacco, Giacobbe,
tutto il bene che Dio gli vuole accordare. Crediamo fermamente che
l'amore di Dio per un popolo non possa essere ingiustizia verso un
altro popolo. Non bisogna permettere alla politica e al male degli
uomini di sfigurare l'amore di Dio per tutti i suoi figli.
Abramo
è il padre di tutti i credenti. La fede in Dio deve avvicinare i
popoli, malgrado le loro liti politiche. Il credente deve quindi
intrattenere un dialogo costruttivo con il credente di ogni
religione. La preparazione dei cuori credenti, riconciliati e
capaci di coesistere è l'esigenza per instaurare la pace e la
giustizia".
[Intervento per
il XXV anniversario della dichiarazione Nostra Aetate, 6
ottobre 1990, in Comunicare nella chiesa e nella società,
EDB Bologna 1991]