IV Giornata Europea della Cultura Ebraica, 
momento di conoscenza e tolleranza
«Ebraismo ed educazione»
Edizione 5 settembre 2004 - 19 Elul 5764

 

Oltre la porta di Amos Luzzatto                 torna su

Le due parole - chiave della prossima Giornata Europea della Cultura Ebraica sono le “porte aperte” e l’“educazione ebraica”. Può derivarne l’impressione di una contraddizione implicita: le “porte aperte” sono rivolte verso l’esterno, verso quelli che non appartengono alla Comunità, verso il grande pubblico dei non-ebrei. Al contrario, l’“educazione ebraica” riguarda in primis i bambini, gli adolescenti, forse anche gli adulti ebrei, coloro che vivono all’interno delle Comunità.

Sono fermamente convinto che le cose non stiano così.
Noi vogliamo le porte aperte perché desideriamo che l’atmosfera dolcemente coinvolgente delle nostre Sinagoghe, delle nostre case, delle nostre Scuole e dei nostri libri ebraici possa essere assaporata almeno una volta all’anno da tutti i nostri vicini di casa.

Che dire però dell’educazione ebraica? Ha senso offrirla a chi ebreo non è?Dipende, evidentemente, dall’obiettivo che ci si pone.
Se lo scopo è quello di allevare un certo numero di giovani a vivere da ebrei, la risposta non può essere che negativa, anzi la domanda sarebbe priva di senso.

Ma se lo scopo è quello di fornire anche ai non-ebrei elementi di cultura ebraica che possano allargare la cerchia di coloro che desiderano conoscerci e forse diventarci amici, allora credo che non solo è lecito, ma è addirittura doveroso farlo.

Un esempio tanto comune da essere quasi banale è la leggenda della crudeltà e vendicatività del Dio degli ebrei, che ci avrebbe elargito la legge del taglione (“occhio per occhio, dente per dente”). “Educazione ebraica” significa in questo caso far leggere le fonti talmudiche, quelle scritte dai tanto "deprecati" Farisei, laddove alla ritorsione si sostituisce il risarcimento, facendo pagare al colpevole quello che si definirebbe modernamente il lucro cessante, il danno emergente, il danno permanente e anche quello fisiognomico. Secoli prima che l’Europa affrontasse questi temi!

Un altro esempio è metodologico e consiste nelle dispute fra Maestri, che terminano tanto spesso con un voto di maggioranza sulla norma da rispettare.
Ma citando nel verbale quasi sempre anche l’opinione di minoranza. Esempio palese di correttezza e di democrazia.

Gli esempi si potrebbero moltiplicare, ma forse bastano questi per sollecitare la voglia di sapere di più, di cercare testi, di studiare la storia ebraica, di cercarsi Maestri e, in ultima analisi, di amare questi ebrei tanto vituperati, questi ebrei cui tanto spesso si sono attribuite le colpe di tutti i mali.
In un’Europa che ama definirsi “multietnica” non è difficile trovare gli ebrei e la loro cultura. Essi vi sono sempre stati, sarebbe stato sufficiente non ignorarli. Se avessimo raggiunto questo obiettivo, questo “far scoprire gli ebrei” con spirito obiettivo, alieno da pregiudizi, potremmo dirci soddisfatti.

L'alfabeto dell'educazione di Clotilde Pontecorvo               torna su
(Dipartimento di Psicologia dei processi di sviluppo e 
socializzazione - Università "La Sapienza" di Roma)

A partire dalla descrizione che la Torah fa di Moshè, il quale quando sta da Jethro porta le greggi al pascolo “ahar hamidbar”: oltre il deserto, al di là del deserto, in un deserto estremo, dove c’ è un particolare silenzio (forse quella “sottile voce di silenzio”, che è la voce del Signore che parla al profeta Elia, che aveva prima creduto che il Signore fosse nel fuoco e nel terremoto), mi sono chiesta perché ci vuole il silenzio che assomiglia al vuoto che Dio creatore deve fare dentro di sé per poter creare il mondo e poter lasciare alle sue creature la libertà di scelta: quel libero arbitrio, che così profondamente caratterizza il suo miglior prodotto, il genere umano. Mi sono chiesta come questo principio di “fare spazio” non rappresenti essenzialmente l’attività educativa, nel suo valore più generale per tutta l’umanità. Questo fare spazio, questo vuoto necessario è ben rappresentato nella copertina di un recente libro di Rachele Furfaro “Le rocce nella scatola” (Bergamo, Erikson), assessore all’educazione del Comune di Napoli e fondatrice di una scuola dell’infanzia ed elementare a misura dei singoli e dei gruppi di bambini: la copertina rappresenta una stanza quasi vuota, con due seggiole stilizzate, di un caldo colore giallo, simbolo del calore della relazione educativa che caratterizza tutta l’esperienza educativa pluriennale di Rachele.La tradizione ebraica considera centrale l’attività di studio, di insegnamento e di apprendimento: tre attività tenute insieme dalla comune radice del verbo “lilmod”, che culmina nello studio del Talmud , che si può iniziare dai quindici anni, considerando che già a cinque anni si comincia a studiare la Legge, non appena si è appreso l’alfabeto, a dieci anni la Mishnah e a tredici anni comincia l’obbligo dell’osservanza dei precetti religiosi. La scuola infantile ebraica, lo heder, presentava l’alfabeto in modo ludico (come biscotti dolci, da imparare nelle loro diverse forme) ai bambini piutttosto piccoli. Ai quali si raccomandava (come dice una canzone jiddisch, intitolata “Nella stufa …della scuola”) di ricordare sempre il valore dell’alfabeto. Una strofa dice infatti: "Quando voi, bambini, vagherete nell’esilio, quando sarete tormentati dal dolore dell’esilio, allora troverete conforto nelle lettere dell’alfabeto ” . Una storia del Ba’al Shem Tov dice che, avendo fatto naufragio su un isola con solo un accompagnatore, non aveva testi né se li ricordava. D’altra parte la conoscenza dell’alfabeto è la condizione prima per poter procedere nello studio, attraverso la lettura e la discussione. Tanto che si deve citare e ringraziare tutti coloro che ci hanno insegnato anche una delle lettere, come fece re Davide nei confronti di uno schiavo, che sempre ricordava e ringraziava perché aveva da lui imparato una sola lettera. E per questo, fa parte delle norme educative tradizionali, citare sempre i maestri e i compagni, da cui abbiamo imparato qualcosa. Infatti il rapporto, simmetrico e asimmetrico, è essenzialmente educativo, per il valore intrinseco della relazione tra due e più allievi e tra un allievo e un maestro.

Se il primo dovere di un allievo è trovarsi un altro allievo con cui studiare, il primo dovere di un maestro è trovarsi un allievo da cui imparare. Possiamo aggiungere che il maestro deve fare il vuoto per far crescere l’allievo nella libertà e per la libertà. Perché il compito più importante di ciascun uomo è diventare se stesso, come ci ricorda il detto di Rabbi Sussjia che disse prima di morire: “Nel mondo a venire non mi si chiederà: perché non sei stato come Abramo, perché non sei diventato Mosé? Mi si chiederà soltanto: Sussjia, perché non sei stato Sussjia?”. Per diventare se stessi ci vuole l’aiuto di altri allievi e di buoni insegnanti, i quali siano capaci di fare il vuoto dentro di sé per accogliere l’identità in sviluppo degli allievi. Ma vorrei concludere che forse nel vuoto, quindi nello spazio di crescita che ci offre l’insegnante, quello che ci mette l’insegnante, insieme con tutta la tradizione culturale che ci è propria è appunto l’alfabeto ebraico, con tutta la sua pregnanza semantica e numerologica e i suoi infiniti significati: lo strumento essenziale, affinché qualunque allievo possa continuare a studiare e a capire per conto suo.

Maestro e allievo nel Talmud Rav Scialom Bahbout       torna su

Lo studio della Torà è sempre stato considerato fondamento dell’esistenza ebraica, uno studio non fine a se stesso, ma teso ad apprendere gli insegnamenti di vita e le norme da applicare. In effetti quando si parla dello studio della Torà si intende con questo sia lo studio della Torà scritta che di quella orale: quest’ultima infatti in molte parti completa e chiarisce il testo scritto.

Chi studia la Torà però non deve limitarsi a tenere per se stesso quanto ha appreso, ma deve cercare di trasmetterlo ad altri. In effetti uno dei comandamenti più importanti è proprio quello di insegnare la Torà: chi studia la Torà e non la trasmette ad altri è paragonato a un mirto che cresce nel deserto, un luogo in cui nessuno può fruire dell’odore che emana da quell’albero odoroso. Inoltre, chi non trasmette ad altri quanto ha studiato è paragonato ad un ladro, in quanto toglie ad altri l’eredità che i padri hanno voluto lasciare ai propri discendenti.

Quindi, l’azione dell’insegnamento deve essere infaticabile e senza fine, e non è concesso, per così dire “ritirarsi in pensione”. Di Rabbi Akivà che aveva allevato centinaia di allievi in gioventù, si dice che se non avesse insegnato anche in vecchiaia, dopo la morte dei suoi numerosi allievi, non avrebbe lasciato alcuna traccia del suo insegnamento. In effetti, gli allievi sono paragonati ai figli e il maestro è considerato pari a un padre, in quanto l’atto dell’educazione è un atto creativo che ha la capacità di cambiare la persona in continuazione.

L’obiettivo della creazione di nuove generazioni di allievi, non poteva essere lasciato ai soli genitori o ai maestri privati e per questo motivo la creazione di scuole in cui anche gli allievi più poveri potessero studiare, una sorta di scuola dell’obbligo, è considerata uno dei grandi meriti di Jehoshua Ben Gamla (Talmud Bavà Batrà 21a).

Non tutti hanno le qualità necessarie per insegnare, come ad esempio la pazienza di ripetere per ben 400 volte un insegnamento a un allievo un po’ duro di comprendonio (Eruvin 54b), o la capacità di capire che certi allievi hanno bisogno di un compagno per ripetere e capire meglio ciò che un maestro non è in grado di trasmettere, o ancora di capire che, per essere ben accetto, l’insegnamento deve partire da un argomento amato dallo studente.

Il Maestro deve capire che è necessario anche usare tecniche che siano efficaci e che possano imprimere nella memoria l’insegnamento: ad esempio, la ripetizione cantilenata dei passi studiati è uno strumento efficace.

Anche se quando si parla di maestro e allievo non ci sono limiti di età, tuttavia è chiaro che i primi ad essere obiettivi dell’interesse del Maestro sono i bambini che rappresentano la vera garanzia della trasmissione della Torà, come risulta da questo brano.

“Ha detto Rabbi Meir: quando Israele si trovava di fronte al Monte Sinai per ricevere la Torà, il Signore disse loro: Giuro che vi do la Torà, ma dovete portarmi dei garanti che mi assicurino che voi la conserverete: solo allora io ve la darò.

Gli risposero: i nostri padri, i nostri profeti saranno garanti per noi. Il Signore rispose loro: Anche costoro hanno bisogno di garanti; portatemi dei garanti migliori ed io vi darò la Torà.

Risposero: Ecco i nostri figli, essi saranno garanti per noi. Il Signore rispose: questi certamente sono dei buoni garanti, per loro io vi darò la Torà. (Shir hashrim rabbà 1).

Si è generalmente portati a pensare che il Maestro svolga un ruolo attivo nell’insegnamento, mentre l’allievo è quello svolge un ruolo passivo, in quanto riceve l’insegnamento. Non è così nella tradizione talmudica:

L’elemento che maggiormente caratterizza il rapporto tra allievo e maestro è il continuo capovolgersi di ruoli nel corso dell’insegnamento. Il Maestro in una prima fase ha il ruolo di trasmettitore, ma le domande che l’allievo pone sono tali che costringono il Maestro a trovare nuovi argomenti e nuove risposte: “Da tutti i miei maestri ho imparato, ma dai miei allievi più di ogni altro”. Nel corso di una lezione i ruoli si capovolgono in continuazione.

Oltre che tra allievo e Maestro, il progresso nello studio può avvenire nel rapporto di Chavruta, cioè di un compagno di studi che ha il compito di mettere in continua crisi gli argomenti del proprio compagno, ponendo domande continue. Significativa è la storia che il Talmud narra a proposito di due grandi Maestri Resh Lakish e Rabbi Jochanan che discutevano continuamente sull’interpretazione dei testi e sulla soluzione dei casi legali che venivano loro presentati.

Quando morì Resh Lakish, fu trovato un nuovo compagno per Rabbi Jochanan. Questo nuovo compagno, a ogni domanda, rispondeva che poteva portare argomenti a favore della sua tesi che potevano provare la bontà dei suoi insegnamenti. Rabbì Jochanan si disperò fino alla morte, rimpiangendo le continue obiezioni del suo vecchio compagno di studi.

Allievo o compagno di studi, ciò che conta per il Talmud è la capacità di creare nel proprio interlocutore nuove domande: anche se non è possibile immediatamente, le generazione future sapranno trovare una risposta.

Acquisire un'identità Rav Benedetto Carucci            torna su
(Direttore delle Scuole Ebraiche di Roma)

L’educazione, per l’ebraismo, è uno dei valori fondamentali e fondanti. Non a caso all’inizio dello shema‘ , il brano biblico diventato testo liturgico per eccellenza, dopo l’affermazione dell’unicità di Dio e dell’amore per Lui, si passa immediatamente all’obbligo della trasmissione dei valori, una trasmissione che è e deve essere costante nel tempo e nello spazio: “Ripeterai queste parole ai tuoi figli e ne parlerai quando sei in casa e quando cammini per strada; quando ti corichi e quando ti alzi”. La interpretazione rabbinica, con uno spostamento ardito ma assai significativo, include nell’espressione i tuoi figli anche i discepoli. In questo senso il rapporto maestro-discepolo è omologo, se non addirittura superiore, al rapporto padre-figlio: ciò che fonda l’essere nel mondo dell’ebreo è la sua esistenza, naturalmente, ma in particolare la adesione ad una visione del mondo e ad un sistema di comportamento che sono trasmessi dai genitori e, con più completezza, dai maestri; ed il rabbino, figura centrale dell’ebraismo senza santuario, è essenzialmente un maestro.

E’ sull’educazione e la formazione costante, d’altra parte, che si è fondata la storia dell’ebraismo e su di essa si gioca il suo futuro: educazione è infatti fondamentalmente lo strumento per la acquisizione di una identità di appartenenza – in questo senso si possono interpretare i diversi precetti dei genitori nei confronti dei figli –, il mezzo per il riconoscimento del proprio sé coniugato con la apertura all’altro: così forse si debbono leggere sia gli inviti alla santità collettiva nella Bibbia, sia le indicazioni rabbiniche come quella di Hillel, che insegna “se non sono per me, che è per me? e se sono solo per me, cosa sono io?”

Per riflettere sull’educazione ebraica in termini generali, sintetici e non eccessivamente tecnico-normativi si può, tra le altre, seguire una strada testuale: si può cioè cercare nella Bibbia la prima volta che compare la radice da cui deriva la parola educazione, in ebraico chinukh. Inaspettatamente questa radice è presente la prima volta nel libro della Genesi ed è all’origine di un nome proprio, Chanokh – nella pronuncia latina Enoc – colui che prima del tempo fu portato in cielo da Dio. Secondo i commentatori classici questa assunzione da vivo è una forma di protezione: Dio prende Chanokh ancora giovane per evitare di farlo peccare; per altri interpreti è il segno di un compito portato a termine. In base a queste due linee interpretative si potrebbe dire che educare è tanto preservare quanto mettere nelle condizioni di portare a compimento un incarico, di arrivare alla fine di un percorso. La radice di chinukh compare poi nella Torah, in relazione al tabernacolo desertico, nella accezione di inaugurare: a questo proposito il più importante commentatore medioevale della Torà, Rashì, suggerisce come significato principale della radice proprio l’inizio, il dare avvio a qualche cosa, il porre un oggetto o una persona nella condizione di portare a compimento la propria specifica funzione. Educazione è allora, a partire da queste limitate e scarne riflessioni di partenza, un insieme complesso di compiti: è iniziare una altra persona – un figlio o un discepolo – ad un percorso senza però limitarsi a questo; è anche accompagnare l’educando, almeno inizialmente anche preservandolo, affinché – con i suoi ritmi ed i suoi parametri ed i suoi stili di apprendimento – arrivi ad un traguardo. Esattamente quanto si può desumere da uno dei due punti della Bibbia in cui la radice chnkh rinvia specificamente all’ambito semantico dell’educare: il termine compare in riferimento ad Abramo ed ai suoi famigli/discepoli. Abramo, che si assume il compito di diffondere l’idea monoteistica tra le genti (e non solamente tra i componenti della sua famiglia), le inizia ad un percorso, le aggrega a sé, le accompagna, le indirizza. E probabilmente adotta una prospettiva individualizzata, come suggerisce il libro dei Proverbi – l’altro punto della Bibbia in cui la radice compare con la accezione di educazione – quando recita “educa il ragazzo secondo la sua strada”.

Queste declinazioni del concetto di educazione trovano particolare realizzazione in quel complesso esempio di pedagogia ebraica che è il seder di Pesach: gli strumenti articolati che si usano in esso per ricordare l’uscita dall’Egitto e per trasmetterne il senso ai figli – i protagonisti principali dell’evento – sono testimonianza dell’attenzione assoluta che la tradizione ebraica ha per le forme dell’educazione insieme alla cura dei contenuti. E d’altra parte le diverse tipologie di figli previste dalla haggadah, insieme alle diverse risposte e ai diversi atteggiamenti dei genitori, indicano l’impossibilità di un’unica opzione pedagogica valida per tutti.

Un altro spunto di riflessione di interesse educativo deriva dalle parole ebraiche che indicano la giovane età e la adolescenza: quella fase della vita che, non certo unica in questo, sembra essere oggetto particolarmente critico dell’educazione. In ebraico, come in tutte le altre lingue, esistono più sinonimi per indicare la giovinezza. Tre sono principalmente le parole che indicano l’essere ragazzo o ragazza: naar, elem, bachur. Il primo termine deriva da una radice che significa agitarsi, scrollarsi di dosso, liberarsi: l’adolescente è senza dubbio molto di questo; si agita in diverse direzioni, vuole scrollarsi di dosso il controllo, vuole essere libero da una autorità limitante, spesso si contrappone. Elem, il secondo termine, comunica invece un ambito assai diverso di significati; la radice, infatti, richiama il senso del nascosto, dello sparire, dell’ essere ignoto e dimenticato. Ed in effetti spesso il disagio giovanile discende da una percezione di sé come essere invisibile, nascosto, quasi dimenticato dal mondo degli adulti. Una modalità esistenziale che ha anche il suo lato volontario: quello di volersi nascondere, di ritagliarsi uno spazio individuale sconosciuto agli altri, in particolare al mondo dei grandi. Vi è infine l’ultimo termine, bachur, che rimanda all’idea di scegliere ma anche, per certi versi, di essere scelto. Nella prospettiva ebraica il ragazzo, l’adolescente, è posto all’incrocio di questi significati; li racchiude in sé e cerca di organizzarsi all’interno di tensioni che spesso sembrano in contrasto tra loro. Chi educa, in questa prospettiva, deve tenere a mente l’insieme di queste componenti. Deve svolgere un ruolo di limite, senza però con questo soffocare l’ansia di libertà che ogni ragazzo ha; deve aiutare l’adolescente ad orientare le energie che si agitano al suo interno. Il buon educatore deve riuscire a non far sentire invisibile nessun ragazzo, non deve dargli la sensazione di essere dimenticato, pur lasciandogli uno spazio esistenziale proprio, riservato, accessibile ad altri solo per sua scelta. Ed infine deve aiutare il giovane a compiere le sue scelte, cosciente di essere oggetto di un affetto volontario.



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