Una preghiera per amare, un dialogo per conoscere
17 gennaio 2006

Ascolta, Israele!
La prima delle Dieci Parole: “Io sono il Signore, tuo Dio”

Sussidio per la «Giornata per l'approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei» - Testo originale in formato.pdf - Locandina Lateranense.pdf
>Interventi Rav Di Segni e Padre Pizzaballa
 

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L’ iniziativa di una Giornata dedicata in modo speciale alla preghiera per il popolo ebraico e al dialogo con i figli d’Israele è maturata nella chiesa – non solo in Italia ma anche in altri Paesi – durante gli ultimi anni Ottanta. Tra i motivi centrali che hanno ispirato questa scelta si trovano certamente, accanto al fondamentale documento conciliare Nostra aetate promulgato nel 1965 da papa Paolo VI, i frequenti appelli e i solenni gesti di riconciliazione di papa Giovanni Paolo II, che nel 1986 incontrò la comunità ebraica romana nella storica visita al Tempio Maggiore. Anche i diversi gruppi di amicizia ebraico-cristiana che da vari decenni svolgono la loro attività in molti centri della penisola hanno offerto un terreno fecondo nel quale si è immediatamente inserita la proposta della Conferenza episcopale italiana. Un ruolo promotore della Giornata è stato svolto dalle Commissioni e dai responsabili che, ai vari livelli, nelle Diocesi e nella Comunità cristiane si sono assunti con alacrità e dinamismo il compito di approntare sussidi e favorire incontri tra le due comunità di fede, non di rado coinvolgendo anche cristiani di altre chiese e comunità ecclesiali.

Su questa base, lungo quindici anni, sono continuati e si sono approfonditi vincoli di solidarietà spirituale con i «Fratelli prediletti», in un clima di preghiera e di reciproco rispetto. Fondamentale è risultato, a questo scopo, il fatto che nella scelta stessa delle tematiche da proporre ogni anno venisse applicata una metodologia di confronto, dialogo e collaborazione, che ha comportato sempre l’ascolto attento della testimonianza ebraica quale momento essenziale per costruire insieme un itinerario da percorrere nella concordia.

Le giornate annuali – che in Italia si tengono il 17 gennaio – sono così divenute manifestazioni significative di quel vincolo radicale che, in una prospettiva ecumenica, accomuna cristiani di ogni confessione con il popolo «Primogenito dell’Alleanza» promessa ad Abramo e alla sua discendenza.

L’intrinseca implicazione ecumenica si trova felicemente espressa fin dall’inizio con la scelta della data, che precede immediatamente la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. In realtà si è constatato che una sola giornata non può bastare per soddisfare le molteplici esigenze del crescente movimento di avvicinamento fra ebrei e cristiani. Ciò ha fatto sì che molte iniziative si collocassero in settimane precedenti o antecedenti tale data.

Oltre a questo, da alcuni anni si è aggiunta, in ambito civile, la celebrazione della «Giornata della memoria» della Shoàh, egualmente fissata alla fine di gennaio, il che ha prodotto un ulteriore arricchimento nelle tematiche e negli incontri, a reciproco vantaggio di entrambe le Giornate, anche se hanno connotazioni ben distinte.

Seguendo e sviluppando l’esortazione di papa Benedetto XVI durante la sua visita nella Sinagoga di Colonia del 19 agosto 2005, la Giornata potrà ora sia ampliare la scelta delle tematiche, muovendo verso dimensioni sempre più universali, sia fornire modelli esemplari che ispirino analoghe iniziative di carattere spirituale, rivolte verso altre religioni, ma con una ricaduta senz’altro positiva anche per la civile convivenza.

GIORNATA DELL’EBRAISMO                                                 torna su
17 gennaio 2006

Ascolta, Israele! La prima delle Dieci Parole: “Io sono il Signore, tuo Dio”

«Il Decalogo (Es 20; Dt 5) è per noi patrimonio e impegno comune. I Dieci Comandamenti non sono un peso, ma l’indicazione del cammino verso una vita riuscita. Lo sono in particolare per i giovani (...). Il mio augurio è che essi sappiano riconoscere nel Decalogo questo fondamento comune, la lampada per i loro passi, la luce per il loro cammino (cf Sal 119, 105). Ai giovani gli adulti hanno la responsabilità di passare la fiaccola della speranza che da Dio è stata data agli ebrei come ai cristiani, perché “mai più” le forze del male arrivino al dominio e le generazioni future, con l’aiuto di Dio, possano costruire un mondo più giusto e pacifico in cui tutti gli uomini abbiano uguale diritto di cittadinanza».

Queste parole pronunziate da Papa Benedetto XVI nella sinagoga di Colonia il 19 agosto 2005 possono essere assunte quasi a dichiarazione programmatica per dare sostanza di dialogo e di comunione a questa Giornata che vede uniti in preghiera e nell’ascolto della parola di Dio i fedeli della Chiesa cattolica italiana. Al centro è posto il Decalogo, vera e propria stella polare della fede e della morale del popolo di Dio. Queste «dieci parole» sono, però, anche il «grande codice» della civiltà etica dell’intera umanità, dato che esse identificano bene e male, giusto e ingiusto, vero e falso anche secondo i criteri della coscienza retta di ogni creatura.

A partire da quest’anno vorremmo, perciò, iniziare un itinerario che avrà altre tappe nelle Giornate successive, così da proporre una riflessione costante e continua sulla sequenza progressiva dei dieci comandamenti. A guidare i cristiani c’è sempre il monito di Gesù che, fedele alla parola di Dio, a chi lo aveva interrogato sull’impegno operoso per ottenere la «vita eterna », aveva risposto: «Se vuoi entrare nella vita osserva i comandamenti» e li aveva anche elencati nei capi fondamentali (cf Mt 19,16-19).

In questa linea porremo, allora, al centro della Giornata 2006 il primo precetto, il comandamento principe, come è stato definito, vera e propria architrave dell’intera architettura spirituale del Decalogo, che, in questa luce, si rivela non solo come un codice morale ma anche come un testo teologico.

«Dio allora pronunciò tutte queste parole: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi”» (Es 20,1-6).

Questa solenne proclamazione di apertura delle «due tavole della testimonianza, tavole di pietra scritte dal dito di Dio» (Es 31,18), ci presenta un Dio che entra nella storia come persona, dichiarando il suo «io», ossia un’identità viva che agisce intervenendo nella vicenda umana con la sua parola e la sua azione. Egli, infatti, si manifesta come il liberatore degli oppressi ed è a questa sua rivelazione efficace, attestata sull’esodo d’Israele dalla schiavitù faraonica, che siamo invitati a offrire la nostra adesione di fedeltà e fiducia.

Ecco, allora, il primo dei tre impegni che costituiscono l’anima di questo comandamento. Dobbiamo innanzitutto riconoscere l’unicità assoluta e sovrana del Signore contro ogni tentazione idolatrica. È il grande appello dello Shemà, l’«Ascolta!», caro anche a Gesù di Nazareth: «Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo!» (Dt 6,4; cf Mc 12,29). Come insegna il prosieguo di quel testo, non si tratta solo di riconoscere in sede teorica il monoteismo, ma anche di scegliere il Signore come colui al quale ci si abbandona totalmente nella fede e nell’amore. All’interrogativo rivoltogli da uno scriba, su quale sia il massimo comandamento, Gesù risponde ripetendo lo Shemà con le parole di Mosè: «Il primo comandamento è: Ascolta Israele! Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più importante di questi.

Allora lo scriba gli disse: “Hai detto bene, maestro, e secondo verità che Egli è unico e non v’è altri all’infuori di Lui; amarlo con tutto il cuore, e con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici”. Gesù, vedendo che aveva risposto saggiamente, gli disse: “Non sei lontano dal Regno di Dio”» (Marco 12, 29-33).

Via ebraica e via cristiana si rispecchiano l’una nell’altra al punto da risultare indivisibili quanto alla sostanza spirituale ed etica. E la parola Ascolta Israele! dovrebbe ancora risuonare per i popoli del mondo quale invito ad ascoltare ed accogliere la testimonianza di fede dell’Israele di oggi.

C’è, poi, una seconda dichiarazione imperativa: «Non ti farai idolo né immagine alcuna…». Il pensiero corre alla scena del vitello d’oro, narrata subito dopo (Es 32) il dono del Decalogo e l’incontro con la parola di Dio.

L’appello è chiaro e tagliente: Dio non è riducibile ad un oggetto, a un segno magico, a un’ideologia. La sua è una realtà infinita ed eterna che travalica spazio e tempo. Se proprio si vuole scoprire una sua immagine, c’è la creatura da lui particolarmente amata: «Dio creò l’uomo a sua immagine, ad immagine di Dio lo creò» (Gn 1,27). Su questo si fonda l’intangibile dignità di ogni persona umana, dalla sua nascita alla sua morte.

Infine, il primo comandamento presenta un ultimo impegno: «Non ti prostrerai davanti agli idoli e non li servirai». In queste parole si esalta la purezza del culto: l’adorazione deve essere riservata solo al Signore come ammonirà anche Gesù rivolto a Satana tentatore (Mt 4,9-10). Il comandamento ricorda che il Signore è un «Dio geloso», cioè un Dio appassionato e innamorato nei confronti dell’umanità che potrà anche respingerlo e tradirlo ma che troverà la sua libertà e la sua pienezza solo nel rimanere legata a Lui in un nodo d’amore.

Siamo, quindi, di fronte a un precetto che coinvolge nello stesso modo ebrei e cristiani. Esso è un forte appello alla purezza della fede nei confronti di un Dio vivo e personale, esigente ma anche amoroso. Egli è il garante della verità, della libertà e della morale per tutti, anche per coloro che non credono in lui e non lo riconoscono. Ma è soprattutto un Dio d’amore che, se condanna il peccato punendo «fino alla quarta generazione», è pronto a perdonare chi è pentito e a svelare la sua grazia benevola «fino alla millesima generazione».

SCHEMA DI CELEBRAZIONE (**)                                                     torna su

ESODO 20, 1-6

Dio allora pronunciò tutte queste parole:
Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi.

MEKHILTA DE-RABBI JSHMAEL (Bachodesh, 6)(1)

«Non avrai altri dèi di fronte a me».
Perché fu detto questo?
Perché dice: «Io sono il Signore, tuo Dio»
(Es 20, 2).

Questo versetto si può paragonare a un re che arrivò in una provincia. «Stabilisci dei decreti per questa popolazione», gli dissero i servi. Ma il re rispose loro: «No. Solo quando riconoscono la mia sovranità, stabilirò dei decreti per loro. Perché se non riconoscono la mia sovranità, non riconosceranno nemmeno i miei decreti».

Così parlò anche l’Onnipotente a Israele: «Io sono il Signore, tuo Dio non avrai altri dèi di fronte a me. Io sono colui del quale avete riconosciuto la sovranità in Egitto».

Soltanto quando risposero «Sì!», Egli proseguì: «Così, come avete riconosciuto la mia sovranità, accoglierete ora i miei decreti. Non avrai altri dèi di fronte a me».

BENEDIZIONE “AHAVAH”(2)

Con amore grande ci hai amati, (3) [Signore] nostro Dio, e con misericordia grande e sovrabbondante hai avuto pietà di noi.

Padre nostro, nostro Re, per riguardo ai nostri padri che ebbero fede in te e ai quali insegnasti precetti di vita, fai grazia anche a noi e istruiscici.

Padre nostro, Padre misericordioso e compassionevole, abbi misericordia di noi e concedi al nostro cuore di capire e di discernere, di ascoltare, di studiare e di insegnare, di custodire, di mettere in pratica e di compiere con amore tutte le parole che ci insegna la tua Torah.

Illumina i nostri occhi con la tua Torah, fai aderire il nostro cuore ai tuoi precetti e unifica il nostro cuore perché ami e tema il tuo Nome, così che non siamo confusi in eterno.

Poiché confidiamo nel tuo santo Nome, grande e onorato, esulteremo e gioiremo per la tua salvezza.

Benedetto sei Tu, [Signore] nostro Dio, che hai scelto il tuo popolo Israele con amore.

RECITA DELLO SHEMÀ

Ascolta, Israele: [il Signore] è il nostro Dio, [il Signore] è Uno. E amerai [il Signore] tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze. Queste parole che Io oggi ti comando saranno sul tuo cuore; le ripeterai ai tuoi figli e ne parlerai quando sarai seduto nella tua casa, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Le legherai alla tua mano come un segno e saranno come frontali tra i tuoi occhi, le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte.

MARCO 12, 28-34

Allora si accostò uno degli scribi che li aveva uditi discutere, e, visto come aveva loro ben risposto, gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti? ». Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più importante di questi». Allora lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità che Egli è unico e non v’è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». Gesù, vedendo che aveva risposto saggiamente, gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.

PREGHIERE DI INTERCESSIONE (*)

Benedizione dei cohanim [“sacerdoti”] (Nm 6, 24-26)

Ti benedica [il Signore] e ti custodisca.
Amen.

Faccia risplendere [il Signore] il suo volto su di te e ti conceda grazia.
Amen.

Rivolga [il Signore] il suo volto verso di te e ti dia pace.
Amen.

Benedetto sei Tu, Signore Dio nostro, re del mondo, che con imperscrutabile amore hai scelto Israele tra le genti come testimone del Dio Uno ed Unico.

Perché, accogliendo il dono di questa testimonianza, possiamo crescere nella fede, preghiamo…

Perché l’insegnamento religioso, la catechesi e la predicazione, favoriscano una conoscenza più approfondita della tradizione ebraica vivente ed educhino alla comprensione e al dialogo, preghiamo…

Perché nella lotta contro ogni forma di idolatria possiamo adempiere, in sincera amicizia con i fratelli ebrei, il servizio comune verso l’intera umanità, al fine che si manifesti nella storia la volontà del Dio Uno ed Unico, preghiamo…

Perché siamo vigilanti e risoluti nel condannare e nell’eliminare ogni forma di antigiudaismo e di razzismo, per collaborare secondo giustizia all’edificazione della pace, preghiamo…

(*) Qualcuna di queste preghiere di intercessione potrà essere inserita nella preghiera dei
fedeli durante l’Eucaristia della domenica 15 gennaio 2006 e del 17 gennaio.
___________________________

 (**) Questo schema potrà essere utilizzato in tutto o in parte per diversi momenti celebrativi tra cristiani (lodi, vespri, liturgia della Parola, Eucaristia).

(1) La Mekhilta è uno dei testi più antichi della tradizione rabbinica.
(2) È una delle benedizioni che precedono la recita sinagogale dello Shemà.
(3) La tradizione biblica ci consegna il nome impronunciabile di Dio con queste quattro consonanti, invitandoci a sostituirle nella lettura e nella preghiera con il temine Adonaj, “Signore”.
 

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Suggerimenti esegetici

Le «dieci parole» come rivelazione del Signore (20,1-2)

Le dieci parole, pronunciate dal Signore, sono introdotte da una parola con cui Egli si proclama il Dio dell’Esodo: «Io sono il Signore [] tuo Dio che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, da una casa di schiavi» (v. 2). L’espressione «Io il Signore tuo Dio» si ritrova al v. 5. Questa autopresentazione di Dio ci offre il significato stesso del suo nome : Egli è sempre presente, sempre vicino al suo popolo in ogni situazione, una presenza e una vicinanza di cui Israele ha fatto esperienza nella liberazione dalla schiavitù egiziana.

Questa proclamazione è molto importante perché costituisce la memoria del dono originario e ci dà il significato profondo della legge che si pone nella logica di quel dono come «insegnamento» offerto dal Signore che traccia per l’uomo un cammino verso la libertà. L’Esodo «è l’atto fondatore per eccellenza, è l’evento per il quale Israele diventa Israele. È un atto “originario”, che costituisce un popolo nella sua stessa essenza, e come tale è paragonabile alla creazione dell’uomo. Il Signore, presentandosi, dice di essere colui che ha voluto Israele…»(1).

La Scrittura parla di «dieci parole» (in ebraico, ‘aseret haddebarîm; in greco, déka lógoi)(2) e non di dieci comandamenti: il termine ebraico debarîm sottolinea il primato dell’aspetto rivelativo su quello etico(3), perché tutto il «decalogo» non è che un’esplicitazione dell’unica e fondamentale professione di fede con cui inizia e del primo comandamento che su essa si fonda e da essa deriva (v. 3). La tradizione ebraica sottolinea il rapporto tra le «dieci parole» con cui fu creato il mondo(4) e le «dieci parole» con cui con un atto creativo il Signore inaugura la sua alleanza con Israele (cf Dt 32,6b).

Io sono il Signore tuo Dio (20,2-6)

Entro la cornice dell’inclusione «Io sono il Signore tuo Dio» (cf vv. 2 e 5) stanno tre formulazioni normative espresse in forma negativa:

«Non avrai altri dèi di fronte a me» (v. 3);
«Non ti farai idolo né immagine alcuna…»
(v. 4);
«Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai…»
(v. 5).

La «prima parola» è: «Non avrai altri dèi di fronte a me» (v. 3). Israele è chiamato ad un rapporto cultuale ed esistenziale solo con il Signore. La formulazione antica non sembra essere tanto un’affermazione teoretica di monoteismo, ma un comando ad una scelta esistenziale esclusiva che non prende in considerazione il problema dell’esistenza di altri dèi.

L’esegesi rabbinica si chiede perché sia stata necessaria questa esplicitazione: «Non avrai altri dèi accanto a me». «Perché occorreva dirlo, dato che già si dice: Io sono il Signore tuo Dio?» (v. 2). Si può paragonare ad un re …che assunse il governo di una provincia. I suoi ufficiali lo consigliarono di imporre alla popolazione dei decreti, ma egli si oppose dicendo: «Quando avranno accettato il mio regno, imporrò loro dei decreti; ma finché non avranno accettato il mio regno, non accetteranno neppure i miei decreti!».

Così disse l’Onnipotente ad Israele: Io sono il Signore tuo Dio e non avrai altri dèi. Dapprima disse: «Io sono colui di cui voi avete accettato il regno in Egitto». Gli risposero: «Sì». Allora aggiunse: «Siccome avete accettato il mio regno, accettate anche i miei decreti: Non avrai altri dèi accanto a me!»(5).

La «seconda parola» (vv. 4-6) ha una formulazione un po’ ambigua: non si devono fare immagini che raffigurino[il Signore] o non si devono fare immagini idolatriche? Secondo la cultura del tempo l’immagine era portatrice di una forza divina che si poteva utilizzare mediante la magia.

Probabilmente la proibizione di raffigurare il Signore è più antica, quella di fabbricare idoli più recente. Non solo Israele non deve scolpire immagini di idoli, ma non deve cadere nella tentazione di voler raffigurare il Signore (cf Es 32: la scena del «vitello d’oro») con l’intenzione di catturarlo con un «nome» magicamente pronunciato. Il testo aggiunge alcune specificazioni: «né figura alcuna di quanto è in alto nel cielo o di quanto è in basso sulla terra o di quanto è nelle acque sotto la terra». Dt 4,12-20.23-24 ci offre la motivazione teologica che spiega questa aggiunta. «Tutto esiste come “linguaggio” per l’uomo (Gn 1; Sal 19) e la creatura è “linguaggio” del creatore. Ma l’unica “immagine” di Dio è la possibilità dell’uomo di “ascoltare” Dio. Il testo del Deuteronomio spiega che Israele non ha visto Dio, ma può ascoltare la sua parola, una parola che chiama all’obbedienza, che è espressione della libertà divina e quindi non pienamente disponibile per l’uomo. L’uomo è interlocutore posto in essere da questa parola, non ne è il padrone»(6).

La terza formulazione negativa (vv. 5-6) è collegata alla prima per lo stretto legame che la tradizione deuteronomica pone tra «gli altri dèi» e i due verbi tipicamente cultuali come «prostrarsi», e «servire». «Avere altri dèi» non può significare altro che rendere loro il culto. Nel contesto del «decalogo cultuale» (Es 34,10-28) ritroviamo questa proibizione con la stessa motivazione: «Non ti prostrerai davanti a un altro dio, perché il Signore si chiama geloso, egli è un Dio geloso» (34,14)(7). Il rapporto con il Signore non può essere che esclusivo perché è lui che ha fatto uscire Israele dall’Egitto per farlo diventare sua proprietà inalienabile. Questa esperienza del Signore è insostituibile per Israele ed è quindi costitutiva del suo rapporto esclusivo con il Signore(8). In questo senso la prima parola («Io sono il Signore tuo Dio») è veramente il comandamento fondamentale, il cui contenuto è esplicitato da tutte le altre «parole».
__________________________

1. P. BOVATI, Il libro del Deuteronomio (1-11), Città Nuova, Roma 1994, 55.
2. La divisione del testo ebraico è però diversa da quelle adottate dalla chiesa cattolica romana, in cui le prime due “parole” sono riunite ed è tralasciata la proibizione di farsi immagini di Dio, e dalla chiesa ortodossa e dalle chiese della riforma, che conservano però la seconda “parola” nella sua forma originale.
3. A. WÉNIN, “Le décalogue, révélation de Dieu et chemin de bonheur”, in Revue théologique de Louvain 25 (1994), 153-154.
4. Cf Pirqè Avot, V,1 in A. MELLO, Detti di rabbini, Qiqajon, Magnano (BI) 1993, 154-155.
5. Mekhilta de-Rabbi Ishmael, Bachodesh, 6. Cf A. MELLO (ed.), Il dono della Torah. Commento al Decalogo di Es 20 nella Mekilta di R. Ishmael, Città Nuova, Roma 1982, 63.
6. G. BORGONOVO, Introduzione alla storia della salvezza: Antico Testamento. Esodo, dispense Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano, Ciclo Istituzionale, anno accademico 1991/92, 127.
7. La presentazione del Signore come Dio “geloso” si trova anche in Dt 4,24; 5,9; 6,15.
8. G. BRAULIK , “Il Deuteronomio e la nascita del monoteismo”, in N. LOHFINK – E. ZENGER – G. BRAULIK – J. SCHARBERT, Dio l’Unico. Sulla nascita del monoteismo in Israele, Morcelliana, Brescia 1991, 60-63.

Rav GIUSEPPE LARAS 
Presidente dell'Assemblea dei Rabbini d'Italia 

S.E. Mons. VINCENZO PAGLIA 
Vescovo di Terni-Narni-Amelia e Presidente Commissione Episcopale
per l’ecumenismo e il dialogo della CEI



v.anche
Lateranense, 17 gennaio 2005: (e precedenti)
Intervento Rav Riccardo Di Segni
  -  Intervento Mons. Gianfranco Ravasi
01.01.2006 - Messaggio dell'Arcivescovo di Milano

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