Questo testo è una versione non rivista di
una conferenza data nell’ambito della serie “La Chiesa Cattolica e
l'Ebraismo dal Vaticano II ad oggi” offerta dal Centro Cardinal Bea
presso la Pontificia Università Gregoriana dal 19 ottobre 2004 al
25 gennaio 2005 in collaborazione con il SIDIC Roma e con il sostegno
dell’American Jewish Committee.
Non credo sia una forzatura affermare che la shoà o
Olocausto (come si preferisce chiamare tale evento nel mondo
anglosassone), in quanto culmine di una multisecolare storia di
pregiudizio e persecuzione verso il popolo ebraico in Occidente,
costituisca il tema più doloroso e la questione che genera più
turbamento tra quegli ebrei e quei cristiani impegnati in un serio e
sincero dialogo interreligioso. Ma questo dolore, che sgorga da una
memoria storicamente illuminata, e questo turbamento che affiora a livello
di coscienza - di ogni coscienza moralmente educata - sono già parte
integrante dell'impegno dialogico, sono cioè già elementi costitutivi e
costruttivi di quell'apertura all'ascolto e di quella volontà di
interagire con l'altro senza le quali nessun dialogo, nessun incontro è
possibile. Infatti, nell'ascolto interattivo tra cristiani ed ebrei la
memoria del dolore inflitto e subìto durante la shoà, e il turbamento
indotto dalla presa di coscienza delle cause vicine e remote che quella
tragedia hanno reso possibile, rappresentano addirittura condizioni
necessarie affinché l'ascolto sia autentico e lo scambio sincero.
Certo, il dialogo ebraico-cristiano non deve
focalizzarsi solo su questa memoria, né fermarsi davanti a questo
turbamento; tuttavia, in tale dialogo i cristiani "cominciano"
da questa memoria, ben espressa dal documento del 16 marzo 1998 Noi
ricordiamo: una riflessione sulla shoà, firmato dalla Commissione per i
Rapporti Religiosi con l'Ebraismo: "Nel dare la sua singolare
testimonianza al Santo di Israele e alla Torà, il popolo ebraico ha
grandemente patito in diversi tempi e molti luoghi. Ma la Shoah fu
certamente la sofferenza peggiore di tutte... Il fatto che la shoà abbia
avuto luogo in Europa, cioè in paesi di lunga civilizzazione cristiana,
pone la questione della relazione tra la persecuzione nazista e gli
atteggiamenti dei cristiani, lungo i secoli, nei confronti degli
ebrei" (1). L'onestà di porre tale questione e di esaminare quegli
atteggiamenti implica l'esporsi al giudizio degli storici, se non della
storia, e di fatto ha significato un "lavoro su di sé, sulla stessa
auto-coscienza cristiana, che a sua volta ha comportato sofferenza e
turbamento. Più di una voce, infatti, ha espresso il dubbio che "la
storia", sia pure quella scritta in minuscolo, possa elevarsi a
criterio di verifica della fede e di valutazione dei comportamenti
cristiani nel passato, sottraendo a Dio il diritto di leggere nelle
coscienze e di giudicare gli eventi. Per rispondere a questa obiezione,
legittima ma troppo spiritualistica, occorre riflettere ancora sull'unicità
della shoà e sul senso della testimonianza alla quale ebrei e cristiani
sono stati, in momenti e in modi diversi, chiamati da Dio.
1. Chesbon ha-nefesh:
esame di coscienza e giudizio storico
La sapienza cristiana ha sempre insegnato il valore del
cosiddetto "esame di coscienza", la pia pratica con la quale
fino a pochi anni fa il cristiano usava chiudere le sue giornate come se,
trovandosi davanti a Dio, dovesse rendere conto delle proprie azioni od
omissioni, nella certezza che la sua propria coscienza fosse un tribunale
sufficientemente autorevole a valutare e giudicare, appunto come se fosse
davanti a Dio. Ma a cosa varrebbe l'ascolto della coscienza se ignorassimo
le parole di ammonimento e i giudizi su di noi che vengono dal nostro
prossimo? E' verità psicologico-ermeneutica da tutti accettata che noi
siamo e cresciamo grazie al riconoscimento e al dialogo continuo che
intratteniamo con il nostro ambiente famigliare, sociale, professionale,
politico. La nostra vita è costantemente sotto giudizio dei nostri
genitori, dei nostri superiori, dei nostri pari, dei nostri sottoposti...
e per un credente, la nostra vita è costantemente sotto il giudizio di
Dio, fin da ora. Quello che le escatologie teologiche chiamano "il
giorno del giudizio" è di fatto anticipato in ogni preghiera o, in
forma liturgica, è celebrato in determinati momenti dell'anno religioso.
Prendiamo a paradigma, ancora una volta, l'esperienza
di Israele. Nel giudaismo i dieci giorni che vanno da Rosh ha-shanà a
Kippur sono appunto ha-jomim ha-nora'im, i giorni terribili in cui ogni
ebreo si sente chiamato in giudizio a render conto di sé e a fare teshuvà
(ritorno/pentimento). Ma tale chiamata in giudizio non ha valore solo a
livello individuale. Essa è ancor più evidente a livello comunitario,
attraverso le esperienze dei digiuni che ricordano le tragedie collettive
(la distruzione dei due templi, la minaccia di Aman...) ovvero gli atti di
punizione e di misercordia divini. La missione di Israele è costantemente
sotto il giudizio di Dio, ma in modo non meno costante e urgente si trova
sotto il giudizio delle nazioni, che di quella missione restano i
beneficiari ultimi (Gen 12,3: "In te [Abramo] saranno benedette tutte
le famiglie [le nazioni] della terra"). E' la vocazione universale di
Israele, è il significato più profondo della sua testimonianza, ed è ciò
che Hitler intendeva sradicare: la memoria dell'elezione e il dovere della
testimonianza di Israele. Ora, l'essere sotto il costante giudizio delle
nazioni per Israele è quasi una condizione di esistenza, un esame che non
finisce mai, il prezzo della stessa elezione. Chiamato ad essere
"luce delle nazioni" (Is 42,6; 49,6), Israele in un certo modo
deve rendere conto di sé - essere responsabile, direbbe Levinas; "il
responsabile delle risorse umane" secondo l'emblematico titolo
dell'ultimo libro di Abraham B. Yehoshua - deve rispondere al resto dei
popoli, i quali guardano ad Israele come si guarda a oriente in cerca
della luce. Cosa vuol dire? Che la testimonianza di Israele deve
"passare l'esame" delle nazioni? No, perché la fonte di quella
testimonianza è la Parola divina che chiama. Nondimeno, Israele non è
libero di sottrarsi a quell'esame, perché lo sguardo fisso delle nazioni
custodisce la verità stessa di quella missione, è la contro-prova del
valore di quella testimonianza. Nella coscienza biblica e rabbinica, Dio
non esita addirittura ad usare le nazioni contro Israele, per ricordare ai
bene' Israel la loro chiamata e la loro verità, e per richiamarli
alle loro responsabilità.
Alcuni pensatori contemporanei hanno addirittura
applicato questo paradigma tradizionale agli ebrei che vivevano nella
Germania nazista e hanno visto in Hitler uno strumento della punizione
divina. Non è qui il luogo per discutere e problematizzare tale paradigma
teologico, ma esso mostra a quale limite può spingersi la coscienza di
essere costantemente sotto il duplice giudizio di Dio e delle nazioni,
oggi diremmo di Dio e della storia. La verità su noi stessi dunque non è,
non può essere meramente auto-referenziale, ma diventa una "chiamata
alla nostra verità" nella misura in cui ci apriamo all'altro,
accettiamo di essere nella sua prospettiva e di stare sotto il suo
sguardo. In una parola, diventiamo noi stessi quando accettiamo che
l'altro ci guardi e ponga così il suo giudizio su di noi.
L'auto-coscienza dei cristiani e, in generale, la testimonianza delle
chiese non fanno eccezione. La loro verità non è mera auto-referenza ma
apertura all'alterità divina e disponibilità/responsabilità verso
coloro cui tale verità è destinata. Perché dunque stupirci se le parole
e le azioni e le omissioni della comunità cristiana sono vagliate,
scrutate, giudicate, criticate, e a volte perfino marginalizzate o irrise?
Non è questo l'ordine della cose, ovvero l'ordine di quella diaconìa che
offre senza imporre, che dà senza preoccuparsi di avere indietro, che
semina su ogni terreno ben sapendo che né il fruttificare né il
raccogliere dipende da noi? La richiesta di perdono di Giovanni Paolo II
verso gli ebrei discriminati e perseguitati in nome della croce di Cristo
è emblematica di questa "maturità" della testimonianza e della
coscienza cristiane, che non temono il giudizio storico, anzi che
intenzionalmente vi si espongono per "purificarsi" dagli eccessi
di auto-refenzialità e per approfondire la verità su se stesse. Quel
gesto, culminato nella visita al kottel ha-ma'aravi (Muro Occidentale) di
Gerusalemme e simbolo tra i più alti del messaggio giubilare nell'anno
2000 dell'èra cristiana (il 5760 del calendario ebraico), è una pietra
miliare del dialogo ebraico-cristiano insieme alla Dichiarazione
conciliare Nostra Aetate (1965), alla visita di questo stesso papa alla
sinagoga di Roma (1986), all'istituzione ufficiale di rapporti diplomatici
tra Stato di Israele e Santa Sede (1993) e al citato documento Noi
ricordiamo (1998).
2. shoà: bancarotta
dell'insegnamento cristiano?
E' in questa disponibilità a vivere sotto lo sguardo
altrui, ovvero disponibili al giudizio dell'altro, che i cristiani possono
e devono ascoltare la critica che alcuni autorevoli pensatori del
giudaismo contemporaneo hanno mosso alla cristianità in luce della
tragedia della shoà. Queste critiche, a differenze della polemica sul
"silenzio" e sui presunti "peccati di omissione" di
Pio XII, non sono di questi ultimi anni ma datano all'immediato secondo
dopoguerra, quando in molti, ebrei e cristiani, in Israele come in
Germania e nel resto d'Europa, prevaleva l'istinto della rimozione e il
bisogno di dimenticare gli orrori della guerra e l'inferno di Auschwitz.
Citerò qui solo poche ma emblematiche voci. A cominciare da quella di
Emmanuel Levinas, che nel 1950 scriveva, senza alcun sentimento
anti-cristiano ma con distaccato senso della storia europea (corsivi
miei):
"In mezzo a tanti altri orrori, lo sterminio di
sei milioni di esseri umani senza difesa, in un mondo che il cristianesimo
in duemila anni non è riuscito a rendere migliore, sottrae ai nostri
occhi [di ebrei] molto del prestigio legato alla sua conquista
dell'Europa. Certamente non potremo mai dimenticare la purezza degli atti
individuali di cristiani - un numero impressionante - che hanno salvato le
nostre vite di sopravvissuti durante quegli anni terribili. Non potremo
dimenticare il coraggio della gerarchia [cattolica] francese. Ma non si può
contestare l'insuccesso - sul piano politico e sociale - del
cristianesimo" (2).
E due anni dopo, nel 1952, parlando del
"povero" XIX secolo quando "una coscienza morale europea
esisteva davvero", lo definiva, in opposizione al XX, come
"epoca felice in cui secoli di civiltà cristiana e filosofica non
avevano ancora mostrato, nell'avventura hitleriana, la fragilità delle
loro opere" (3). Ancor più severo, nel bilancio sull'esperienza
cristiana in prospettiva della shoà, è il pensatore ortodosso Eliezer
Berkovits, che si spinge a parlare di "bancarotta morale e spirituale
della civiltà e della religione cristiane". Scrive Berkovits nel
volume With God in Hell, del 1979:
"Dopo diciannove secoli di cristianesimo,
lo sterminio di sei milioni di ebrei, tra cui un milione e mezzo di
bambini, eseguito a sangue freddo nel cuore stesso dell'Europa cristiana,
incoraggiato dal silenzio criminale di quasi tutti i membri delle chiese
(incluso l'infallibile Santo Padre di Roma), fu il culmine naturale di
tale bancarotta. Una linea diretta conduce dal primo atto di oppressione
contro ebrei e giudaismo nel IV secolo all'Olocausto del XX secolo"
(4).
E anche il filosofo Emil L. Fackenheim, che non mancò
mai di sottolineare il coraggio cristiano contro il nazismo e a favore
degli ebrei perseguitati di personalità come il pastore Julius van Jan di
Wurtemberg, o del canonico Bernhard Lichtenberg di Berlino, o del teologo
della chiesa confessante Dietrich Boenhoffer, tuttavia, non potè fare a
meno di chiedersi: cosa i cristiani avrebbero potuto fare? La risposta fu:
forse nel 1942 era troppo tardi, ma non era troppo tardi nel 1935,
"quando le Leggi di Norimberga elargirono lo
status di 'ariano' a tutti, tranne ai cristiani 'non-ariani', e la chiesa
lo accettò al prezzo di abbandonare i 'non-ariani' al loro destino
vogelfrei. Davvero - se il termine kairos designa per il cristiano quei
momenti in cui la fede è posta in gioco - davvero il 1935 fu un autentico
kairos. Ma la chiesa lo mancò" (5).
Questi giudizi, severi ma moralmente legittimi se si
accetta una visione dialogica dei rapporti interreligiosi, mostrano come
la shoà sia stata percepita fin dall'inzio come emblema di fallimento e
di bancarotta del messaggio cristiano, e come la memoria di tale evento -
che il Papa ha definito "indelebile macchia" e "indicibile
iniquità" (6) - possa costituire, almeno a livello psicologico ma
non raramente anche a un livello più religioso, un ostacolo ad una
relazione serena tra le due comunità di fede ed una pietra di inciampo
nello stesso dialogo. Ma al contempo, la presa di coscienza di questo
ostacolo è stata l'occasione di un cambiamento profondo nella prassi e
nella dottrina cristiane, che è divenuto vera e propria svolta epocale.
Lo ha riconosciuto prima di morire lo stesso Fackenheim, con parole che
inaugurano anche un modo comune, per ebrei e cristiani, di guardare a
quell'evento. Secondo il filosofo tedesco-canadese-israeliano, infatti,
"con tale assalto da parte dei nuovi pagani ad
entrambe le nostre fedi, quella ebraica e quella cristiana, qualunque cosa
ci abbia divisi nel corso di quasi due millenni doveva semplicemente
giungere a una fine. Doveva nascere una nuova realtà ebraico-cristiana,
un nuovo legame tra le due alleanze, quella ebraica e quella cristiana,
tra ciò che, decenni più tardi, il teologo protestante Roy Eckardt
avrebbe chiamato il fratello maggiore e il fratello minore" (7).
Noi oggi viviamo, quasi per miracolo, questa nuova
realtà - un diverso rapporto storico tra giudaismo e cristianesimo - che
è stato forgiato dalla presa di coscienza del significato morale e
religioso della shoà, e che ha saputo trasformare quell'evento tragico da
supremo ostacolo in organo, in strumento per così dire privilegiato per
comprendere ciò che andava assolutamente cambiato e ciò che andava
valorizzato e riapprezzato. È quasi impossibile in breve spazio
riassumere le molteplici, ubique e complesse tappe di questo processo di
trasformazione (dovuto in buona misura alla shoà) che in linguaggio
religioso chiamiamo "cammino di teshuvà" cristiana. Per non
tacerne del tutto, sceglierò alcuni passi che credo tra i più
significativi, e che possono, se letti sinotticamente, giustificare
l'espressione sintetica adottata da padre Francesco Rossi De Gasperis, uno
dei protagonisti viventi del dialogo ebraico-cristiano e a suo modo una
guida in quel cammino di teshuvà: "Mai prima d'ora si era parlato
così" nella chiesa, nelle diverse chiese dell'oicumene cristiana, a
riguardo di ebrei e di giudaismo. Infatti, "la laboriosità, la
lentezza e la fatica dei percorsi seguiti dalle differenti comunità
cristiane per correggere il loro cammino e riscoprire, riapprezzare e
riconoscere con gratitudine la loro radice santa, testimoniano di quanto
ce ne fossimo allontanati lungo due millenni di cristianesimo" (8).
Vi sarebbe stata la shoà se tale auto-correzione nelle istituzioni e
nelle coscienze cristiane fosse iniziata prima? Mi jodea' - chi sa?
3. "Mai prima d'ora
si era parlato così".
Documentare l'impatto della shoà sull'auto-coscienza
cristiana in generale, e sulla riflessione teologica che l'ha accompagnata
in particolare, richiederebbe di percorrere criticamente l'intera storia
dei recenti rapporti ebraico-cristiani, soprattutto a partire dagli anni
Ottanta. E' in quel decennio, infatti, che si sviluppa a livello mondiale
un'attenzione speciale alla tragedia degli ebrei durante la seconda guerra
mondiale; è in quegli anni che si svolge il dibattito sull'unicità di
quell'evento sia in rapporto alla storia generale sia in rapporto alla
trimillenaria storia ebraica; è in quel momento che anche le chiese - la
cattolica inclusa - cominciano a mettere la shoà nell'agenda dei
colloqui, dei convegni, delle giornate di studio su temi legati al
giudaismo. Non che prima il tema fosse del tutto trascurato, ma solo nel
corso degli anni Ottanta esso assurge a tema centrale dell'auto-coscienza
ebraica contemporanea, e dunque nei rapporti religiosi e culturali,
soprattattutto nel Nord America e in Europa, tra cristiani ed ebrei.
Vorrei qui accennare ad alcuni passaggi emblematici offerti in ambito
cattolico, scusandomi per l'arbitrarietà. Ma spero che questo florilegio
possa risultare storicamente illuminante. Nell'agosto 1987 Giovanni Paolo
II scrisse al presidente dei vescovi americani Mons. John L. May alla
vigilia del suo viaggio negli States, sottolineando come "le
sofferenze del popolo ebraico e la shoà siano oggi dinanzi agli occhi
della Chiesa, di tutti i popoli e di tutte le nazioni come un ammonimento,
una testimonianza e un grido silenzioso... [mostrando] a quali conseguenze
può portare la mancanza di fede in Dio e il disprezzo per l'uomo creato a
Sua immagine" (9). Contemporaneamente, anche le chiese protestanti si
aprono a una revisione della proprie "teologie del giudaismo"
con posizioni e documenti molto innovatori. Nel Usa, inoltre, erano state
da poco gettate le fondamenta del nuovo Holocaust Memorial Museum, che
sorgendo sul Mall di Washington D.C. accoglie di fatto la shoà tra gli
elementi della civil religion pluralistica tipica della società
statunitense. Questi semi di riflessione sulla shoà sarebbero maturati
sia a livello pastorale che a livello più teologico nel corso degli anni
Novanta, quando anche alcuni episcopati cattolici prendono posizione sulla
questione della shoà (integrando di fatto il mancato riferimento a questa
tragedia da parte del Catechismo della Chiesa Cattolica fresco di stampa).
Da queste posizioni, si distingue per determinazione il testo redatto nel
1994 dai vescovi ungheresi e firmato insieme al Consiglio ecumenico delle
Chiese in Ungheria dove l'Olocausto è definito "un peccato
imperdonabile", espressione tra le più dure che siano mai state
usate dalla gerarchia cattolica per condannare la shoà. Nel 1997 furono
alcuni esponenti dell'episcopato francese a fare una "dichiarazione
di pentimento" verso gli ebrei francesi presso il memoriale del campo
di Drancy. In essa si legge qualcosa di molto coraggioso e inedito per lo
stile ecclesiastico:
"Oggi confessiamo che questo silenzio fu una
colpa. Come pure riconosciamo che allora la Chiesa in Francia venne meno
alla sua missione di educatrice delle coscienze, e che per questo essa
porta insieme al popolo cristiano la responsabilità di non aver prestato
soccorso sin dai primi momenti, quando la protesta e la protezione erano
possibli e necessarie, anche se in seguito vi furono innumerevoli atti di
coraggio. E' un fatto che noi oggi riconosciamo. La debolezza della Chiesa
di Francia e la sua responsabilità verso il popolo ebraico fanno parte
della sua storia. Noi confessiamo questa colpa".
Se non vi fosse questa molteplicità di prese di
posizione, a volte più sfumate come quelle dell'episcopato polacco, a
volte più esplicite come quella sopra menzionata, le parole dello stesso
papa sarebbero meno credibili e di circostanza apparirebbe la solenne
richiesta di perdono a Dio del 12 marzo 2000, allorché a nome della
Chiesa tutta Giovanni Paolo II si dichiarò addolorato "per il
comportamento di quanti [cristiani cattolici] nel corso della storia hanno
fatto soffrire questi tuoi figli [cioè gli ebrei]", una richiesta di
perdono che subito si trasformava in impegno per "un'autentica
fraternità con il popolo dell'alleanza".
Come non sentire in queste parole l'eco altrettanto coraggiosa della
riflessione del pastore protestante Martin Stoehr: "Noi cristiani non
potremo mai più lasciarci alle spalle Auschwitz, né potremo
andare oltre Auschwitz da soli, ma soltanto in compagnia delle
vittime". Davvero, mai prima nella bimillenaria storia della chiesa,
o meglio delle chiese, si erano udite cose simili. La magnitudine e la
gravità della shoà, esplicitate ormai in una biblioteca di studi storici
e di documentazione irrefutabile, in questi gesti e parole della chiesa
cattolica - non meno che nei gesti e nelle parole di tutte le altre chiese
cristiane - sono indice chiaro della verità di quel che già nel 1950
Levinas scriveva: "L'ampiezza religiosa [della shoà] è destinata a
segnare il mondo per sempre" (10). Non diversamente si esprimeva a
Gerusalemme nel 1994, in un simposio interreligioso tra esponenti del
giudaismo e delle diverse comunità cristiane, il Card. Joseph Ratzinger,
per il quale "Auschwitz risulta un punto di non-ritorno per
ogni riflessione contemporanea sui rapporti tra ebrei e cristiani"
(11). Idea che lo stesso cardinale riprende anche in altro autorevole
luogo, come la Prefazione al testo della Pontificia Commissione Biblica su
"Il popolo ebraico e le sue Scritture nella Bibbia cristiana"
dell'estate 2001. Anche in materia di esegesi biblica e di ermeneutica
delle Scritture, il Card. Ratzinger riconosce che la shoà ha modificato
l'approccio cristiano tradizionale.
"Il dramma della shoà ha collocato tutta la
questione [dell'ermeneutica cristiana dell'Antico Testamento] in un'altra
luce. Due problemi principali si ponevano [alla Pontificia Commissione
Biblica]: Possono i cristiani dopo tutto
quello che è successo avanzare ancora tranquillamente la pretesa di
essere gli eredi legittimi della Bibbia di Israele? Possono continuare con
una interpretazione cristiana di questa Bibbia, o non dovrebbero piuttosto
rispettosamente e umilmente rinunciare ad una pretesa, che alla luce di ciò
che è avvenuto non può non apparire come presunzione? E qui si connette
la seconda questione: Non ha forse contribuito la presentazione dei giudei
e del popolo ebraico, nello stesso Nuovo Testamento, a creare un'ostilità
nei confronti di questo popolo, che ha favorito l'ideologia di coloro che
volevano sopprimerlo?" (corsivi miei) (12).
Sono, queste, domande che spingono i cristiani - che
abbiano compreso il senso profondo della più grande tragedia della storia
ebraica, e in virtù del legame che unisce spiritualmente e per sempre il
popolo della Bibbia e del Talmud ai battezzati nel nome di Gesù Cristo -
a ripensare la propria stessa identità, a ripensare la propria
interpretazione delle Scritture rivelate e dunque a riscoprire "la
radice santa che ci porta", quell'Israele "secondo la
carne", ovvero secondo la storia, di cui parla l'apostolo Paolo con
il più alto pathos teologico ed esistenziale. La shoà da ostacolo al
dialogo ebraico-cristiano è diventata non solo stimolo a riscoprire e
riapprezzare Israele, i suoi testi e le sue tradizioni, mettendo i
cristiani in grado di dialogare con gli ebrei, ma è divenuta ancor più
radicalmente pungolo e chiave per un'auto-analisi e un "lavoro su di
sé" che tocca un po' tutte le componenti dell'identità cristiana:
dall'ermeneutica delle Scritture alla cristologia, dalla riflessione
ecclesiologica alla stessa liturgia.
4. Quali sono le
implicazioni della "grande teshuvà" della Chiesa alla luce
della shoà?
Prima di riflettere sulle implicazioni teologiche e
pastorali, per cristiani ed ebrei, del fatto che la shoà sia stata il
culmine della lunga storia di antigiudaismo e antisemitismo dell'Europa
cristiana, è forse opportuno fermarsi a riflettere sul significato
religioso di quel tentativo di sterminio totale del popolo ebraico. E'
solo scrutando quell'abisso di male - indipendentemente dalle nostre
teodicee e dalle nostre filosofie della storia - a partire dalla comune
radice di fede abramitica che potremo, forse, cogliere la radicalità di
quelle implicazioni. È ancora Fackenheim ad aiutarci in questa fatica di
"scrutare l'abisso del male" senza perderci in esso, come
avviene a chi guardi troppo a lungo la Gorgone. Nel suo intervento al
simposio internazionale su "Il bene e il
male dopo Auschwitz" tenutosi a Roma, in queste stesse aule
dell'Università Gregoriana nel settembre 1997, Emil Fackenheim
disse:
"L'Olocausto fu un'aggressione contro l'alleanza
di Abramo, l'unica [aggressione] veramente radicale che sia mai esistita.
[...] Ma che cosa significa aggredire l'alleanza di Abramo, che
rappresenta proprio il punto di partenza di tutta la Heilsgeschichte, e
che cosa significa minacciare di porvi fine per sempre? Questo non ha
precedenti [nella storia] e la teologia non vi era preparata. Ma il Dio di
Abramo non è anche il Dio dei cristiani? E Ismaele [ossia, il capostipite
dei musulmani] non è figlio del patriarca? L'attacco dei nazisti contro
gli ebrei era anche la loro prova, quella cioè dei cristiani e dei
musulmani, ma questi ultimi non l'hanno riconosciuta come tale e hanno
abbandonato gli ebrei" (13).
Fackenheim allude in questo passo alla narrazione delle
grande prova di Bereshit/Genesi 22, racconto nel quale Dio chiede ad
Abramo il sacrificio del suo figlio unico, l'amato Isacco. Una prova
durissima, nella quale la risposta positiva di Abramo fu pronta, risposta
in virtù della quale Isacco fu salvato per intervento divino dal coltello
del padre. Proprio questo racconto, noto come la 'aqedat Jizchaq o
"legatura di Isacco", è servito alla teologia ebraica per
lamentare che, ad Auschwitz, milioni di giovani Isacco, altrettanto
innocenti e altrettanto ignari della "prova divina", non furono
salvati come il prediletto di Abramo. Nessuna di quelle 'aqedot ebbe
l'happy end del racconto biblico, e oltre un milione di bambini ebrei
morirono la morte dei martiri senza neppur poter scegliere il martirio.
Ora, Fackenheim si spinge oltre questa lamentazione verso il cielo per il
miracolo mancato. Il filosofo ebreo si spinge a coinvolgere cristiani e
musulmani nella terribile scena di quella 'aqedà collettiva che fu Auschwitz,
chiamando in causa la loro indifferenza se non la loro complicità con il
coltello dell'assassino. In tal modo, questi "fratelli minori"
del popolo ebraico, le cui rivelazioni - Nuovo Testamento e Corano -
affondano le loro radici nella comune eredità biblico-ebraica, hanno in
qualche modo mancato la prova, e a differenza di Abramo hanno rischiato -
per usare la famosa metafora wittgensteiniana - di recidere il ramo su cui
stanno seduti, o se si preferisce, di sradicare l'olivo sui cui sono
innestati. Se volgiamo questa riflessione in positivo, Fackenheim sembra
suggerire che solo chi sa custodire gli ebrei da simili attacchi, solo chi
non abbandona gli ebrei nel momento del pericolo, difende l'alleanza
abramitica a cui, per grazia, è stato ammesso.
Proprio per il suo andare alla radice ovvero al patto da cui ebbe origine
questa Heilsgeschichte dell'umanità e per il suo connettere, anzi
cortocircuitare i tre luoghi-simbolo di Sion, Sinài e Auschwitz,
questa riflessione ci permette ora di meglio comprendere che esistono, nel
cono d'ombra gettato dalla shoà, alcune implicazioni religiose e
teologiche per le chiese cristiane. E non v'è dubbio che la "grande
teshuvà" - la richiesta di perdono ma soprattutto il superamento
dell'insegnamento del disprezzo verso gli ebrei, tramutato in insegnamento
della stima e del mutuo dialogo - sia la prima e la più importante di
queste implicazioni. Nondimeno, a partire da questa svolta nuove domande
sono sorte, nuovi orizzonti ermeneutici si sono aperti. A tali domande e a
tali orizzonti le teologie cristiane fanno ancora fatica a rispondere, e
ciò è del tutto comprensibile. Infatti, mentre quasi tutti i teologi e i
pensatori cristiani concordano che, dopo la shoà, non si può più
"fare teologia" come se Auschwitz non ci fosse stata, tuttavia
pochi hanno saputo indicare in quali nuove direzione costruire percorsi
teologici capaci di integrare la lezione della shoà, capaci di ripensare
l'identità cristiana alla luce dell'insegnamento di stima degli ebrei,
capaci di articolare l'unicità della redenzione cristiana con il
riconoscimento dell'autonomia e della legittimità dell'economia redentiva/santificatrice
del popolo ebraico.
Se la shoà ha costretto i cristiani a ritrattare il ruolo degli ebrei
all'interno stesso dell'economia cristiana di rivelazione e redenzione, e
a rivalutare in nuova prospettiva i diversi significati delle Scritture
ereditate dalla tradizione ebraica, è inevitabile porsi - come ha fatto
il Gruppo interconfessionale Teshuvà di Milano (14) - le seguenti
domande:
1. Quali conseguenze comporta l'accettazione della
perennità del Sinài per la definizione dell'identità cristiana?
2. Quali conseguenze per la fede cristiana vi sono
quando si riconosce l'autonomia dell'Antico Testamento rispetto al
Nuovo? E quale rapporto, allora, stabilire tra i due Testamenti in sede
ermeneutica?
3. Quale la possibilità ecumenica che le Chiese
hanno nell'affrontare insieme il processo di ridefinizione della propria
identità rispetto a Israele?
Certo, rispondere a queste domande ed esplorare il
nuovo orizzonte di "senso religioso" aperto dalla shoà è
compito arduo e fonte di inquietudine, perché si tratta di ripartire da
una crisi, da un "giudizio storico" che per il cristianesimo,
come abbiamo visto sopra, si è rivelato molto severo. Ma proprio la
tradizione biblica ci insegna che ricominciare è esperienza tipica
dell'alleanza con il Dio di Israele, che fare teshuvà significa cambiare
strada, che avventurarsi nel deserto delle nostre certezze e affidarsi
alla sola forza della Parola è appunto il cuore dell'esperienza di fede.
Valgono allora qui le parole emblematiche del pastore evangelico Martin
Cunz, protagonista europeo del dialogo ebraico-cristiano, troppo
precocemente mancato. Cunz fu non solo un practitioner di questo dialogo,
ma anche un teorico, un critico, un teologo in senso forte del nuovo
rapporto tra l'Israele vivente e i credenti nell'Evangelo di Cristo. Nelle
sue parole c'è la sferza verso la pigrizia teologica di chi ha paura di
mettersi in discussione e crede più facile difendere le mura della
propria cittadella identitaria, ma v'è anche il balsamo dell'intuizione
vera, della visione purificata, dell'intelligenza che va oltre se stessa.
Nelle parole di Cunz, dunque
"dopo Auschwitz, ci troviamo come il popolo
di Israele che, sotto la guida del più alto funzionario della religione
[Aronne], aveva fatto la danza attorno al vitello d'oro, dinanzi alla
parola di Dio frantumata in mille pezzi. Ebrei e cristiani oggi devono
salire sul monte Sinài per incontrare di nuovo il Dio d'Israele e per
riscrivere la Torà, non più scritta dalla mano di Dio ma dalle nostre
mani" (15).
Non si tratta, come personalmente ho detto altre volte,
di scrivere una "teologia della shoà" e neppure, a ben vedere,
una "nuova teologia cristiana del giudaismo" (seppure, forse, di
questa si senta in effetti il bisogno, appunto in quanto nuova). Mettere
la shoà nell'agenda di ogni futura teologia non significa aggiungere un
tema in più alla riflessione cristiana, ma aggiustare l'intera
prospettiva del fare teologia: l'incontro con Israele e con la sua
sofferenza, causata da secoli di pregiudizio antiebraico di matrice
cristiana, costringe la comunità dei seguaci di Gesù a ripensarsi alla
radice, anzi a ripensare la radice stessa che la porta, secondo
l'espressione paolina (Rom 11,18). In questo senso davvero la shoà è un
evento tanto ebraico quanto cristiano. Essa appartiene all'unica storia di
salvezza dell'umanità in cui credono, seppur in modi diversi e sulla base
di diverse Scritture, gli ebrei, i cristiani e i musulmani.
5. Per una "memoria religiosa" della shoà:
alcune avvertenze per i cristiani
Negli ultimi anni l'Europa ha dato segnali forti per
impedire che la shoà, con il suo carico di sofferenze e di ammonimenti
affinché una cosa simile non si ripeta mai più, cadesse nell'oblio e
diventasse solo una delle tante memorie del nostro passato. Grazie alle
testimonianze dei sopravvissuti, al lavoro degli storici e alla
accresciuta "coscienza etica" di tutto il mondo occidentale -
coscienza che nasce non da ultimo da una assunzione di responsabilità e
di colpe verso quel passato - la shoà viene ricordata ogni anno con
cerimonie pubbliche, con lezioni scolastiche a tutti i livelli, con
articoli e libri. L'istituzione del 27 gennaio come giornata della memoria
è un fatto che parla chiaramente di questa acquisita consapevolezza: la
shoà fa parte della nostra storia e la sua "triste lezione" è
ormai parte dell'identità civile dei cittadini europei. Ma proprio questo
fatto così politicamente nuovo e culturalmente avveduto non può non far
sorgere la seguente domanda: stiamo forse correndo il rischio che la
memoria civile oscuri e rimuova l'altrettanto doverosa memoria religiosa
di questo evento? Che la dimensione culturale, necessaria e
universalizzante, offuschi la dimensione più specificamente teologica di
quest'evento dimenticando appunto la dimensione essenzialmente religiosa -
cioè ebraica - delle vittime del nazismo? Certo, non tocca alle autorità
civili ricordare questa dimensione o lavorare perché si sviluppi, accanto
a quella civile, una memoria religiosa della shoà. Tocca invece e in
maniera urgente alle autorità religiose, e segnatamente alla leadership
pastorale e teologica delle chiese, non trascurare che si sviluppi una
nuova consapevolezza del legame profondo tra ebrei e cristiani nel solco
di quel terribile tentativo di recidere per sempre, alla radice, la pianta
di Israele. In Italia, il 17 gennaio è una giornata istituita apposta per
meglio far conoscere ebrei e giudaismo ai cattolici, e dunque è sede
appropriata per ricordare anche la tragedia della shoà. Ma forse altro
resta da fare affinché accanto alla memoria civile sorga una più ampia
memoria religiosa, tesa a rinsaldare il legame di affetto e di stima che
unisce il variegato mondo cristiano all'altrettanto variegato mondo
ebraico.
A questo proposito è sempre utile rileggere i consigli
dati, venticinque anni or sono, da Alice Eckardt in un articolo che
metteva in guardia i cristiani da un modo sbagliato di fare memoria della
shoà. Proprio la storia quasi bimillenaria dei rapporti tra cristianesimo
ed ebraismo (e non la recente manìa del politically correct applicata
alla vita delle chiese) suggerisce che esistono modi appropriati e modi
non appropriati di presentare e parlare della shoà e della sofferenza
ebraica. Dopo aver spiegato come tale evento non debba essere
separato dal ritorno degli ebrei a una vita nazionale autonoma in terra di
Israele, con la rinascita di uno stato indipendente (1948), la Eckardt
insiste che entrambi questi eventi storici del popolo ebraico di oggi
vengano considerati "faith-orienting experiences" ovvero
esperienze capaci di orientare, anzi di ri-orientare, la fede non solo
ebraica ma anche cristiana. Ciò premesso, quali sono i consigli per i
cristiani che, avendone colto l'importanza, si accingono a fare una
memoria non solo civile ma anche religiosa della shoà, sia durante
incontri educativi sia durante cerimonie o atti liturgici in luoghi sacri?
In questa sede vorrei sottolineare almeno tre consigli dati dalla Eckardt,
che nel corso del tempo non hanno a mio avviso perso valore.
- Anzitutto, i cristiani che facciano una memoria
religiosa della shoà debbono stare attenti a non
"cristianizzare" quest'evento. Cosa vuol dire? Semplicemente,
stare attenti a non usurpare il carattere storicamente ed essenzialmente
ebraico di una tragedia nella quale, come ricorda spesso Elie Wiesel,
"se non tutte le vittime erano ebree, nondimeno tutti gli ebrei erano
vittime". È facile, a livello religioso, appropriarsi della memoria
altrui a fin di bene, per sottolineare che anche noi siamo
coinvolti. Vero, Auschwitz fu anche un evento cristiano nel senso
che abbiamo visto sopra: l'antigiudaismo cristiano non è estraneo alla
pavimentazione della strada che ha condotto gli ebrei europei nei ghetti,
nei campi di concentramento e infine nelle camere a gas e nei crematori...
E cristiani, o figli di cristiani, erano gli assassini. E cristiani erano i
cosiddetti by-standers, gli osservatori indifferenti e passivi di quella
tragedia. Nonostante ciò, la memoria della shoà resta prima di ogni
altra considerazione una memoria collettiva e inalienabile dell'odierno
popolo ebraico, e come tale un patrimonio di dolore sacro che non va
violato neppure in nome di Dio, peggio ancora in nome di una diversa
interpretazione - cristiana appunto - del Dio di Israele e della sua
rivelazione. Saggia e teologicamente significativa fu la decisione di
questo papa di chiedere alle carmelitane di Auschwitz di spostare
il proprio convento per non "occupare", anche solo fisicamente,
lo spazio del dolore e della memoria delle vittime ebree, che in quel
campo furono la stragrande maggioranza. Accettare la shoà come sfida per
la teologia cristiana significa non de-ebraicizzare l'evento ed aprire la
mente e la prassi della chiesa a un diverso rapporto con il popolo
dell'alleanza biblica mai revocata, anzi rinnovata dagli ebrei nonostante
Hitler e a dispetto del progetto nazista di sterminio.
- Secondo, i cristiani che facciano memoria religiosa
della shoà si guardino dal trasformarla in una dimostrazione trionfante
della verità del cristianesimo sul giudaismo. Non si tratta qui solo di
mettere al bando ogni atteggiamento per il quale la shoà dimostri che gli
ebrei sono stati "puniti" da Dio per aver rifiutato il
cristianesimo - sarebbe il peggior continuismo teologico - idea
inaccettabile proprio come "causa indiretta" della secolare
sofferenza ebraica culminata nei campi di sterminio nazisti. Si tratta
soprattutto di evitare gli eccessi cristologici per i quali le sofferenze
ebraiche siano considerate significative alla luce della passione di
Cristo, come se Auschwitz non fosse che una tappa dell'economia di
salvezza cristiana. Anche il ricordo, per altro pienamente legittimo,
della santità di Massimiliano Kolbe o di Edith Stein non può far obliare
il quadro generale di Auschwitz, dove agli ebrei venne impedito non
solo di vivere ma anche di morire da martiri. Un troppo disinvolto uso del
racconto del bambino impiccato ad Auschwitz, narrato da Elie Wiesel
nel suo libro-testimonianza La Nuit, può incorrere in questo rischio.
- Da questo esempio si ricava un terzo consiglio, che
la Eckardt riassume così: non usare testi ebraici per poi criticarli o
interpretarli allo scopo di soddisfare una (presunta) prospettiva
cristiana. Forse si tratta di un'estensione dei primi due principi, ma che
vale la pena sottolineare come tale anche alla luce della tendenza,
frequente a livello liturgico, ad usare simboli della liturgia ebraica:
dalla menorà alla celebrazione della pasqua ebraica [Pesach] tra
cristiani, al tallit... Si tratta piuttosto di rispettare l'alterità
ebraica, la parola dei testimoni, il senso delle loro scritture. Usare la
shoà come esempio per contrapporre l'amore, presentato quale valore
specificamente cristiano, alla giustizia - quando non alla vendetta -
quale valore/disvalore tipici del giudaismo, ma inferiori all'amore, è un
modo erroneo di usare la memoria della shoà, che offfende tra l'altro
anche la verità teologica sia del giudaismo che del cristianesimo. Anche
l'uso della Bibbia per spiegare la shoà può essere pericoloso, in quanto
tentativo maldestro ed inefficace di giustificare l'ingiustificabile.
Vorrei, in conclusione, riprendere le parole finali del
documento Noi ricordiamo, che nella sua sobrietà esprime bene
anche quel senso della misura - la fuga da ogni trionfalismo e
l'astensione dagli eccessi teologici e anche dagli abbracci soffocanti -
di cui il dialogo ebraico-cristiano ha bisogno per crescere e rafforzarsi
a tutti i livelli, là dove si auspica che "il nostro dolore per le
tragedie che il popolo ebraico ha sofferto nel nostro secolo [il XX
secolo] conduca [i cattolici, ma anche credo tutti i cristiani] a nuove
relazioni con il popolo ebraico. Desideriamo - si legge in questo testo -
trasformare la consapevolezza dei peccati del passato in fermo impegno per
un nuovo futuro nel quale non ci siano più sentimento antigiudaico tra i
cristiani e sentimento anticristiano tra gli ebrei, ma piuttosto rispetto
reciproco condiviso..." (17). Il testo Dabru Emet, le ripetute visite
di vescovi alle sinagoghe e alle comunità ebraiche nel mondo, la fattiva
collaborazione quotidiana tra ebrei e cristiani per costruire una vera
"amicizia" tra le due fedi abramitiche, aperte al dialogo con
con l'Islàm in questo difficile momento della storia mondiale, sono segni
di speranza che ci dicono: sì, stiamo facendo la cosa giusta. Davvero uno
spirito nuovo aleggia sul mondo: "Ed ecco, io faccio una cosa nuova
nel mondo" (cfr Is 65,17).
Note
1. Commissione per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo,
Noi ricordiamo: una riflessione sulla shoà, Città del Vaticano 1998,
par.2.
2. Emmanuel Levinas, Difficile Liberté, Paris 1963. Tr. it. Difficile
libertà, Jaca Book, Milano 2004, pp.127-128.
3. Ibidem, p.19.
4. Eliezer Berkovits, With God in Hell. Judaism in the Ghettos and
Deathcamps (1979). Cit. in Massimo Giuliani, Il pensiero ebraico
contemporaneo, Morcelliana, Brescia 2003, p.418.
5. Emil L. Fackenhein, Jewish-Christian Relations After the Holocaust.
Toward Post-Holocaust Theological Thought, The Joseph Card. Bernardin
Jerusalem Lecture, Chicago 1996, p.15.
6. Lettera di Giovanni Paolo II al Card. Edward I.Cassidy, in: Noi
ricordiamo, pp.3-4.
7. Emil L. Fackenheim, Jewish-Christian Relations After the Holocaust,
p.2.
8. Francesco Rossi De Gasperis, "Una rilettura da Gerusalemme",
in: Gianfranco Bottoni, Luigi Nason (a cura di), Secondo le Scritture.
Chiese cristiane e popolo di Dio, Edizioni Dehoniane, Bologna 2002,
pp.372-373.
9. Per questo e per i successivi riferimenti a documenti cristiani sulla
shoà si veda la sintesi di Cesare Stephan-Ragazzi in: Gianfranco Bottoni,
Luigi Nason (a cura di), Secondo le Scritture, pp.183-253.
10. Emmanuel Levinas, Difficile Libertà, p.28.
11. Cfr Joseph Ratzinger, La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, San
Paolo, Cinisello Balsamo 2000.
12. Joseph Ratzinger, Prefazione a: Pontificia Commissione Biblica,
Il
popolo ebraico e le sue Scritture nella Bibbia cristiana, Libreria
Editrice Vaticana, Roma 2001, p.11.
13. Emil L. Fackenheim, "L'aggressione all'alleanza di Abramo"
in: Emilio Baccarini, Lucy Thorson (a cura di), Il bene e il male
dopo Auschwitz. Implicazioni etico-teologiche per l'oggi, Edizioni
Paoline, Roma 1998, p.43.
14. Gianfranco Bottoni, Luigi Nason (a cura di), Secondo le Scritture,
p.247.
15. Cit. in Massimo Giuliani, Cristianesimo e shoà. Riflessioni
teologiche, Morcelliana, Brescia 2000, p. 23. Su Martin Cunz si vedano in
particolare le pagg. 72-79.
16. Cfr Alice Eckardt, "Creating Christian Jom HaShoah Liturgies"
in: Marcia Sachs Littell, Sharon Weissman Gutman (eds), Liturgies on the
Holocaust. An Interfaith Anthology, Trinity Press International, Valley
Forge, Penn. 1996, pp.6-12.
17. Noi ricordiamo, par.V.