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Dalla prossima visita del Papa verranno progressi nel processo storico di riconciliazione

Cattolici ed ebrei per la pace in Terra Santa
di David Rosen
Gran rabbino, presidente dell'«International Jewish Committee for interreligious consultations»,
direttore internazionale per gli affari interreligiosi dell'«;American Jewish Committee»
 
Il 12 marzo scorso Benedetto XVI ha ricevuto in udienza i delegati del Gran Rabbinato d'Israele e della Commissione della Santa Sede per i Rapporti religiosi con l'Ebraismo. Il Papa ha espresso la speranza che la sua visita in Israele rafforzi i rapporti fra cattolici ed ebrei e inoltre promuova la pace nella regione.

Tutte le persone di buona volontà pregano con fervore affinché quest'ultima speranza si realizzi. Tuttavia, senza dubbio, la sua visita renderà di fatto più intenso il processo storico di riconciliazione tra cattolici ed ebrei, e non solo perché il Papa dimostrerà buona volontà ai circa sei milioni di ebrei che risiedono oggi in Terra Santa.

Benedetto XVI ricalcherà le orme del suo grande predecessore, sia letteralmente sia figurativamente. Giovanni Paolo II, l'eroe della riconciliazione fra cattolici ed ebrei nei nostri tempi, comprese appieno che la visita di un Papa in Israele rivestiva in sé un significato speciale per la riconciliazione fra ebrei e cristiani.

Già nella sua Lettera apostolica Redemptionis anno, pubblicata il 20 aprile 1984, Venerdì Santo, Giovanni Paolo II parlò della "terra che chiamiamo santa" riferendosi al significato che Gerusalemme ha per cristiani, musulmani ed ebrei. Per quanto riguarda questi ultimi scrisse: "per gli ebrei essa è oggetto di vivo amore e di perenne richiamo, ricca di numerose impronte e memorie, fin dal tempo di David che la scelse come capitale e di Salomone che vi edificò il tempio. Da allora essi guardano, si può dire, ogni giorno ad essa e la indicano come simbolo della loro nazione".

Queste frasi penetranti riflettono la comprensione di Giovanni Paolo II non solo del significato storico, ma anche di quello religioso ed esistenziale della terra di Israele per il popolo ebraico.
Gli ebrei "guardano" e tre volte al giorno si piegano in preghiera verso Israele, se sono in diaspora; verso Gerusalemme, se si trovano in Israele. Se sono a Gerusalemme si rivolgono al Monte del Tempio, il luogo che l'Onnipotente ha scelto "per stabilirvi il suo nome" (Deuteronomio, 12, 5-11).

Il legame religioso fra la Terra Santa e la Città Santa è una parte integrante e ineliminabile del calendario religioso e della celebrazione liturgica ebraici. Ciò riflette semplicemente che il mandato biblico di essere "un regno di sacerdoti e una nazione santa" (Esodo, 19, 6) esige che le persone vivano questo paradigma idealmente "come i giorni del cielo sopra la terra, nel paese che il Signore ha giurato ai vostri padri di dare loro" (Deuteronomio, 11, 21; cfr. Esodo, 6, 4-8).
Infatti, tutto il racconto biblico è indissolubilmente legato alla terra. L'esilio da essa è visto non solo come un'umiliazione, ma anche come una "profanazione del nome divino". Di conseguenza, il ritorno alla terra non è considerato solo come elemento essenziale della missione universale di Israele, ma anche come la santificazione del nome divino stesso (Ezechiele, 36, 23).

Questa centralità della città e della terra nella coscienza ebraica ha portato a una notevole autoidentificazione con esse, che si riflette in particolare nei profeti e specialmente nel libro di Isaia, in cui la popolazione è spesso descritta come "figlia di Sion" e persino come "Sion" stessa. Il passaggio nella liturgia del mattino del Sabbah "Abbi misericordia di Sion perché essa è la dimora della nostra vita" riflette questa identificazione.

Le osservazioni di Giovanni Paolo II nella Redemptionis anno rispecchiano quest'idea, secondo cui per gli ebrei Gerusalemme e la Terra Santa non sono solo il punto focale storico, ma anche il "segno" della loro identità.

Purtroppo, per la maggior parte della tragica storia dei rapporti fra cattolici ed ebrei, questo vincolo religioso ed esistenziale fra il popolo d'Israele e la Terra promessa è stato visto dalla cristianità come qualcosa di obsoleto, ormai privo di legittimità e validità. Di fatto l'idea stessa del ritorno del popolo ebraico in quella terra e del ripristino lì della sovranità è stata considerata spesso un anatema.

Lo storico documento del concilio Vaticano II Nostra aetate ha respinto l'idea che il popolo ebraico sia stato rifiutato da Dio e ha affermato che l'alleanza divina con il popolo d'Israele è eterna. Tuttavia, allo stesso tempo, la Santa Sede non ha riconosciuto il ritorno di una vita ebraica indipendente nel ripristinato Stato di Israele e il popolo ebraico (e credo anche il mondo cattolico) ha percepito che la Chiesa aveva ancora un "problema" con la sovranità ebraica in Terra Santa e a Gerusalemme.

È interessante quanto raccontato dall'arcivescovo Loris Capovilla, che fu segretario di Giovanni XXIII. Il Pontefice, una volta affrontato il rapporto della Chiesa con il popolo ebraico - cosa avvenuta nella Nostra aetate - avrebbe voluto riconoscere ufficialmente lo Stato di Israele. Il Papa, però, non visse tanto da assistere alla promulgazione della Nostra aetate stessa ed eventi di carattere principalmente politico causarono un ritardo di altri ventotto anni nella normalizzazione di questi rapporti bilaterali.

Il documento pubblicato nel 1985 dalla Commissione della Santa Sede per i Rapporti religiosi con l'Ebraismo, intitolato Note sul modo corretto di presentare gli ebrei e l'ebraismo nella predicazione e nel catechismo della Chiesa cattolica romana, basato sulla Nostra aetate, ha definito la persistenza di Israele "un fatto storico e un segno da interpretare nell'ambito del disegno di Dio".

Il documento afferma che "la storia d'Israele non è terminata nel 70 a.d., è proseguita, in particolare in numerose comunità della diaspora che hanno permesso a Israele di recare al mondo intero una testimonianza, spesso eroica, della sua fedeltà all'unico Dio e di "esaltarlo alla presenza di tutti i viventi" (Tobit, 13, 4), mantenendo al contempo il ricordo della terra dei loro predecessori al centro della propria speranza (ossia Passover Seder)". Il documento aggiunge che "i cristiani sono invitati a comprendere questo attaccamento religioso, che affonda le proprie radici nella tradizione biblica".

Di conseguenza, la promessa della terra è un aspetto essenziale di questa alleanza sempre valida, cosicché si riconosce che il rapporto fra il popolo ebraico e la terra d'Israele ha origine "nella tradizione biblica". Quindi è presentato come un aspetto della fede cristiana da esporre come tale nell'insegnamento e nella predicazione cattolici. Come ha affermato Eugene Fisher, allora responsabile per i rapporti fra cattolici ed ebrei nella Conferenza episcopale degli Stati Uniti, "l'importanza teologica e, di fatto, dottrinale di quest'affermazione non va dunque sottovalutata".

Trascorsero altri otto anni prima che il riconoscimento si concretizzasse. Soprattutto grazie alla guida e all'impegno di Giovanni Paolo II, alla fine del 1993, la firma dell'Accordo fondamentale favorì pieni rapporti fra la Santa Sede e lo Stato d'Israele. Questo, a sua volta, rese possibile nell'anno 2000 lo storico pellegrinaggio di Giovanni Paolo II in Terra Santa, che ebbe un enorme impatto.

Uno degli aspetti caratteristici del pontificato di Giovanni Paolo II è stata l'abilità di trasmettere su vasta scala messaggi che fino a quel momento erano stati presenti soltanto negli insegnamenti e nei documenti del magistero. Lo ha fatto soprattutto comprendendo e utilizzando il potere del messaggio visivo. È stato il caso della sua visita alla Sinagoga di Roma nel 1986 e ancora di più della sua visita in Israele.

La maggior parte degli ebrei israeliani e, in particolare, dei più osservanti e tradizionalisti, non ha mai conosciuto un cristiano moderno. Queste persone, quando viaggiano all'estero, incontrano i non ebrei solo come tali, raramente come cristiani. Quindi traggono l'immagine prevalente che hanno del cristianesimo da un passato tragico e negativo. La visita papale in Israele ha aperto loro gli occhi di fronte a questa realtà nuova. Non solo la Chiesa non è stata più considerata ostile al popolo ebraico, ma il suo capo è stato visto come un amico sincero! Su un ampio settore della società israeliana ha avuto un impatto profondo vedere il Papa allo Yad Vashem, memoriale della Shoah, in lacrime di solidarietà con il dolore degli ebrei; apprendere in che modo egli stesso aveva contribuito a salvare ebrei in quel tempo terribile e poi come sacerdote aveva restituito i bambini ebrei protetti in case cristiane alle proprie famiglie ebree; vedere il Papa lasciare presso il Muro Occidentale, in rispettosa riverenza per la tradizione ebraica, il testo della preghiera che aveva composto per la giornata penitenziale celebrata il 12 marzo nella basilica di San Pietro, in cui implorava il perdono divino per i peccati commessi contro gli ebrei nel corso dei secoli.

Non da ultimo, anche se è stata descritta come pellegrinaggio, quella del Papa è stata pur sempre una visita di stato, con il relativo cerimoniale, e ha affermato il rispetto della Santa Sede per l'espressione contemporanea dell'indipendenza e dell'integrità ebraiche che sono legate indissolubilmente all'identità ebraica in tutto il mondo.

La visita di Giovanni Paolo II ha anche ottenuto un altro importante risultato, quando, durante l'incontro con il Rabbino Capo e il Consiglio del Gran Rabbinato d'Israele, il Papa ha proposto l'istituzione di una speciale Commissione bilaterale per il dialogo fra la Santa Sede e il Gran Rabbinato, che a tempo debito è stata creata e svolge incontri annuali, alternativamente a Roma e a Gerusalemme.

Negli ultimi otto anni, l'opera della Commissione presieduta dal rabbino capo Shera Yashuv Cohen e dal cardinale Jorge María Mejía ha condotto molte persone dell'ambiente rabbinico israeliano a un apprezzamento autentico della guida e dell'insegnamento dei cattolici e all'amicizia con essi. Questa Commissione coinvolge persone che fanno da cassa di risonanza e influenzano le percezioni e gli atteggiamenti di molte altre. Le immagini che lentamente giungono alla società israeliana grazie a questo incontro e a questa collaborazione sono molto importanti per la promozione del processo educativo volto a un maggior rispetto e a una maggiore comprensione reciproci. È stato grazie a questa Commissione, ricevuta da Benedetto XVI il 12 marzo, che si sono riaffermati i vincoli speciali della fede cattolica con il popolo ebraico e si è reiterato l'impegno profondo della Santa Sede nel continuare a promuovere il rapporto fra cattolici ed ebrei.

Visitando Israele ed esprimendo il rispetto della Santa Sede per lo Stato ebraico, rafforzando l'impatto della visita pionieristica del suo predecessore, senza dubbio Benedetto XVI farà progredire ulteriormente il processo storico di riconciliazione fra ebrei e cattolici. Preghiamo affinché la sua visita possa anche promuovere l'altro obiettivo, prefissato dal Papa, della promozione della pace e della riconciliazione fra le popolazioni e le fedi in Terra Santa e in tutto il Medio Oriente.


(©L'Osservatore Romano - 25 aprile 2009)

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