17 gennaio 2006


Pontificia Università Lateranense - XVII Giornata per
 l'approfondimento e lo sviluppo del dialogo ebraico-cristiano:
 «Io sono il Signore Dio tuo» (Es 20 1-6 ; Dt 5)

 


Interventi tenuti nell'incontro, svoltosi il 17 gennaio:
Hanno partecipato: Rav Riccardo Di Segni, Padre Pierbattista Pizzaballa
Ha presentato Mons. Rino Fisichella

 



P. Pierbattista Pizzaballa O.F.M., Custode di Terrasanta:      torna su

Ringrazio innanzitutto gli organizzatori di questa giornata per avermi invitato a quest’importante incontro che annualmente ricorda a tutti l’importanza del dialogo tra ebrei e cristiani e ci richiama al legame profondo che esiste tra noi.

Il tema scelto quest’anno è particolarmente significativo ed impegnativo, Le dieci parole, infatti, che sono alla base del nostro agire, costituiscono “la stella polare della fede e della morale del popolo di Dio” e “il grande codice della civiltà etica dell’intera umanità” (V. Paglia – G. Laras).

Non presumo, ovviamente, di fare qui l’esegesi biblica del brano, non è questa la sede per questo genere di dissertazioni. Mi limiterò dunque a qualche breve considerazione sul brano.

1. L’alleanza

Innanzitutto il brano va collocato nel suo contesto. Gli esegeti ci hanno spiegato in tutti i dettagli l’origine di questi capitoli.

L’evento narrato nei capp. 19-24 (e 34) di Esodo costituisce il nucleo da cui si è sviluppata la legge di Israele. Il decalogo, dopo il capitolo 34, è considerato tra i documenti più antichi di questa pericope e “la cui caratteristica meravigliosa rispetto al precedente è quella di un codice più generale e universale per Israele, valida sempre e ovunque. [...] Tutti gli altri documenti legislativi vengono fatti nascere in qualche modo dal Sinai, Questo vale non solo per la legislazione cultuale... ma anche per il Dt il cui codice promulgato ai campi di Moab proviene dall’Alleanza Sinaitica (Dt 5, 2) e viene dettato a Mosé sull’Oreb” (E. Cortese, Le tradizioni storiche di Israele, Bologna 2001, 128).

L’evento dei Sinai, nel quale è stato collocato il decalogo è “l’atto fondatore per eccellenza, l’evento per il quale Israele diventa Israele”, è il momento fondante di Israele, che coincide con una rivelazione speciale di Dio.

Questo evento è suddiviso in tre parti: la Teofania (cap. 19), i termini dell’alleanza (decalogo, cap. 20), il Codice dell’Alleanza (20.22 – 24.9) che è un insieme di leggi più precise e dettagliate.

Tutto il libro comunque non parla d’altro che della rivelazione di Dio e pone Dio prima di tutto, a cominciare dall’apparizione a Mosé e dalla rivelazione del Nome. L’incontro di Israele con Dio al Sinai, insomma, è un punto fondamentale di tutta la storia della salvezza.

Esso rappresenta una riflessione “sulla lunga avventura del popolo di Dio, chiamato a scoprire Dio in modo diverso e più profondo che non il resto dell’umanità: che cosa significa lo speciale legame di Israele con Dio che ha avuto inizio al Sinai?” (Cortese, 125).

Le reazioni di Israele sono diverse, a seconda dei momenti: la paura di scoprire Dio (Es 20, 19, anche in Dt), il rifiuto (il vitello d’oro: Es 32), l’accettazione entusiasta (Es 24, 3-4), e così via. Una cosa è certa: Israele vive con Dio un legame intenso, e la percezione della sua trascendenza è avvertita in modo acuto e profondo dal popolo che gli è arrivato più vicino.

Il decalogo non è chiamato legge, ma parole, che sono la rivelazione di Dio w sua comunicazione con coloro che già lo conoscono. Il suo scopo è perpetuare la relazione creata fin dall’inizio, che è la salvezza dalla schiavitù. Il prologo del decalogo spiega di che ordine sia la relazione: quella del salvatore con i salvati. Anche se sappiamo che il decalogo è un documento assai antico, il racconto è costruito in modo tale da fare apparire l’esodo come anteriore al Decalogo e quest’ultimo come il suggello di tutto: è Dio che indirizza la sua parola ai salvati e traccia loro una via da percorrere.

Non si può dunque a mio avviso separare il decalogo, le dieci parole, dal contesto della Rivelazione e dell’Alleanza tra Dio e il popolo. Non possiamo limitarci a parlare di decalogo solo come grande codice dell’umanità, come criterio a se stante per stabilire bene e il male, il giusto e il falso e così via. E’ certamente anche questo, ed è giusto ricordarlo. Ma proprio noi, ebrei e cristiani, credenti nell’unico Dio e nella sua unica rivelazione, non possiamo permetterci di separare questo fondamento della nostra vita di credenti dal suo contesto e dalle sue radici: la rivelazione di Dio, unica ed esclusiva al suo popolo e l’alleanza che egli contrae con esso.

2. La prima Parola

Il decalogo contiene due ordini di precetti: quelli che definiscono il giusto atteggiamento davanti a Dio e quelli che regolano il comportamento col prossimo. Si tratta, tuttavia, di una distinzione artificiale: i due comandamenti formano un tutt’uno indivisibile. Non si osserva l’uno se non si osserva ugualmente anche l’altro. Anche nel NT abbiamo un passo che riprende questo tema e lo ribadisce con chiarezza: Mc 12, 28-34.

28 Allora si accostò uno degli scribi che li aveva uditi discutere, e, visto come aveva loro ben risposto, gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». 29 Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l'unico Signore; 30 amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. 31 E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c'è altro comandamento più importante di questi». 32 Allora lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità che Egli è unico e non v'è altri all'infuori di lui; 33 amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici». 34 Gesù, vedendo che aveva risposto saggiamente, gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.

Nel primo comandamento, sul quale si ferma oggi la nostra attenzione, si esige che si riconosca Dio come l’unico salvatore, escludendo la divinizzazione di falsi assoluti e le rappresentazioni create del Dio trascendente, Es 20,2-7:

Exodus 20,2-7

[20 2«Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù: 3non avrai altri dei di fronte a me. 4Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. 5Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, 6ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi. 7Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano.]

L’altro passo preso dal Dt ci aiuta a comprendere meglio questo testo (Dt 4,10-20 ed in particolare: 

15 Poiché dunque non vedeste alcuna figura, quando il Signore vi parlò sull'Oreb dal fuoco, state bene in guardia per la vostra vita, 16 perché non vi corrompiate e non vi facciate l'immagine scolpita di qualche idolo... 20 Voi invece, il Signore vi ha presi, vi ha fatti uscire dal crogiuolo di ferro, dall'Egitto, perché foste un popolo che gli appartenesse, come oggi difatti siete”).

Il testo del Dt spiega che il popolo non ha visto Dio, ma lo ha ascoltato. Tra Dio e Israele inoltre, vi è un rapporto unico: perché foste un popolo che gli appartenesse, come oggi difatti siete. Il Decalogo è il segno concreto, tangibile, di tale alleanza, di tale rapporto privilegiato. Per cui eviti il popolo di correre dietro ad altre esperienze. Scelga la vita (Dt 30) e resti fedele al suo Dio. Gli idoli Dio li ha abbandonati in sorte a tutti gli altri popoli (Dt 4, 19). Il legame profondo tra Dio e il popolo, simboleggiato dall’evento sinaitico e approfondito nel corso della storia di Israele, richiede un grande impegno morale e religioso, sia all’interno della nazione che nei rapporti con il mondo esterno.

Questo primo comandamento in realtà dichiara un’appartenenza reciproca: il popolo appartiene a Dio e in un certo senso Dio appartiene al suo popolo. Il Decalogo è il segno concreto di tale vincolo.

Una parola sul divieto di fare immagini

Su questo molto si è scritto e nei suoi primi anni il cristianesimo si è anche diviso e lacerato. Ma restiamo nel contesto biblico. Il divieto di fare immagini e l’invito, al contrario, al contrario a rifarsi continuamente all’esperienza di salvezza, di liberazione dalla schiavitù non ha nulla di astratto, Nel primo testamento, in cui come abbiamo sentito, è assoluto il divieto di fare immagini, si usa molto spesso l’espressione “volto del Signore”, almeno 400 volte. Vedere, cercare il Volto del Signore, significa incontrarLo, fare esperienza di Lui, intrattenere una relazione. Il rapporto col Signore non può essere qualcosa di astratto. La lettura di alcuni salmi (soprattutto il 17 e il 24) ci aiuta a capire come cercare il Volto significhi, al di là di un vago spiritualismo, vivere in un certo modo, secondo la legge di Dio, ricercando concretamente la giustizia. Un versetto del salmo 17 è particolarmente significativo:

Sal 16,15 (17,15; numerazione testo ebraico):

CEI: “Ma io per la giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua presenza.”

Testo ebraico:

(traslitterazione: ánî betzèdeq echezech fanècha, esbe'ah vehaqitz temunatèkha

Questo passo ci dice una verità affascinante. Nella giustizia, al risveglio, mi sazierò della sua immagine. Nel fare la giustizia, cioè nell’osservare i suoi comandi, nel rimanere fedele all’unica alleanza contemplerò l’immagine di Dio. Che bisogno hai di farti altre immagini?

In breve “La legge e l’alleanza sinaitica sono strettamente legate all’esperienza di Dio... Paradossalmente anche le infedeltà alla legge, i relativi castighi, i fallimenti parziali del piano divino, le angosce e le delusioni delle guide e dei responsabili, tragicamente coinvolti in tutto questo, fanno arrivare a Dio. Mosé ha raggiunto i vertici della mistica proprio attraverso queste prove e non nella quiete di un convento. Non è arrivato alla Terra, ma è arrivato al culmine della contemplazione di Dio, al Sinai e sul Nebo, alla sua morte” (Cortese, 131).

Il credente cristiano, contemplando questi passi, non può non pensare ai tanti richiami neotestamentari e alla figura di Gesù. I concetti di alleanza, comandamento, fedeltà, giustizia, ricerca, contemplazione del volto del Signore sono tutti messi in relazione alla persona di Gesù.

Dobbiamo evitare, comunque, nella nostra riflessione teologica quello che viene chiamato “espropriazione”: se l’alleanza antica rimane, ne rimangono destinatari privilegiati gli israeliti, come riconosce Paolo (Rm 9, 4). “La nostra lettura cristiana della legge, a volte, è diversa, ma l’abbiamo in comune, ci tiene uniti” (Cortese, 131). Praticare la giustizia, cioè l’osservare i comandamenti, ci vincola tutti allo stesso modo. Tutti aneliamo al Suo volto come la cerva ai corsi d’acqua.

Rav Riccardo Di Segni, Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma   torna su

Buona sera a tutti. Il mio primo ringraziamento speciale – e spiegherò perché speciale - va a Mons. Fisichella che ha voluto questo evento. Non è soltanto un ringraziamento rituale, ma la specialità sta nel fatto che ieri Mons. Fisichella mi ha tirato fuori da un grosso rischio di pasticcio perché, come sapete, ieri sera sono stato ricevuto dal Papa e durante il colloquio personale mi ha fatto subito una domanda: “Ma a Roma che cosa si fa tra la Comunità ebraica e il popolo della Chiesa, cosa fate di concreto?” “Domani si va da Mons. Fisichella!”

E quindi l’occasione è particolarmente gradita e, direi, tempestiva.

Il secondo ringraziamento è rivolto a Padre Pizzaballa al quale sono molto grato perché ha presentato la parte esplicativa, mentre io presenterò la parte problematica. Mi avevano parlato bene di Padre Pizzaballa, ma quello che mi hanno detto è inferiore assolutamente a quanto avevo sentito da lui.

Con un po’ di imbarazzo, a questo punto, espongo alcuni commenti sul tema che è stato assegnato. Come sapete questa Giornata si svolge in Italia con un tema prefissato scelto congiuntamente da Mons. Paglia, Vescovo di Terni e il Rav Laras, oggi Rabbino emerito di Milano. Si tratta di un tema che deve avere ovviamente interessi comuni e problematiche condivise. Il tema scelto è quanto mai indicativo, ma le cose che dirò vi stupiranno perché cercherò di svolgere una riflessione a proposito dei Dieci Comandamenti centrando l’attenzione su un paradosso del dialogo ebraico-cristiano. Il paradosso sta in una frase: ciò che ci unisce ci divide, e ciò che ci divide ci unisce.

Lo spiegherò in corso d’opera.

Permettetemi di spiegare quella che può sembrare una stranezza. Qui si parla di “Dieci Parole” che è la traduzione italiana precisa del termine greco “Decalogo”, che a sua volta è la traduzione dell’espressione biblica e rabbinica che rende lo stesso concetto.

Se si passa dall’espressione biblica a quella rabbinica succede un fenomeno strano, nel senso che nella Bibbia queste “Parole” sono chiamate debarim, mentre nel linguaggio rabbinico sono chiamate debarot: queste parole hanno cambiato sesso! erano di sesso maschile nella Bibbia e poi sono diventate di sesso femminile. Per quale motivo? Questa è la grande domanda alla quale si può tentare di rispondere forse tenendo presente che nel corso dell’evoluzione linguistica il significato della parola maschile, dabar, è cambiato: non è più soltanto la parola, ma anche la cosa. C’è stata quindi una sorta di materializzazione del concetto e allora, siccome tutto si può pensare tranne che le parole siano cose materiali, la trasformazione al femminile ha voluto ridare a queste parole la loro essenza puramente spirituale.

Perché si cerca di correggere “comandamenti” in “parole”? Perché la prima di queste affermazioni, di cui stiamo appunto discutendo, è una affermazione che sembra non comandi niente: Io sono il Signore tuo Dio. Non si possono chiamare comandamenti quando il primo non è un comandamento. Sarebbe meglio usare l’espressione originaria: le Dieci Parole.

In realtà su questo nella tradizione ebraica c’è un po’ di discussione, come su tutte le cose, perché non c’è mai la verità: molti esegeti sostengono che “Io sono il Signore tuo Dio” sia sostanzialmente una presentazione che fa da cappello a tutto il resto, mentre altri autorevoli commentatori sostengono che questa frase è implicitamente un comando che si riferisce alla necessità di affermare per ogni credente l’unità di Dio. Vedremo poi meglio in che modo questo si esprime.

Torniamo all’idea originale che avevo lanciano: ciò che ci unisce ci divide e ciò che ci divide ci unisce. Ciò che ci divide è essenzialmente la fede in Gesù. L’Ebraismo non accetta il principio fondamentale del Cristianesimo per cui Gesù è Messia e Figlio di Dio, Dio incarnato. E su questo non c’è alcuna possibilità di compromesso. Ma grazie a Gesù – questa è la tesi che viene sviluppata particolarmente da Benedetto XVI – l’umanità riconosce sacralità a quello che viene chiamato l’Antico Testamento. Il Cristianesimo origina non dal Nuovo Testamento, ma dall’Antico che poi, secondo la concezione cristiana, continua nel Nuovo. Se c’è una cosa che ci tiene saldamente uniti è il fatto che voi riconoscete sacralità all’Antico Testamento, lo riconoscete come Parola divina discesa dal cielo, dal Sinai, e promulgata per tutta l’umanità. E allora c’è questo paradosso fondamentale: è grazie (o malgrado) l’idea fondamentale della centralità del Cristo - che ci divide - che il mondo intero accetta ciò che per noi ebrei è principio fondamentale di fede. Questo è uno dei paradossi.

Al contrario, ciò che ci unisce ci divide: questo potrebbe emergere da una riflessione sui Dieci Comandamenti. Per spiegarlo vorrei fare una piccola digressione, pertinente, di tipo liturgico.

Nella nostra liturgia leggiamo le Dieci Parole in tre occasioni dell’anno. Nel giro dell’intero anno dobbiamo completare la lettura di tutto il Pentateuco e lo dividiamo perciò in porzioni settimanali. Ogni settimana dell’anno progressivamente nel leggiamo una.

Le Dieci Parole compaiono nel Pentateuco in due versioni che sono abbastanza simili, in Es 20 e in Dt 5. Per questo motivo nel periodo invernale intorno a febbraio, leggiamo Es 20, e nel periodo autunnale, tra agosto e settembre, leggiamo Dt 5. La terza occasione dell’anno in cui leggiamo liturgicamente le Dieci Parole è la festa di Shavuot, la Pentecoste ebraica, che appunto ricorda la promulgazione del Decalogo.

In queste tre occasioni la lettura avviene nelle sinagoghe in un modo estremamente solenne. La Bibbia noi non la leggiamo, la cantiamo. Abbiamo dei neumi come anche voi avete nel vostro canto, e quando arriviamo ai Dieci Comandamenti usiamo dei neumi speciali che danno una solennità eccezionale. E’ una esperienza entrare in una sinagoga e ascoltare questa lettura come la canta ancora il Rav Toaf secondo la tradizione sefardita livornese.

La domanda rituale è questa: quando si leggono i Dieci Comandamenti si sta in piedi o si sta seduti? Un tempo nelle sinagoghe si stava tutto il tempo in piedi ad ascoltare il brano biblico, ma siccome la lettura può durare tra mezz’ora e un’ora, non si può chiedere alle persone di stare in piedi così a lungo. Si è deciso così di ascoltare la lettura seduti per tutto l’anno.

Ma cosa succede con le Dieci Parole? Si sta in piedi o si sta seduti? C’è una grossa discussione: c’è chi dice che bisogna stare in piedi perché il brano è importante, fondamentale e c’è chi dice che bisogna stare seduti perché – e qui è tutta la chiave del discorso – se mi alzo in piedi soltanto per quel brano, segnalo che quello è un brano speciale, che conta più del resto. Invece secondo l’opinione fondamentale, tradizionale ebraica, tutta la Torà dalla prima lettera all’ultima lettera è parimenti sacra e parimenti Parola divina pronunciata sul monte Sinai. Se è tutto uguale, non possiamo distinguere qualcosa.

La discussione ha trovato la sua soluzione elegantissima. Quando si legge la Bibbia, si chiama una persona a leggere, la lettura si divide tra il pubblico. Se la persona che viene chiamata è di particolare rispetto per esempio il mio maestro o il mio genitore, mi alzo in piedi quando lui sta in piedi. Se viene chiamato a leggere il rabbino della Comunità, si alzano tutti in piedi e allora, per salvare capra e cavoli, la lettura dei Dieci Comandamenti si fa chiamando il rabbino...

Cosa ci importa di tutta questa storia liturgica?

Dietro questa discussione c’è in primo luogo una discussione intrinseca nel mondo ebraico, ma anche una discussione che ha diviso l’ebraismo dal cristianesimo, e cioè quello del valore centrale di quel pezzo di Torah rispetto a tutto il resto. Cos’è che è stato dato sul monte Sinai: tutta quanta la Torah o soltanto i Dieci Comandamenti? Cos’è che importa per il credente, per chi deve applicare queste norme? Tutta la Torah o soltanto i Dieci Comandamenti?

I Dieci Comandamenti rappresentano l’essenza – possiamo essere d’accordo secondo alcune linee esegetiche – ma l’essenza significa che solo quello è valido e il resto è meno valido e può andare in secondo piano o no? Questo è un problema che divide i due mondi religiosi.

Per l’ebreo l’osservanza di ogni precetto della Torah attraverso l’interpretazione che ne dà la Legge orale, è vincolante. Per il cristiano la strada la conoscete, è centrale l’essenza dei Dieci Comandamenti.

La questione è antica al punto tale che abbiamo delle fonti che dicono che quando ancora esisteva il Santuario di Gerusalemme nella sua liturgia quotidiana c’era una parte, recitata dai leviti, che cominciava con i Dieci Comandamenti, continuava con lo Shemà ecc.

Ma quando ancora c’era il Santuario a un certo punto è stato tolto l’uso di leggere i Dieci Comandamenti perché già allora c’era chi diceva che se si dà importanza ai Dieci Comandamenti si rischia di far passare in secondo piano l’origine divina di tutto il resto. Per es., noi indossiamo tutti i giorni feriali, nella preghiera i tefillim, i filatteri. Sono degli astucci di cuoio nei quali sono conservate delle pergamene che portano dei brani della Bibbia. Abbiamo prescritto da molti secoli quali devono essere questi brani. A Qumran sono stati trovati dei tefillim ortodossi e dei tefillim “eterodossi”: quelli ortodossi sono simili ai nostri, gli altri contengono anche i Dieci Comandamenti.

Il problema dei Dieci Comandamenti è proprio quello – ed è interessante e quasi paradossale che se ne parli questa sera – come noi ci riportiamo a questa parte della Torah: se questa sia l’essenza e solo questa sia la parte fondamentale o se sia invece la Torah tutta intera. Queste sono alcune delle strade che hanno diviso il popolo ebraico dal cristianesimo.

Ci sono tentativi esegetici anche curiosi di trovare nel testo dei Dieci Comandamenti la rappresentazione di tutti i precetti. Viene notato per es. che le parole del Decalogo nella versione dell’Esodo sono 620 laddove 613 è il numero dei precetti dedicati agli ebrei e 7 quelli dedicati all’umanità. Come a dire che tutto quanto è riassunto là. Però un conto è dire che è riassunto là, un conto è dire che è sufficiente osservare quelli e non gli altri.

Chiariti rapidamente questi concetti fondamentali, vorrei tornare al discorso iniziale. Affermazione o comando? Nachmanide dice che in questa prima dichiarazione c’è l’obbligo di pensare alla realtà di Dio, che Dio esiste, che Dio rinnova il mondo nel senso che lo crea ex nihilo, che Dio è potente, che Dio è unico, ma soprattutto Dio è quello che è, è Colui che agisce nella storia e anche qui ci troviamo di fronte ad un ennesimo paradosso perché la formulazione, “Io sono il tuo Dio che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”, a chi si rivolge? Si rivolge al popolo ebraico che ha fatto uscire dell’Egitto, ma parimenti è frase potente data a tutta l’umanità. Il popolo ebraico la interpreta nel senso che questa è una legge che è stata data ed io sono tenuto ad osservare tutti i 613 precetti e non le leggi naturali o i 7 precetti. Un conto è il Dio che crea il mondo e pone tutta l’umanità, tutto il creato sullo stesso piano, e un conto è il Dio che libera Israele chiamandolo ad un sacerdozio particolare. Essendo un sacerdozio particolare si è sottoposti ad una disciplina molto particolare e più specificamente rigorosa.

Anche qui un ennesimo paradosso: a chi si rivolgono i Dieci Comandamenti? C’è anche qui una discussione esegetica ebraica e fuori dall’ebraismo: quali parole sono state dette da Dio, quali sono state dette a tutti quanti e quali le ha sentite soltanto Mosè? Su questo anche la nostra tradizione non è mai d’accordo. C’è chi dice che le prime due Parole sono state dette, c’è chi dice che sono state dette tutte e dieci le Parole.

E poi quali sono queste due prime Parole? Sappiamo che le Parole sono dieci, ma le frasi sono tante e quindi è necessario accorparle. Nella divisione ebraica troviamo:

1. Io sono il Signore
2. Non avrai altri dei
3. Non pronunciare il Nome di Dio invano

Questa non è una classificazione accettata da tutti e anche su questo si discute.

Un’ultima cosa. Un midrash, una interpretazione rabbinica, lancia un messaggio molto strano. Dice che Anoki, Dio, è un vocabolo di lingua egiziana. Cosa vuol dire questo messaggio in codice?

Vuol dire che Dio stesso si esprime attraverso allusioni e attraverso messaggi chiari. Quando Dio si rivela nella storia e parla dell’Egitto come Beth Avadim, casa degli schiavi, luogo della schiavitù, Dio usa quella lingua, la lingua della schiavitù, la lingua del paese degli schiavi. Come a dire che la schiavitù non è perenne, che ciò che è negativo può essere trasformato in positivo e che anche nel momento in cui si scende più in basso nella vita e nella storia c’è una luce che brilla e c’è un Dio che ti fa uscire da quel luogo. Anche se la lingua di quel luogo è l’unica cosa che capisci e ti suona in maniera estremamente dura. Grande messaggio di liberazione, seduzione potente per tutta l’umanità, luogo di condivisione e luogo di discussione.

Grazie per l’attenzione.
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[testo trascritto dalla sbobinatura, non rivisto dall'Autore - ndr]

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