P.
Pierbattista Pizzaballa O.F.M., Custode di Terrasanta:
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Ringrazio
innanzitutto gli organizzatori di questa giornata per
avermi invitato a quest’importante incontro che
annualmente ricorda a tutti l’importanza del dialogo
tra ebrei e cristiani e ci richiama al legame profondo
che esiste tra noi.
Il tema
scelto quest’anno è particolarmente significativo ed
impegnativo, Le dieci parole, infatti, che sono
alla base del nostro agire, costituiscono “la stella
polare della fede e della morale del popolo di Dio” e
“il grande codice della civiltà etica dell’intera
umanità” (V. Paglia – G. Laras).
Non
presumo, ovviamente, di fare qui l’esegesi biblica del
brano, non è questa la sede per questo genere di
dissertazioni. Mi limiterò dunque a qualche breve
considerazione sul brano.
1. L’alleanza
Innanzitutto
il brano va collocato nel suo contesto. Gli esegeti ci
hanno spiegato in tutti i dettagli l’origine di questi
capitoli.
L’evento
narrato nei capp. 19-24 (e 34) di Esodo costituisce il
nucleo da cui si è sviluppata la legge di Israele. Il
decalogo, dopo il capitolo 34, è considerato tra i
documenti più antichi di questa pericope e “la cui
caratteristica meravigliosa rispetto al precedente è
quella di un codice più generale e universale per
Israele, valida sempre e ovunque. [...] Tutti gli altri
documenti legislativi vengono fatti nascere in qualche
modo dal Sinai, Questo vale non solo per la legislazione
cultuale... ma anche per il Dt il cui codice promulgato
ai campi di Moab proviene dall’Alleanza Sinaitica (Dt
5, 2) e viene dettato a Mosé sull’Oreb” (E.
Cortese, Le tradizioni storiche di Israele,
Bologna 2001, 128).
L’evento
dei Sinai, nel quale è stato collocato il decalogo è
“l’atto fondatore per eccellenza, l’evento per il
quale Israele diventa Israele”, è il momento fondante
di Israele, che coincide con una rivelazione speciale di
Dio.
Questo
evento è suddiviso in tre parti: la Teofania (cap. 19),
i termini dell’alleanza (decalogo, cap. 20), il Codice
dell’Alleanza (20.22 – 24.9) che è un insieme di
leggi più precise e dettagliate.
Tutto il
libro comunque non parla d’altro che della rivelazione
di Dio e pone Dio prima di tutto, a cominciare dall’apparizione
a Mosé e dalla rivelazione del Nome. L’incontro di
Israele con Dio al Sinai, insomma, è un punto
fondamentale di tutta la storia della salvezza.
Esso
rappresenta una riflessione “sulla lunga avventura del
popolo di Dio, chiamato a scoprire Dio in modo diverso e
più profondo che non il resto dell’umanità: che cosa
significa lo speciale legame di Israele con Dio che ha
avuto inizio al Sinai?” (Cortese, 125).
Le
reazioni di Israele sono diverse, a seconda dei momenti:
la paura di scoprire Dio (Es 20, 19, anche in Dt), il
rifiuto (il vitello d’oro: Es 32), l’accettazione
entusiasta (Es 24, 3-4), e così via. Una cosa è certa:
Israele vive con Dio un legame intenso, e la percezione
della sua trascendenza è avvertita in modo acuto e
profondo dal popolo che gli è arrivato più vicino.
Il
decalogo non è chiamato legge, ma parole, che sono la
rivelazione di Dio w sua comunicazione con coloro che
già lo conoscono. Il suo scopo è perpetuare la
relazione creata fin dall’inizio, che è la salvezza
dalla schiavitù. Il prologo del decalogo spiega di che
ordine sia la relazione: quella del salvatore con i
salvati. Anche se sappiamo che il decalogo è un
documento assai antico, il racconto è costruito in modo
tale da fare apparire l’esodo come anteriore al
Decalogo e quest’ultimo come il suggello di tutto: è
Dio che indirizza la sua parola ai salvati e traccia
loro una via da percorrere.
Non si
può dunque a mio avviso separare il decalogo, le
dieci parole, dal contesto della Rivelazione e dell’Alleanza
tra Dio e il popolo. Non possiamo limitarci a parlare di
decalogo solo come grande codice dell’umanità,
come criterio a se stante per stabilire bene e il male,
il giusto e il falso e così via. E’ certamente anche
questo, ed è giusto ricordarlo. Ma proprio noi, ebrei e
cristiani, credenti nell’unico Dio e nella sua unica
rivelazione, non possiamo permetterci di separare questo
fondamento della nostra vita di credenti dal suo
contesto e dalle sue radici: la rivelazione di Dio,
unica ed esclusiva al suo popolo e l’alleanza che egli
contrae con esso.
2. La
prima Parola
Il
decalogo contiene due ordini di precetti: quelli che
definiscono il giusto atteggiamento davanti a Dio e
quelli che regolano il comportamento col prossimo. Si
tratta, tuttavia, di una distinzione artificiale: i due
comandamenti formano un tutt’uno indivisibile. Non si
osserva l’uno se non si osserva ugualmente anche l’altro.
Anche nel NT abbiamo un passo che riprende questo tema e
lo ribadisce con chiarezza: Mc 12, 28-34.
28 Allora
si accostò uno degli scribi che li aveva uditi
discutere, e, visto come aveva loro ben risposto, gli
domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?».
29 Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele. Il
Signore Dio nostro è l'unico Signore; 30 amerai dunque
il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la
tua mente e con tutta la tua forza. 31 E il secondo è
questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c'è
altro comandamento più importante di questi». 32
Allora lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e
secondo verità che Egli è unico e non v'è altri
all'infuori di lui; 33 amarlo con tutto il cuore, con
tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo
come se stesso val più di tutti gli olocausti e i
sacrifici». 34 Gesù, vedendo che aveva risposto
saggiamente, gli disse: «Non sei lontano dal regno di
Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.
Nel primo
comandamento, sul quale si ferma oggi la nostra
attenzione, si esige che si riconosca Dio come l’unico
salvatore, escludendo la divinizzazione di falsi
assoluti e le rappresentazioni create del Dio
trascendente, Es 20,2-7:
Exodus
20,2-7
[20
2«Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho
fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di
schiavitù: 3non avrai altri dei di fronte a me. 4Non ti
farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù
nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né
di ciò che è nelle acque sotto la terra. 5Non ti
prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io,
il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce
la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla
quarta generazione, per coloro che mi odiano, 6ma che
dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per
quelli che mi amano e osservano i miei comandi. 7Non
pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché
il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il suo
nome invano.]
L’altro
passo preso dal Dt ci aiuta a comprendere meglio questo
testo (Dt 4,10-20 ed in particolare:
“15 Poiché
dunque non vedeste alcuna figura, quando il Signore vi
parlò sull'Oreb dal fuoco, state bene in guardia per la
vostra vita, 16 perché non vi corrompiate e non vi
facciate l'immagine scolpita di qualche idolo... 20 Voi
invece, il Signore vi ha presi, vi ha fatti uscire dal
crogiuolo di ferro, dall'Egitto, perché foste un popolo
che gli appartenesse, come oggi difatti siete”).
Il
testo del Dt spiega che il popolo non ha visto Dio, ma
lo ha ascoltato. Tra Dio e Israele inoltre, vi è un
rapporto unico: perché foste un popolo che gli
appartenesse, come oggi difatti siete. Il Decalogo
è il segno concreto, tangibile, di tale alleanza, di
tale rapporto privilegiato. Per cui eviti il popolo di
correre dietro ad altre esperienze. Scelga la vita (Dt
30) e resti fedele al suo Dio. Gli idoli Dio li ha
abbandonati in sorte a tutti gli altri popoli (Dt 4,
19). Il legame profondo tra Dio e il popolo,
simboleggiato dall’evento sinaitico e approfondito nel
corso della storia di Israele, richiede un grande
impegno morale e religioso, sia all’interno della
nazione che nei rapporti con il mondo esterno.
Questo
primo comandamento in realtà dichiara un’appartenenza
reciproca: il popolo appartiene a Dio e in un certo
senso Dio appartiene al suo popolo. Il Decalogo è il
segno concreto di tale vincolo.
Una
parola sul divieto di fare immagini
Su
questo molto si è scritto e nei suoi primi anni il
cristianesimo si è anche diviso e lacerato. Ma restiamo
nel contesto biblico. Il divieto di fare immagini e l’invito,
al contrario, al contrario a rifarsi continuamente all’esperienza
di salvezza, di liberazione dalla schiavitù non ha
nulla di astratto, Nel primo testamento, in cui come
abbiamo sentito, è assoluto il divieto di fare
immagini, si usa molto spesso l’espressione “volto
del Signore”, almeno 400 volte. Vedere, cercare il
Volto del Signore, significa incontrarLo, fare
esperienza di Lui, intrattenere una relazione. Il
rapporto col Signore non può essere qualcosa di
astratto. La lettura di alcuni salmi (soprattutto il 17
e il 24) ci aiuta a capire come cercare il Volto
significhi, al di là di un vago spiritualismo, vivere
in un certo modo, secondo la legge di Dio, ricercando
concretamente la giustizia. Un versetto del salmo 17 è
particolarmente significativo:
Sal
16,15 (17,15; numerazione testo ebraico):
CEI:
“Ma io per la giustizia contemplerò il tuo volto, al
risveglio mi sazierò della tua presenza.”
Testo
ebraico:
(traslitterazione:
ánî betzèdeq echezech fanècha, esbe'ah vehaqitz
temunatèkha
Questo
passo ci dice una verità affascinante. Nella giustizia,
al risveglio, mi sazierò della sua immagine. Nel fare
la giustizia, cioè nell’osservare i suoi comandi, nel
rimanere fedele all’unica alleanza contemplerò l’immagine
di Dio. Che bisogno hai di farti altre immagini?
In
breve “La legge e l’alleanza sinaitica sono
strettamente legate all’esperienza di Dio...
Paradossalmente anche le infedeltà alla legge, i
relativi castighi, i fallimenti parziali del piano
divino, le angosce e le delusioni delle guide e dei
responsabili, tragicamente coinvolti in tutto questo,
fanno arrivare a Dio. Mosé ha raggiunto i vertici della
mistica proprio attraverso queste prove e non nella
quiete di un convento. Non è arrivato alla Terra, ma è
arrivato al culmine della contemplazione di Dio, al
Sinai e sul Nebo, alla sua morte” (Cortese, 131).
Il
credente cristiano, contemplando questi passi, non può
non pensare ai tanti richiami neotestamentari e alla
figura di Gesù. I concetti di alleanza, comandamento,
fedeltà, giustizia, ricerca, contemplazione del volto
del Signore sono tutti messi in relazione alla persona
di Gesù.
Dobbiamo
evitare, comunque, nella nostra riflessione teologica
quello che viene chiamato “espropriazione”: se l’alleanza
antica rimane, ne rimangono destinatari privilegiati gli
israeliti, come riconosce Paolo (Rm 9, 4). “La nostra
lettura cristiana della legge, a volte, è diversa, ma l’abbiamo
in comune, ci tiene uniti” (Cortese, 131). Praticare
la giustizia, cioè l’osservare i comandamenti, ci
vincola tutti allo stesso modo. Tutti aneliamo al Suo
volto come la cerva ai corsi d’acqua.
Rav Riccardo
Di Segni, Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma
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Buona sera a tutti. Il mio
primo ringraziamento speciale – e spiegherò perché
speciale - va a Mons. Fisichella che ha voluto questo evento.
Non è soltanto un ringraziamento rituale, ma la specialità
sta nel fatto che ieri Mons. Fisichella mi ha tirato fuori da
un grosso rischio di pasticcio perché, come sapete, ieri sera
sono stato ricevuto dal Papa e durante il colloquio personale
mi ha fatto subito una domanda: “Ma a Roma che cosa si fa
tra la Comunità ebraica e il popolo della Chiesa, cosa fate
di concreto?” “Domani si va da Mons. Fisichella!”
E quindi l’occasione è
particolarmente gradita e, direi, tempestiva.
Il secondo ringraziamento è
rivolto a Padre Pizzaballa al quale sono molto grato perché
ha presentato la parte esplicativa, mentre io presenterò la
parte problematica. Mi avevano parlato bene di Padre
Pizzaballa, ma quello che mi hanno detto è inferiore
assolutamente a quanto avevo sentito da lui.
Con un po’ di imbarazzo, a
questo punto, espongo alcuni commenti sul tema che è stato
assegnato. Come sapete questa Giornata si svolge in Italia con
un tema prefissato scelto congiuntamente da Mons. Paglia,
Vescovo di Terni e il Rav Laras, oggi Rabbino emerito di
Milano. Si tratta di un tema che deve avere ovviamente
interessi comuni e problematiche condivise. Il tema scelto è
quanto mai indicativo, ma le cose che dirò vi stupiranno
perché cercherò di svolgere una riflessione a proposito dei
Dieci Comandamenti centrando l’attenzione su un paradosso
del dialogo ebraico-cristiano. Il paradosso sta in una frase: ciò
che ci unisce ci divide, e ciò che ci divide ci unisce.
Lo spiegherò in corso d’opera.
Permettetemi di spiegare quella
che può sembrare una stranezza. Qui si parla di “Dieci
Parole” che è la traduzione italiana precisa del termine
greco “Decalogo”, che a sua volta è la traduzione dell’espressione
biblica e rabbinica che rende lo stesso concetto.
Se si passa dall’espressione
biblica a quella rabbinica succede un fenomeno strano, nel
senso che nella Bibbia queste “Parole” sono chiamate debarim,
mentre nel linguaggio rabbinico sono chiamate debarot:
queste parole hanno cambiato sesso! erano di sesso maschile
nella Bibbia e poi sono diventate di sesso femminile. Per
quale motivo? Questa è la grande domanda alla quale si può
tentare di rispondere forse tenendo presente che nel corso
dell’evoluzione linguistica il significato della parola
maschile, dabar, è cambiato: non è più soltanto la
parola, ma anche la cosa. C’è stata quindi una sorta di
materializzazione del concetto e allora, siccome tutto si può
pensare tranne che le parole siano cose materiali, la
trasformazione al femminile ha voluto ridare a queste parole
la loro essenza puramente spirituale.
Perché si cerca di correggere
“comandamenti” in “parole”? Perché la prima di queste
affermazioni, di cui stiamo appunto discutendo, è una
affermazione che sembra non comandi niente: Io sono il Signore
tuo Dio. Non si possono chiamare comandamenti quando il primo
non è un comandamento. Sarebbe meglio usare l’espressione
originaria: le Dieci Parole.
In realtà su questo nella
tradizione ebraica c’è un po’ di discussione, come su
tutte le cose, perché non c’è mai la verità: molti
esegeti sostengono che “Io sono il Signore tuo Dio” sia
sostanzialmente una presentazione che fa da cappello a tutto
il resto, mentre altri autorevoli commentatori sostengono che
questa frase è implicitamente un comando che si riferisce
alla necessità di affermare per ogni credente l’unità di
Dio. Vedremo poi meglio in che modo questo si esprime.
Torniamo all’idea originale
che avevo lanciano: ciò che ci unisce ci divide e ciò che ci
divide ci unisce. Ciò che ci divide è essenzialmente la
fede in Gesù. L’Ebraismo non accetta il principio
fondamentale del Cristianesimo per cui Gesù è Messia e
Figlio di Dio, Dio incarnato. E su questo non c’è alcuna
possibilità di compromesso. Ma grazie a Gesù –
questa è la tesi che viene sviluppata particolarmente da
Benedetto XVI – l’umanità riconosce sacralità a
quello che viene chiamato l’Antico Testamento. Il
Cristianesimo origina non dal Nuovo Testamento, ma dall’Antico
che poi, secondo la concezione cristiana, continua nel Nuovo.
Se c’è una cosa che ci tiene saldamente uniti è il fatto
che voi riconoscete sacralità all’Antico Testamento, lo
riconoscete come Parola divina discesa dal cielo, dal Sinai, e
promulgata per tutta l’umanità. E allora c’è questo
paradosso fondamentale: è grazie (o malgrado) l’idea
fondamentale della centralità del Cristo - che ci divide -
che il mondo intero accetta ciò che per noi ebrei è
principio fondamentale di fede. Questo è uno dei paradossi.
Al contrario, ciò che ci
unisce ci divide: questo potrebbe emergere da una riflessione
sui Dieci Comandamenti. Per spiegarlo vorrei fare una piccola
digressione, pertinente, di tipo liturgico.
Nella nostra liturgia leggiamo
le Dieci Parole in tre occasioni dell’anno. Nel giro dell’intero
anno dobbiamo completare la lettura di tutto il Pentateuco e
lo dividiamo perciò in porzioni settimanali. Ogni settimana
dell’anno progressivamente nel leggiamo una.
Le Dieci Parole compaiono nel
Pentateuco in due versioni che sono abbastanza simili, in Es
20 e in Dt 5. Per questo motivo nel periodo invernale intorno
a febbraio, leggiamo Es 20, e nel periodo autunnale, tra
agosto e settembre, leggiamo Dt 5. La terza occasione dell’anno
in cui leggiamo liturgicamente le Dieci Parole è la festa di Shavuot,
la Pentecoste ebraica, che appunto ricorda la promulgazione
del Decalogo.
In queste tre occasioni la
lettura avviene nelle sinagoghe in un modo estremamente
solenne. La Bibbia noi non la leggiamo, la cantiamo. Abbiamo
dei neumi come anche voi avete nel vostro canto, e quando
arriviamo ai Dieci Comandamenti usiamo dei neumi speciali che
danno una solennità eccezionale. E’ una esperienza entrare
in una sinagoga e ascoltare questa lettura come la canta
ancora il Rav Toaf secondo la tradizione sefardita livornese.
La domanda rituale è questa:
quando si leggono i Dieci Comandamenti si sta in piedi o si
sta seduti? Un tempo nelle sinagoghe si stava tutto il tempo
in piedi ad ascoltare il brano biblico, ma siccome la lettura
può durare tra mezz’ora e un’ora, non si può chiedere
alle persone di stare in piedi così a lungo. Si è deciso
così di ascoltare la lettura seduti per tutto l’anno.
Ma cosa succede con le Dieci
Parole? Si sta in piedi o si sta seduti? C’è una grossa
discussione: c’è chi dice che bisogna stare in piedi
perché il brano è importante, fondamentale e c’è chi dice
che bisogna stare seduti perché – e qui è tutta la chiave
del discorso – se mi alzo in piedi soltanto per quel brano,
segnalo che quello è un brano speciale, che conta più del
resto. Invece secondo l’opinione fondamentale, tradizionale
ebraica, tutta la Torà dalla prima lettera all’ultima
lettera è parimenti sacra e parimenti Parola divina
pronunciata sul monte Sinai. Se è tutto uguale, non possiamo
distinguere qualcosa.
La discussione ha trovato la
sua soluzione elegantissima. Quando si legge la Bibbia, si
chiama una persona a leggere, la lettura si divide tra il
pubblico. Se la persona che viene chiamata è di particolare
rispetto per esempio il mio maestro o il mio genitore, mi alzo
in piedi quando lui sta in piedi. Se viene chiamato a leggere
il rabbino della Comunità, si alzano tutti in piedi e allora,
per salvare capra e cavoli, la lettura dei Dieci Comandamenti
si fa chiamando il rabbino...
Cosa ci importa di tutta questa
storia liturgica?
Dietro questa discussione c’è
in primo luogo una discussione intrinseca nel mondo ebraico,
ma anche una discussione che ha diviso l’ebraismo dal
cristianesimo, e cioè quello del valore centrale di quel
pezzo di Torah rispetto a tutto il resto. Cos’è che è
stato dato sul monte Sinai: tutta quanta la Torah o soltanto i
Dieci Comandamenti? Cos’è che importa per il credente, per
chi deve applicare queste norme? Tutta la Torah o soltanto i
Dieci Comandamenti?
I Dieci Comandamenti
rappresentano l’essenza – possiamo essere d’accordo
secondo alcune linee esegetiche – ma l’essenza significa
che solo quello è valido e il resto è meno valido e può
andare in secondo piano o no? Questo è un problema che divide
i due mondi religiosi.
Per l’ebreo l’osservanza di
ogni precetto della Torah attraverso l’interpretazione che
ne dà la Legge orale, è vincolante. Per il cristiano la
strada la conoscete, è centrale l’essenza dei Dieci
Comandamenti.
La questione è antica al punto
tale che abbiamo delle fonti che dicono che quando ancora
esisteva il Santuario di Gerusalemme nella sua liturgia
quotidiana c’era una parte, recitata dai leviti, che
cominciava con i Dieci Comandamenti, continuava con lo Shemà
ecc.
Ma quando ancora c’era il
Santuario a un certo punto è stato tolto l’uso di leggere i
Dieci Comandamenti perché già allora c’era chi diceva che
se si dà importanza ai Dieci Comandamenti si rischia di far
passare in secondo piano l’origine divina di tutto il resto.
Per es., noi indossiamo tutti i giorni feriali, nella
preghiera i tefillim, i filatteri. Sono degli astucci
di cuoio nei quali sono conservate delle pergamene che portano
dei brani della Bibbia. Abbiamo prescritto da molti secoli
quali devono essere questi brani. A Qumran sono stati trovati
dei tefillim ortodossi e dei tefillim “eterodossi”:
quelli ortodossi sono simili ai nostri, gli altri contengono
anche i Dieci Comandamenti.
Il problema dei Dieci
Comandamenti è proprio quello – ed è interessante e quasi
paradossale che se ne parli questa sera – come noi ci
riportiamo a questa parte della Torah: se questa sia l’essenza
e solo questa sia la parte fondamentale o se sia invece la
Torah tutta intera. Queste sono alcune delle strade che hanno
diviso il popolo ebraico dal cristianesimo.
Ci sono tentativi esegetici
anche curiosi di trovare nel testo dei Dieci Comandamenti la
rappresentazione di tutti i precetti. Viene notato per es. che
le parole del Decalogo nella versione dell’Esodo sono 620
laddove 613 è il numero dei precetti dedicati agli ebrei e 7
quelli dedicati all’umanità. Come a dire che tutto quanto
è riassunto là. Però un conto è dire che è riassunto là,
un conto è dire che è sufficiente osservare quelli e non gli
altri.
Chiariti rapidamente questi
concetti fondamentali, vorrei tornare al discorso iniziale.
Affermazione o comando? Nachmanide dice che in questa prima
dichiarazione c’è l’obbligo di pensare alla realtà di
Dio, che Dio esiste, che Dio rinnova il mondo nel senso che lo
crea ex nihilo, che Dio è potente, che Dio è unico, ma
soprattutto Dio è quello che è, è Colui che agisce nella
storia e anche qui ci troviamo di fronte ad un ennesimo
paradosso perché la formulazione, “Io sono il tuo Dio che
ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”, a chi si
rivolge? Si rivolge al popolo ebraico che ha fatto uscire dell’Egitto,
ma parimenti è frase potente data a tutta l’umanità. Il
popolo ebraico la interpreta nel senso che questa è una legge
che è stata data ed io sono tenuto ad osservare tutti i 613
precetti e non le leggi naturali o i 7 precetti. Un conto è
il Dio che crea il mondo e pone tutta l’umanità, tutto il
creato sullo stesso piano, e un conto è il Dio che libera
Israele chiamandolo ad un sacerdozio particolare. Essendo un
sacerdozio particolare si è sottoposti ad una disciplina
molto particolare e più specificamente rigorosa.
Anche qui un ennesimo
paradosso: a chi si rivolgono i Dieci Comandamenti? C’è
anche qui una discussione esegetica ebraica e fuori dall’ebraismo:
quali parole sono state dette da Dio, quali sono state dette a
tutti quanti e quali le ha sentite soltanto Mosè? Su questo
anche la nostra tradizione non è mai d’accordo. C’è chi
dice che le prime due Parole sono state dette, c’è chi dice
che sono state dette tutte e dieci le Parole.
E poi quali sono queste due
prime Parole? Sappiamo che le Parole sono dieci, ma le frasi
sono tante e quindi è necessario accorparle. Nella divisione
ebraica troviamo:
1. Io sono il Signore
2. Non avrai altri dei
3. Non pronunciare il Nome di Dio invano
Questa non è una
classificazione accettata da tutti e anche su questo si
discute.
Un’ultima cosa. Un midrash,
una interpretazione rabbinica, lancia un messaggio molto
strano. Dice che Anoki, Dio, è un vocabolo di lingua
egiziana. Cosa vuol dire questo messaggio in codice?
Vuol dire che Dio stesso si
esprime attraverso allusioni e attraverso messaggi chiari.
Quando Dio si rivela nella storia e parla dell’Egitto come Beth
Avadim, casa degli schiavi, luogo della schiavitù, Dio
usa quella lingua, la lingua della schiavitù, la lingua del
paese degli schiavi. Come a dire che la schiavitù non è
perenne, che ciò che è negativo può essere trasformato in
positivo e che anche nel momento in cui si scende più in
basso nella vita e nella storia c’è una luce che brilla e c’è
un Dio che ti fa uscire da quel luogo. Anche se la lingua di
quel luogo è l’unica cosa che capisci e ti suona in maniera
estremamente dura. Grande messaggio di liberazione, seduzione
potente per tutta l’umanità, luogo di condivisione e luogo
di discussione.
Grazie per l’attenzione.
_________________________
[testo trascritto dalla sbobinatura, non rivisto dall'Autore -
ndr]
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