L'insieme delle Sacre Scritture - sia
quelle ebraiche del TaNaKH (Torà, Nevi 'im e Ketuvim) che poi nel
canone cristiano saranno dette Antico Testamento, sia quelle del Nuovo
Testamento - è concorde nel testimoniare che Dio non ha abbandonato la
sua Alleanza con il popolo ebraico (o «giudaico») delle dodici tribù
d'Israele. Naturalmente quello che può apparire come un pericoloso
particolarismo esclusivista è bilanciato, nelle stesse Scritture, da un
duplice universalismo messianico, sia ad intra, nella tensione fra
diaspora ebraica ed ebrei della Terra d'Israele (Erez Israel), sia
ad extra, nella tensione fra il popolo ebraico ('am Israel) e tutti i
popoli, chiamati a entrare nella stessa comunione di pace e di
redenzione del popolo primogenito dell'alleanza.
La Chiesa, pertanto, in quanto «popolo
messianico», non si sostituisce a Israele, ma vi s'innesta, secondo la
dottrina paolina, mediante l'adesione a Gesù Cristo morto e risorto,
salvatore del mondo, e questo legame costituisce un vincolo spirituale
radicale, unico e insopprimibile da parte cristiana. La concezione
opposta - di un Israele un tempo (olim) prescelto, ma poi per sempre
ripudiato da Dio e sostituito ormai dalla Chiesa - benché abbia avuto
larga diffusione per quasi venti secoli, non rappresenta in realtà una
verità di fede, come si vede sia negli antichi Simboli della chiesa
primitiva, sia nell'insegnamento dei principali concili, in particolare
del Concilio Vaticano II (Lumen Gentium 16, Dei Verbum 14-16, Nostra
Aetate 4). Del resto, neppure Agar né Ismaele furono mai ripudiati da
Dio, che ne fece «una grande nazione» (Genesi 21, 13); e Giacobbe,
l'astuto «soppiantatore», ricevette infine l'abbraccio di Esaù.
Il più
recente documento della Pontificia Commissione Biblica su Il popolo
ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia Cristiana (2001), dopo
aver riconosciuto la «forza sorprendente dei legami spirituali che
uniscono la Chiesa di Cristo al popolo ebraico» (n. 85), conclude
osservando che «Nel passato, tra il popolo ebraico e la Chiesa di
Cristo Gesù, la rottura è potuta sembrare talvolta completa, in certe
epoche e in certi luoghi. Alla luce delle Scritture questo non sarebbe
mai dovuto accadere, perché una rottura completa tra la Chiesa e la
Sinagoga è in contraddizione con la Sacra Scrittura» (ibidem).
Nel contesto attuale, che non può
prescindere dall'orrenda strage della Shoà nel secolo XX, il cardinale
Joseph Ratzinger, introducendo questo
documento, pone di conseguenza
l'interrogativo: «Non ha forse contribuito la presentazione dei giudei
e del popolo ebraico, nello stesso Nuovo Testamento, a creare nei
confronti di questo popolo una ostilità, che ha favorito l'ideologia di
coloro che volevano sopprimerlo?». Il documento ammette onestamente che
molti passi neotestamentari critici verso gli ebrei «si prestano a
servire da pretesto all'antigiudaismo, e sono stati effettivamente
utilizzati in questo senso» (n. 87).
Alcuni anni prima lo stesso Papa
Giovanni Paolo II aveva dichiarato che «nel mondo cristiano - non dico
da parte della Chiesa in quanto tale - interpretazioni erronee e
ingiuste del Nuovo Testamento riguardanti il popolo ebraico e la sua
presunta colpevolezza sono circolate per troppo tempo, generando
sentimenti di ostilità nei confronti di questo popolo» (31 ottobre
1997). Accadde così che «sentimenti di antigiudaismo in alcuni
ambienti cristiani, e la divergenza che esisteva tra la Chiesa e il
popolo ebraico, condussero a una discriminazione generalizzata» verso
gli ebrei, nel corso dei secoli, in particolare nell'Europa cristiana (Commissione della Santa Sede per i Rapporti religiosi con
l'Ebraismo,
Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah, 16 marzo 1998).
Durante il secolo XIX, in un mutato
contesto storico volto al superamento dell'antico regime che univa
Chiesa e Stato, «cominciò a diffondersi in vario grado, attraverso la
maggior parte d'Europa, un antigiudaismo che era essenzialmente più
socio-politico che religioso» (ibidem). Questa evoluzione
dell'antigiudaismo, con l'aggiunta di confuse teorie sull'evoluzione e
la superiorità della «razza ariana», ebbe per effetto quello che fu
detto allora «antisemitismo», caratterizzato da esplosioni di
violenza, pogrom e pubblicazioni di libelli antiebraici del tipo dei
Protocolli dei savi anziani di Sion. In tale mentalità pervasa di
disprezzo e perfino di odio verso gli ebrei, accusati di crimini orrendi
come l'omicidio rituale, maturò l'indicibile tragedia della Shoà, il
piano di sterminio orribilmente programmato dal governo nazista, che
colpì le comunità ebraiche europee durante la seconda guerra mondiale.
Le premesse ideologiche della Shoà, già ampiamente divulgate prima del
conflitto, in opere come Mein Kampf e Der Mythus des zwanzigste
Jahrhunderts (quest'ultimo messo all'Indice), non trovarono sufficiente
opposizione né a livello culturale, né nell'ambito giuridico, né
presso le comunità cristiane, anche se non mancarono reazioni, come
quelle di G. Semeria, di G. Bonomelli o del giovane A. Bea.
Purtroppo,
però, tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento, non
mancarono esempi di riviste cattoliche anche molto autorevoli, che
pubblicavano articoli di carattere antisemita, e «più in generale, i
pregiudizi anti-ebraici furono sempre attivi, scaturendo
dall'“insegnamento di disprezzo” medievale, che fu una sorgente di
stereotipi e di odio popolare» (J. Willebrands), così che si può
affermare, in questo senso, che tale atteggiamento ha offerto un
contesto favorevole alla diffusione dell'antisemitismo moderno. E va
pure notato che la responsabilità di queste radici di odio tocca, in
vario modo, con rare eccezioni, sia la cristianità occidentale che
quella orientale, perciò richiede oggi una comune reazione ecumenica.
Anche il documento vaticano
Noi
ricordiamo (§ II) dichiara che «il fatto che la Shoà abbia avuto
luogo in Europa, cioè in paesi di lunga civilizzazione cristiana, pone
la questione della relazione tra la persecuzione nazista e gli
atteggiamenti dei cristiani, lungo i secoli, nei confronti degli ebrei».
Pur se ci furono, prima e durante la Shoà, episodi di condanna e di
reazione all'antisemitismo, sia a livello personale con atti di eroismo
fino al martirio, come nel caso del prevosto di Berlino Bernhard
Lichtenberg, sia a livello istituzionale, con la condanna
dell'antisemitismo (ad esempio da parte del S. Uffizio nel 1928 e da
parte di Papa Pio XI nel 1938), in genere «la resistenza spirituale e
l'azione concreta di altri cristiani non fu quella che ci si sarebbe
potuto aspettare da discepoli di Cristo» (ibidem, § IV). Anche in
questo caso dunque, anzi in modo speciale a proposito dell'antisemitismo
e della Shoà, possiamo a ragione parlare della necessità di compiere
un processo di pentimento (teshuvà), che si concluda in atti esemplari
e concreti, in quanto «come figli della chiesa, condividiamo infatti
sia i peccati che i meriti di tutti i suoi figli» (ibidem, § V).
Certo
uno di tali atti è stato quello che il Papa compì solennemente il 12
marzo 2000 nella basilica di San Pietro, e suggellò il 26 marzo a
Gerusalemme al Muro del Tempio. Siamo però tutti chiamati a partecipare
negli atteggiamenti interiori, nelle preghiere e nei fatti, a questo
medesimo cammino di conversione e riconciliazione, perché si tratta di
un'esigenza da vivere in capite et in membris, non limitata ad alcuni
gesti autorevolmente significativi o a documenti di pur alto livello.
Questo primo fondamentale impegno, di
carattere spirituale e morale, ci riguarda tutti in quanto cristiani, ed
ha perciò, possiamo dire, una dimensione spiccatamente ecumenica. Una
seconda conseguenza, egualmente di natura teologica, è quella che
scaturisce dal profondo, radicale e peculiare legame che unisce la
Chiesa e il popolo ebraico «primogenito dell'alleanza» (Preghiera
Universale del Venerdì Santo).
Tale vincolo, da una parte ci spinge a
rispettare e amare il popolo ebraico, dall'altra ci permette di cogliere
nell'antisemitismo una ulteriore dimensione, rispetto a quella generale
del razzismo o della discriminazione religiosa, che pure l'antisemitismo
ha in comune con altre forme di odio etnico, culturale o religioso, come
è descritto nel documento La Chiesa di fronte al razzismo (Pontificia
Commissione Iustitia et Pax, 3 novembre 1988, I, § 15). Si tratta qui
non solo della dimensione culturale, sociale, politica o ideologica - e
più in generale «laica» - dell'antisemitismo, che pure deve molto
preoccuparci, ma di un suo specifico aspetto, quello che già veniva
fermissimamente condannato nel 1928 dalla Sede Apostolica quando
definiva l'antisemitismo «odium adversus populum olim a Deo electum» (AAS
XX/1928, pp. 103-104).
Oggi, a settantacinque anni di distanza, l'unica
modifica che ci sentiamo in dovere d'introdurre riguarda solo
l'eliminazione di quell'olim («un tempo»): non è una cosa da poco,
perché riconoscendo la perenne attualità dell'alleanza tra Dio e il
suo popolo, Israele, potremo riscoprire a nostra volta, insieme con i
fratelli ebrei, l'irrevocabile universalità della vocazione a servire
l'umanità nella pace e nella giustizia, fino al pieno avvento del Suo
regno.
È quanto raccomanda il Pontefice anche nella sua esortazione
apostolica post-sinodale Ecclesia
in Europa del 28 giugno scorso, ricordando il «rapporto che lega la
Chiesa al popolo ebraico e il ruolo singolare di Israele nella storia
della salvezza» (n. 56). Papa Giovanni Paolo II continua osservando che
«occorre riconoscere le comuni radici che intercorrono tra il
cristianesimo e il popolo ebraico, chiamato da Dio a un'alleanza che
rimane irrevocabile (Romani 11, 29), avendo raggiunto la definitiva
pienezza in Cristo. È, quindi, necessario favorire il dialogo con
l'ebraismo, sapendo che esso è di fondamentale importanza per
l'autocoscienza cristiana e per il superamento delle divisioni tra le
Chiese» (ibidem).
Il dialogo e la collaborazione tra cristiani ed ebrei
«implica, tra l'altro, che si faccia memoria della parte che i figli
della Chiesa hanno potuto avere nella nascita e nella diffusione di un
atteggiamento antisemita nella storia e di ciò si chieda perdono a Dio,
favorendo in ogni modo incontri di riconciliazione e di amicizia con i
figli di Israele» (ibidem). In questo spirito di ritrovata fraternità
potrà rifiorire una nuova primavera per la Chiesa e per il mondo, con
il cuore rivolto da Roma a Gerusalemme e alla terra dei Padri, perché
anche là possa germogliare e maturare presto una pace durevole e giusta
per tutti, come un vessillo innalzato in mezzo ai popoli.
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