Israele, la Chiesa e il
mondo. I loro rapporti e il loro compito
secondo il Catechismo della Chiesa cattolica del 1992
Joseph Ratzinger, Incontro
ebraico.cristiano, Gerusalemme, 1994
[cfr.Capitoli
del Catechismo riferiti agli ebrei]
La storia dei rapporti tra
Israele e la cristianità è intrisa di lacrime e sangue, è una
storia di diffidenza e di ostilità, ma anche - grazie a Dio - una
storia sempre attraversata da tentativi di perdono, di comprensione,
di accoglienza reciproca.
La storia dei rapporti
tra Israele e la cristianità è intrisa di lacrime e sangue, è una
storia di diffidenza e di ostilità, ma anche - grazie a Dio - una
storia sempre attraversata da tentativi di perdono, di comprensione,
di accoglienza reciproca.
Il
compito della riconciliazione torna
su
Dopo
Auschwitz il compito della riconciliazione e dell'accoglienza si è
presentato davanti a noi in tutta la sua imprescindibile necessità.
Pur sapendo che Auschwitz è la terrificante espressione di
un'ideologia che non si limitava a volere la distruzione
dell'ebraismo, ma che odiava l'eredità ebraica anche nel
cristianesimo e cercava di cancellarla, dinanzi a eventi di questo
genere resta la domanda sulle ragioni della presenza nella storia di
tanta ostilità tra coloro che, invece, avrebbero dovuto riconoscere
la propria affinità in forza della fede nell'unico Dio e della
professione della sua volontà.
Questa ostilità proviene forse
proprio dalla fede dei cristiani, dall'«essenza del cristianesimo»,
così che per giungere a una vera riconciliazione bisognerebbe di
necessità astrarre da questo nucleo e negare il contenuto centrale
del cristianesimo? Si tratta di una ipotesi che, dinanzi agli orrori
della storia, è stata formulata negli ultimi decenni proprio da
alcuni pensatori cristiani. Ma allora la professione di fede in Gesù
di Nazareth come figlio del Dio vivente e la fede nella croce come
redenzione dell'umanità implicano necessariamente una condanna
degli ebrei per la loro ostinazione e cecità, in quanto colpevoli
della morte del figlio di Dio? Davvero le cose stanno così, quasi
che il nucleo stesso della fede cristiana porti all'intolleranza,
anzi all'ostilità nei confronti degli ebrei e che, al contrario,
l'auto-considerazione degli ebrei, la difesa della loro dignità
storica e delle loro convinzioni più profonde esiga da parte dei
cristiani la rinuncia al centro stesso della propria fede, e dunque
una rinuncia alla tolleranza? Il conflitto è insito nella natura più
intima della religione e può essere superato solo con il suo
abbandono?
Riconciliazione senza
abbandono della fede cristiana?
In
questa sua drammatica acutizzazione il problema si pone oggi ben al
di là di un dialogo puramente accademico tra le religioni,
coinvolgendo le scelte fondamentali di questo momento storico. Si
cerca spesso di sdrammatizzare il problema presentando Gesù come un
maestro ebreo che, nella sostanza, non si è di molto scostato da
quel che era concepibile nella tradizione giudaica. La sua uccisione
dovrebbe allora essere intesa nel quadro delle tensioni tra giudei e
romani: in effetti, la sua condanna a morte fu eseguita secondo
modalità che l' autorità romana riservava alla punizione dei
ribelli politici. La sua esaltazione come figlio di Dio sarebbe
quindi avvenuta in seguito, nel quadro del contesto culturale
ellenistico, e la responsabilità della sua morte in croce sarebbe
stata trasferita dai romani ai giudei proprio in considerazione
della situazione politica dell'epoca. Questa interpretazione dei
fatti può rappresentare una sfida che costringe l' esegesi a un
ascolto attento e preciso dei testi e, in tal modo, può forse
essere anche di qualche utilità. Tuttavia letture di questo genere
non parlano del Gesù delle fonti storiche, ma costruiscono un Gesù
nuovo e differente; relegano nell'ambito mitico la fede storica
della Chiesa in Cristo. Egli appare così come un prodotto della
religiosità greca e di particolari interessi politici nell'impero
romano. In tal modo, però, non si rende ragione della serietà
della questione, semplicemente ci si ritrae da essa.
Resta
allora la domanda: può la fede cristiana, senza perdere il suo
rigore e la sua dignità, non solo tollerare l' ebraismo, ma
accoglierlo nella sua missione storica? Può esserci vera
riconciliazione senza abbandono della fede oppure la riconciliazione
è legata a una simile rinuncia?
La risposta del «Catechismo della Chiesa cattolica»
Per
rispondere a questa domanda, che coinvolge noi tutti molto
profondamente, non voglio esporre le mie riflessioni, ma piuttosto
cercare di mostrare quale sia la posizione del Catechismo della
Chiesa cattolica edito nel 1992. Questo libro fu pubblicato dal
magistero della Chiesa come espressione autentica della propria
fede; allo stesso tempo, proprio avendo i davanti agli occhi
Auschwitz e il compito lasciato dal Vaticano II, la questione della
riconciliazione vi è affrontata come I intimamente connessa alla
questione stessa della fede. Vediamo dunque in che modo esso si
ponga rispetto alla nostra domanda a partire da questo suo compito.
1. Giudei e pagani nel racconto dei magi venuti dall'Oriente (Mt
2,1-12) torna
su
Vetrata Duomo di Ragensburg
(Baviera) Adorazione dei magi
|
Come
avvio, scelgo il testo con cui il Catechismo spiega la storia
dei magi venuti dall'Oriente in Mt 2,1-12. Questi uomini sono
considerati dal Catechismo come l'origine della Chiesa
proveniente dai pagani e come un riflesso permanente del loro
cammino. In proposito il Catechismo scrive: «La venuta dei
magi a Gerusalemme per adorare il re dei giudei (M t 2,2) mostra che
essi, alla luce messianica della stella di Davide, cercano in
Israele colui che sarà il re delle nazioni. La loro venuta sta a
significare che i pagani non possono riconoscere Gesù e adorarlo
come Figlio di Dio e Salvatore del mondo se non volgendosi ai giudei
e ricevendo da loro la promessa messianica quale è contenuta nell'
Antico Testamento. L'Epifania manifesta che "la grande massa
delle genti" entra "nella famiglia dei patriarchi" e
ottiene la dignitas israelitica - la dignità israelitica»
(528).
|
La missione di Gesù:
la riunione di giudei e pagani
In
questo testo si coglie bene come il Catechismo veda la
relazione tra i giudei e le altre nazioni del mondo nella
prospettiva comunicataci da Gesù; nel contempo esso ci offre anche
una prima descrizione della missione di Gesù stesso. Potremmo dire:
la missione di Gesù è dunque la riunione di giudei e pagani in un
unico popolo di Dio, in cui si compiono le promesse universalistiche
della Scrittura, che a più riprese affermano che tutti i popoli
adoreranno il Dio di Israele, al punto che nel Terzo Isaia non si
legge più solamente del pellegrinaggio dei popoli verso Sion, ma
viene annunciato l'invio di messaggeri ai popoli «"che non
hanno udito la mia fama e non hanno visto la mia gloria [...]. Anche
da essi mi prenderò dei sacerdoti e dei leviti", dice il
Signore» (Is 66,19.21).
Per spiegare la riunione di Israele e delle
nazioni, il breve testo del Catechismo - sempre interpretando
Mt 2 - ci presenta un insegnamento sul rapporto tra le religioni del
mondo, la fede di Israele e la missione di Gesù: le religioni del
mondo possono diventare la stella che guida gli uomini sulla via e
li conduce alla ricerca del regno di Dio. La stella delle religioni
indica Gerusalemme, si spegne e torna a splendere nella parola di
Dio, nella Sacra Scrittura di Israele. La parola di Dio che vi è
custodita si dimostra la vera stella, senza la quale e a prescindere
dalla quale non è possibile giungere alla meta.
Il Catechismo, quando designa la stella
come «stella di Davide», collega la storia dei magi all'oracolo di
Balaam sulla stella che si muove da Giacobbe (Nm 24,17) e vede
questo oracolo a sua volta in stretto rapporto con la benedizione di
Giacobbe su Giuda, che promette il bastone del comando e lo scettro
a colui cui è dovuta l'obbedienza dei popoli (Gn 49,10). n Catechismo
vede in Gesù questo germoglio di Giuda che riunisce Israele e
le nazioni nel regno di Dio.
La storia di Abramo
deve diventare la storia di tutti
Che
significa tutto ciò? La missione di Gesù consiste dunque nel
riunire tutti i popoli nella comunione della storia di Abramo, della
storia di Israele. La sua missione è unione, riconciliazione, come
si legge anche nella lettera agli Efesini (2,18-22). La storia di
Israele deve diventare la storia di tutti, la figliolanza di Abramo
deve dilatarsi fino a comprendere i «molti». Questo processo ha
due aspetti: i popoli possono entrare nella comunione delle promesse
di Israele nella misura in cui entrano nella comunione dell'unico
Dio, che ora diventa e deve diventare la via di tutti, poiché vi è
un solo Dio e la sua volontà è quindi verità per tutti. D'altra
parte questo significa che tutti i popoli, senza che per ciò venga
meno la missione particolare di Israele, mediante il legame con la
volontà di Dio e l'accettazione del regno di Davide, diventano
fratelli e partecipi delle promesse del popolo eletto e quindi,
insieme con lui, popolo di Dio.
«La salvezza viene
dai giudei»
Un'altra
osservazione può qui essere utile. Se la storia dei magi,
nell'interpretazione del Catechismo, presenta la risposta dei
libri sacri di Israele come indicazione decisiva e irrinunciabile
per tutti i popoli della terra, per ciò stesso essa non è altro
che una variazione dello stesso tema che si incontra nella formula
giovannea «La salvezza viene dai giudei» (Gv 4,22). Questa origine
mantiene vivo il suo valore nel presente, nel senso che non vi può
essere nessun accesso a Gesù e, dunque, nessun ingresso dei popoli
nel popolo di Dio senza l'accettazione credente della rivelazione di
Dio, che parla nelle sacre Scritture che i cristiani chiamano Antico
Testamento.
In sintesi, possiamo dire che Antico e Nuovo
Testamento, Gesù e sacra Scrittura di Israele appaiono qui
inseparabili. La nuova dinamica della sua missione, la riunione di
Israele e delle nazioni, corrisponde alla dinamica profetica dello
stesso Antico Testamento. La riconciliazione nel riconoscimento
comune del regno di Dio, della sua volontà come via, è il nucleo
della missione di Gesù, in cui la persona e il messaggio sono in
separabili: questa missione è già operante nell'istante in cui
egli giace ancora muto nella mangiatoia. Non si è capito nulla di
lui se non si entra con lui nella dinamica della riconciliazione.
2. Gesù e la Legge: non abolizione ma «compimento»
torna
su
Tuttavia
la grande visione di questo testo lascia aperta una domanda: come si
realizza storicamente ciò che appare qui prefigurato nell'immagine
della stella e degli uomini che la seguono? L'immagine storica di
Gesù, il suo messaggio e la sua opera corrispondono a questa
visione o non finiscono proprio per contraddirla?
Ora non c'è nulla di tanto discusso quanto la
questione del Gesù storico. Il Catechismo, come libro della
fede, muove dalla convinzione che il Gesù dei Vangeli è l'unico
Gesù autenticamente storico. Partendo da questo presupposto esso
presenta anzitutto il messaggio di Gesù usando un'espressione
riassuntiva di tutto, «Regno di Dio», in cui sono compresi i
diversi aspetti del messaggio di Gesù, di modo che essi ricevono il
loro senso e il loro contenuto concreto proprio a partire di qui
(541-560).
Poi il Catechismo mostra la relazione Gesù-Israele
in tre ambiti di riferimento: Gesù e la Legge (577-582), Gesù e il
Tempio (583-586), Gesù e la fede d'Israele nel Dio unico e
Salvatore (587-591). Passa quindi a esaminare il destino finale di
Gesù: la sua morte e resurrezione, in cui i cristiani vedono
realizzato e portato alla sua massima profondità teologica il
mistero pasquale di Israele.
Gesù e Israele
Qui
ci occuperemo in particolare del capitolo centrale su Gesù e
Israele, che è fondamentale anche per l'interpretazione del
concetto di regno di Dio e per la comprensione del mistero pasquale.
Ora, sono proprio i temi della Legge, del Tempio, dell'unicità di
Dio a portare in se tutta la carica esplosiva delle lacerazioni
ebraico-cristiane. È possibile comprenderli in maniera storicamente
corretta, coerente con la fede e nel primato della riconciliazione?
A dare di farisei, sacerdoti e giudei un'immagine
generalmente negativa non sono state solo le prime interpretazioni
della storia di Gesù. Proprio la letteratura liberale e moderna ha
riportato in auge il cliché delle contrapposizioni: farisei e
sacerdoti vi compaiono come sostenitori di un rigido legalismo, come
rappresentanti della legge eterna del potere costituito, delle
autorità religiose e politiche, che impediscono la libertà e
vivono dell'oppressione altrui. In linea con queste ,
interpretazioni ci si pone a fianco di Gesù e si ritiene di
continuare la sua battaglia, impegnandosi contro il potere clericale
nella Chiesa e contro l'ordine stabilito nello Stato. Le immagini
del nemico di certe battaglie moderne per la libertà si confondono
con le immagini della storia di Gesù e tutta la sua storia è in
fondo interpretata, in tale prospettiva, come una battaglia contro
il dominio dell'uomo sull'uomo mascherato dalla religione, come
l'avvio di quella rivoluzione in cui egli ha sì dovuto soccombere,
ma che proprio con la sua sconfitta ha trovato un inizio che ora
deve portare alla vittoria definitiva. Se Gesù dev'essere visto così,
se la sua morte va intesa in un contesto del genere, il suo
messaggio non può essere la riconciliazione.
Fedeltà di Gesù alla Legge
È di
per se chiaro che il Catechismo non condivide questa ottica.
Per tali questioni esso si attiene soprattutto all'immagine di Gesù
del Vangelo di Matteo e vede in Gesù il Messia, il più
grande nel regno dei cieli; come tale egli si sapeva obbligato a «osservare
la Legge, praticandola nella sua integralità fin nei minimi
precetti» (578).
Il Catechismo collega dunque la particolare
missione di Gesù alla sua fedeltà alla Legge; vede in lui il Servo
di Dio, che porta davvero il diritto (Is 42,3) e diventa perciò «Alleanza
del popolo» (Is 42,6; Catechismo 580). Il nostro testo
è dunque molto lontano dai superficiali tentativi di armonizzazione
della storia di Gesù carica di tensioni. E anziché interpretare il
suo cammino in modo superficiale, nel senso di un presunto attacco
profetico al rigido legalismo, cerca di far emergere la sua
autentica profondità teologica.
Lo si vede chiaramente nel passo che segue: «Il
principio dell'integralità dell'osservanza della Legge, non
solo nella lettera ma nel suo spirito, era caro ai farisei.
Mettendolo in forte risalto per Israele, essi hanno condotto molti
Ebrei del tempo di Gesù a uno zelo religioso estremo. E questo, se
non voleva risolversi in una casistica "ipocrita", non
poteva che preparare il Popolo a quell'inaudito intervento di Dio
che sarà l'osservanza perfetta della Legge da parte dell'unico
Giusto al posto di tutti i peccatori» (579). Questo pieno
adempimento della Legge implica che Gesù prenda «su di sé
"la maledizione della legge" (Gal 3 ,13 ), in cui erano
incorsi coloro che non erano rimasti fedeli "a tutte le cose
scritte nel libro della Legge" (Gal 3,10» (580). La morte in
croce trova così una spiegazione teologica a partire dall'intima
solidarietà con la Legge e con Israele; in questo contesto il Catechismo
pone un legame con il giorno dell'Espiazione e intende la morte
di Cristo come il grande evento espiativo-conciliativo, come piena e
completa realizzazione di ciò che i segni del giorno
dell'Espiazione significano (433; 578).
Compimento
della Torah mediante la Legge del Vangelo
Con
queste affermazioni siamo giunti al centro del dialogo
ebraico-cristiano, al decisivo punto nodale tra riconciliazione e
lacerazione.
Prima di proseguire nell'interpretazione
della figura di Gesù che stiamo qui delineando, dobbiamo ancora
chiederci che cosa significa questa visione della figura storica di
Gesù per l' esistenza di coloro che si sanno radicati nell' «olivo
di Israele», nella figliolanza di Abramo.
Laddove il conflitto di Gesù con il giudaismo del
suo tempo viene presentato in maniera superficialmente polemica, si
finisce per derivarne un'idea di liberazione che può intendere la
Torah solo come una servitù a riti e osservanze esteriori.
La visione del Catechismo, tratta
principalmente da Matteo ma in definitiva determinata dall'insieme
della tradizione evangelica, porta logicamente a una prospettiva del
tutto diversa, che desidero qui" esporre in modo esauriente: «La
Legge evangelica dà compimento ai comandamenti della Legge [ =
della Torah]. Il Discorso del Signore sulla montagna, lungi
dall'abolire o dal togliere valore alle prescrizioni morali della
Legge antica, ne svela le virtualità nascoste e ne fa scaturire
nuove esigenze: ne mette in luce tutta la verità divina e umana.
Esso non aggiunge nuovi precetti esteriori, ma arriva a riformare la
radice delle azioni, il cuore, là dove l'uomo sceglie tra il puro e
l'impuro, dove si sviluppano la fede, la speranza e la carità[...].
Così il Vangelo porta la Legge alla sua pienezza mediante
l'imitazione della perfezione del Padre celeste[...]» (1968).
L'unità tra
l'annuncio di Gesù e l'annuncio del Sinai
Questa
visione di una profonda unità tra l'annuncio di Gesù e l'annuncio
del Sinai viene ancora una volta sintetizzata con riferimento a
un'affermazione neotestamentaria, che non è solo comune alla
tradizione sinottica, ma ha un carattere centrale anche negli
scritti giovannei e paolini: dall'unico comandamento dell'amore di
Dio e del prossimo dipendono tutta la Legge e i Profeti (1970; M t
7,12; 22,34-40; M c 12,29-31; Lc 10,25-28; Gv 13,34; Rm 13,8-10).
Per i popoli l'inclusione nella discendenza di Abramo si compie
concretamente aderendo alla volontà di Dio, in cui precetto morale
e confessione dell'unicità di Dio sono inseparabili, come risulta
particolarmente chiaro nella versione marciana di questa tradizione,
in cui il duplice comandamento è espressamente legato allo Shema'
Isra'el,
al sì all'unico Dio. All'uomo viene comandato di
assumere come criterio la misura di Dio e la sua perfezione.
Con ciò si palesa anche la profondità ontologica
di queste affermazioni: con il sì al duplice comandamento l'uomo
assolve il compito della sua natura, che è stata voluta dal
creatore come immagine e somiglianza di Dio e che, in quanto tale,
si realizza nella con divisione dell'amore divino.
Qui, al di là di tutte le discussioni storiche e
strettamente teologiche, veniamo a trovarci proprio al cuore della
responsabilità presente di ebrei e cristiani dinanzi al mondo
contemporaneo. Questa responsabilità consiste precisamente nel
sostenere la verità dell'unica volontà di Dio davanti al mondo e
di porre così l'uomo davanti alla sua verità interiore, che è al
tempo stesso la sua via. Ebrei e cristiani devono rendere
testimonianza all'unico Dio, al creatore del cielo e della terra, e
lo devono fare in quella totalità che trova espressione esemplare
nel salmo 19: la luce della creazione fisica, il sole, e la luce
spirituale, il comandamento di Dio, sono inseparabilmente legate
l'una all'altra. Nella parola di Dio e nel suo splendore parla lo
stesso Dio che è testimoniato nel sole, nella luna e nelle stelle,
nella bellezza e pienezza della creazione. «Il sole è onore del
cielo, ma la tua legge, o Signore, è ancora più grande».
3. L'interpretazione
che Gesù dà della Legge:
torna
su
conflitto e riconciliazione
Ora
però si pone inevitabilmente la domanda: una simile visione del
legame tra Legge e vangelo non è forse un arbitrario tentativo di
armonizzazione? Come si spiega allora il conflitto che ha portato
Gesù sulla croce? Tutto ciò non è in contrasto con
l'interpretazione della figura di Cristo dataci da Paolo? Non viene
così smentito l'intero insegnamento paolino sulla grazia a favore
di un nuovo moralismo e con ciò non viene annullato l'articulus
stantis et cadentis ecclesiae, la novità essenziale del
cristianesimo?
La parte morale del Catechismo, da
cui abbiamo tratto l'esposizione fin qui presentata della via
cristiana, su tale punto corrisponde pienamente a ciò che in
precedenza avevamo desunto dalla parte dogmatica relativa alla
figura di Cristo. A ben vedere, da questo fatto emergono due aspetti
essenziali, in cui è racchiusa la risposta alle nostre domande.
La profonda
compenetrazione dei due Testamenti
Con
la presentazione appena esposta dell'intima continuità e coerenza
tra Legge e vangelo, il Catechismo resta rigorosamente
all'interno della tradizione cattolica, così come è stata
formulata soprattutto da Agostino e Tommaso. In essa il rapporto fra
Torah e annuncio di Gesù non è mai stato visto in chiave
dialettica, per cui Dio apparirebbe nella Legge sub contrario, e
dunque come avversario di se stesso (1). In essa non vigeva la
dialettica, bensì l'analogia, lo sviluppo nell'intima
corrispondenza, in conformità con la bella affermazione di sant'
Agostino: nell' Antico Testamento è nascosto il Nuovo, nel Nuovo è
manifesto l' Antico. Per illustrare la profonda connessione tra i
due Testamenti che ne deriva, il Catechismo cita un testo
molto bello di san Tommaso: «Ci furono [...], nel regime dell'
Antico Testamento, anime ripiene di carità e della grazia dello
Spirito Santo, le quali aspettavano soprattutto il compimento delle
promesse spirituali ed eterne. Sotto tale aspetto, costoro
appartenevano alla nuova legge. Al contrario, anche nel Nuovo
Testamento ci sono uomini carnali [...]» (1964; Summa theologiae,
I-II, 107, 1, ad 2).
La Torah come
creazione unitaria
Con ciò si è anche già
detto che la Legge viene letta profeticamente, nella tensione
interiore della promessa. Quel che significa una simile lettura
dinamico-profetica emerge nel catechismo dapprima in una
duplice forma: la Legge è portata alla sua pienezza mediante il
rinnovamento del cuore (1968); esteriormente ciò ha come
conseguenza il venir meno delle
osservanze rituali e giuridiche (1972). A questo punto si pone però
una nuova domanda: come è potuto accadere? Come si concilia tutto
ciò con il compimento della Legge fino all'ultimo iota? Poiché, in
effetti, non si possono separare i principi morali generalmente
validi e le disposizioni rituali e giuridiche transitorie senza
distruggere la stessa Torah, la quale è di per sé una creazione
unitaria, che come tale si sa debitrice della parola che Dio ha
rivolto a Israele. L'idea secondo cui vi sarebbe da una parte la
pura morale, che è razionale e universale, e dall'altra dei riti,
che sono condizionati dalle circostanze storiche e a cui, in
definitiva, si può rinunciare, misconosce del tutto la struttura
interna dei cinque libri di Mosè. Il decalogo come nucleo del
Pentateuco mostra in maniera sufficientemente chiara che in esso
adorazione di Dio e morale, culto ed ethos sono del tutto
inseparabili.
Gesù vive fino in fondo nella Legge d'Israele, come mediatore dell'
universalità di Dio
Ci
troviamo così davanti a un paradosso: la fede di Israele era
indirizzata all'universalità; poiché si rivolgeva all'unico Dio di
tutti gli uomini, portava in sé la promessa di divenire la fede di
tutti i popoli. Ma la Legge in cui trovava espressione era
particolare, riferita in maniera molto concreta a Israele e alla sua
storia; in questa forma essa non poteva essere universalizzata. Nel
punto nodale di tale paradosso si trova Gesù di Nazareth che, come
ebreo, viveva lui stesso fino in fondo nella Legge d'Israele, ma
che, al contempo, si sapeva mediatore dell'universalità di Dio.
Questa mediazione non poteva avvenire mediante un calcolo politico o
un'interpretazione filosofica. In ambedue i casi l'uomo si sarebbe
posto al di sopra della parola di Dio e l'avrebbe adattata ai propri
criteri.
Gesù non ha
agito come un liberale, che raccomanda e pratica lui stesso
un'interpretazione della Legge aperta e accomodante. Nel confronto
tra Gesù e le autorità giudaiche del suo tempo non sono di fronte
un liberale e una gerarchia chiusa e irrigidita nel proprio
tradizionalismo. Una tale ottica, tanto diffusa, misconosce alla
radice il conflitto del Nuovo Testamento; in tal modo non si rende
ragione né di Gesù né di Israele.
La sua
apertura della Legge Gesù l'ha piuttosto realizzata in senso
pienamente teologico, nella consapevolezza e con la pretesa di agire
nella più intima unità con Dio, il Padre, proprio in quanto
Figlio, di agire cioè nella piena autorità di Dio.
Solo Dio, infatti, poteva
interpretare in modo tanto radicalmente nuovo la Legge e proclamare
questa trasformazione e conservazione come il significato da lui
realmente inteso. L'interpretazione della Legge data da Gesù ha
senso solo se è un'interpretazione derivante da un mandato di Dio,
se è Dio stesso a spiegare se stesso.
Il conflitto
tra Gesù e le autorità giudaiche del suo tempo non riguarda in
definitiva questa o quella singola prescrizione legale, ma la
pretesa di Gesù di agire ex auctoritate divina, anzi di
essere lui stesso questa auctoritas. «lo e il Padre siamo
una cosa sola» (Gv 10,30)
Il conflitto che si conclude sulla croce
Solo spingendosi
fino a questo punto si coglie la tragica profondità del conflitto.
Da una parte Gesù ha aperto la Legge, ha voluto aprirla non come un
liberale, non con una minore fedeltà, ma nella più stretta
obbedienza al pieno compimento, a partire dal suo essere una cosa
sola con il Padre, ovvero dall'unica realtà in cui Legge e promessa
potevano diventare una cosa sola e Israele poteva divenire
benedizione e salvezza per i popoli. Dall'altra parte Israele «doveva»
vedere in tutto ciò qualcosa di molto più grave della semplice
trasgressione di questo o quel precetto, cioè la violazione
dell'obbedienza fondamentale, del nucleo originario della
rivelazione ricevuta e della sua fede: «Ascolta, Israele, il tuo
Dio è un unico Dio».
Qui due diverse obbedienze si scontrano ed entrano
in quel conflitto che doveva concludersi sulla croce.
Riconciliazione e dissidio appaiono così intrecciati tra loro in un
paradosso davvero insolubile.
In questa teologia del Nuovo Testamento che il Catechismo
ci presenta, la croce non può quindi essere vista come un
incidente in fondo evitabile e neppure come la colpa di Israele, di
cui quest'ultimo resterebbe macchiato in eterno, a differenza dei
pagani per i quali essa significherebbe la redenzione. Secondo il
Nuovo Testamento non ci sono due effetti della croce, uno che
condanna e uno che salva, ma uno solo, quello che salva e che
riconcilia.
La speranza cristiana come prosecuzione della speranza di Abramo
In
questo contesto è importante un passo del Catechismo che
interpreta la speranza cristiana come prosecuzione della speranza di
Abramo, ricollegandola al sacrificio di Isacco: la speranza
cristiana ha cioè «la propria origine ed il proprio modello nella
speranza di Abramo». Il testo prosegue ricordando che Abramo fu «colmato
in Isacco delle promesse di Dio e purificato dalla prova del
sacrificio» (1819). Grazie alla sua disponibilità al sacrificio
del figlio Abramo diventa in modo definitivo il padre delle
moltitudini, benedizione per tutti i popoli della terra (cfr. Gn
22).
Il Nuovo Testamento vede la morte di Cristo
in questa prospettiva, come compimento di tale evento. Ciò
significa inoltre che tutte le prescrizioni cultuali dell' Antico
Testamento vengono assunte in questa morte e in essa condotte alloro
significato più profondo. Tutti i sacrifici sono infatti azioni
vicarie, che in questo grande atto di rappresentazione reale da
simboli diventano realtà, così che i simboli possono venir meno
senza che per ciò si sia rinunciato neppure a uno iota. L'universalizzazione
della Torah da parte di Gesù, come la intende il Nuovo Testamento,
non consiste nell'estrarre alcune prescrizioni morali universali
dalla totalità viva della rivelazione di Dio. Essa mantiene l'unità
di culto ed ethos. L'ethos resta fondato e ancorato nel culto,
nell'adorazione di Dio, per il fatto che nella croce viene raccolto
tutto il culto, anzi, solo nella croce esso si fa pienamente reale.
Secondo la fede cristiana, sulla croce Gesù manifesta e adempie la
totalità della Legge e la trasmette così ai pagani, che ora
possono farla propria in questa sua totalità, divenendo con ciò
figli di Abramo.
4. La croce
torna
su
Da
questo modo di intendere Gesù, la sua pretesa e il suo destino,
deriva nel Catechismo il giudizio storico e teologico sulla
responsabilità di giudei e pagani riguardo all'evento della
crocifissione.
Nessuna colpa
collettiva dei giudei
Innanzitutto
si pone la questione storica dello svolgimento del processo e
dell'esecuzione della condanna. I titoli delle quattro sezioni del Catechismo
che trattano questo argomento indicano già l'orientamento: «Divisioni
delle autorità ebraiche a riguardo di Gesù», «Gli Ebrei non sono
collettivamente responsabili della morte di Gesù». Il Catechismo
ricorda in proposito che, secondo la testimonianza degli
evangelisti, alcune personalità giudaiche molto stimate erano
seguaci di Gesù, anzi, che, secondo Giovanni, poco prima della
morte di Gesù «molti dei capi credettero in lui» ( Gv 12,42). Il Catechismo
ricorda anche che all'indomani della Pentecoste, stando agli
Atti degli Apostoli, «un gran numero di sacerdoti aderiva alla fede»
(At 6,7). Viene inoltre citata l'affermazione di Giacomo secondo cui
«parecchie migliaia di Giudei sono venuti alla fede,e tutti sono
gelosamente attaccati alla Legge» (At 21,20 ). È così messo in
chiaro che il racconto del processo di Gesù non può in alcun modo
fondare la tesi di una colpa collettiva degli ebrei; il Vaticano II
viene espressamente citato: «Quanto è stato commesso durante la
Passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli
Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo [...]. Gli
Ebrei non devono essere presentati né come rigettati da Dio, né come
maledetti, come se ciò scaturisse dalla Sacra Scrittura» (597; Nostra
aetate 4).
Tutti i peccatori sono autori della Passione di Cristo
Dopo
quanto si è finora osservato è chiaro che con tali analisi
storiche - per quanto importanti - non si è ancora toccato il vero
nodo della questione, poiché la morte di Gesù, secondo la fede del
Nuovo Testamento, non è solo un fatto che riguarda la storia
esteriore, ma un evento teologico. Il primo titolo nell'analisi
teologica della croce è quindi: «Gesù consegnato secondo il
disegno prestabilito di Dio»; e il testo comincia con questa
affermazione: «La morte violenta di Gesù non è stata frutto del
caso in un concorso sfavorevole di circostanze. Essa appartiene al
mistero del disegno di Dio [...]» (599).
Coerentemente, l'analisi delle responsabilità
viene conclusa con una sezione dal titolo «Tutti i peccatori furono
gli autori della Passione di Cristo». In questo il Catechismo poteva
appoggiarsi al Catechismo Romano del 1566. Vi si legge
infatti: «Se alcuno cerchi quale sia stata la causa per cui il
Figlio di Dio ha subito la dolorosissima passione, troverà che
(oltre la macchia ereditaria dei progenitori) furono specialmente i
vizi e i peccati commessi dagli uomini dall'origine del mondo sino
ad oggi e quelli che si commetteranno in seguito sino alla
consumazione dei secoli. [...] E questa colpa è da imputarsi a
tutti quelli che troppo spesso cadono nel peccato. Infatti, avendo i
nostri peccati determinato N.S. Gesù Cristo a subire il supplizio
della croce, certamente quelli che si avvoltolano nei delitti e
nelle scellerataggini, per quanto sta in loro, "un'altra volta
crocifiggono in se stessi il Figlio di Dio e l'espongono
all'ignominia" (Ebr. 6,6)».
Il Catechismo Romano de11566, citato dal nuovo Catechismo
(598), aggiunge poi che gli ebrei, secondo la testimonianza
dell'apostolo Paolo, «se l'avessero saputo, non avrebbero mai
crocifisso il Re della gloria» (1Cor 2,8). Prosegue quindi: «noi
invece professiamo di conoscerlo e poi, negandolo con i fatti, pare
che leviamo la mani violente contro di lui» (Catech. R.
1,5,11).
Il dramma del peccato
umano e l'amore divino
Per
chi come cristiano credente vede nella croce non un semplice e
casuale fatto storico, ma un vero evento teologico, queste non sono
affatto superficiali esortazioni edificanti, di fronte alle quali si
deve richiamare il reale svolgimento dei fatti storici; al
contrario, solo queste affermazioni si spingono fino al vero nucleo
di quell'evento. Tale nucleo consiste nel dramma del peccato umano e
dell'amore divino; il peccato umano fa sì che l'amore di Dio per
l'uomo prenda la forma della croce. Per questo da una parte il
peccato è responsabile della croce, ma dall'altra la croce è la
vittoria sul peccato da I parte dell'amore, più forte, di Dio.
Per questo, al di là di tutte le questioni di
responsabilità, ciò che in definitiva e più propriamente conta a
tale proposito è quanto espresso nella lettera agli Ebrei (12,24),
secondo cui il sangue di Gesù ha una voce diversa - più eloquente
- da quella del sangue di Abele, del sangue di tutti coloro che nel
mondo sono morti ingiustamente. Non invoca punizione, ma è
riconciliazione.
Fin da bambino - benché naturalmente non sapessi
nulla di tutte le nuove conoscenze che sono state riassunte nel Catechismo
- mi risultava incomprensibile che alcuni volessero trarre dalla
morte di Cristo una condanna dei giudei, perché questo concetto mi
era già entrato nell'anima come qualcosa capace di donarmi una
profonda consolazione: il sangue di Gesù non pretende alcuna
vendetta, ma chiama tutti alla riconciliazione; come spiega la
lettera agli Ebrei, è esso stesso divenuto il giorno permanente
della riconciliazione di Dio.
Uno sguardo al
compito comune di ebrei e cristiani per il mondo
Con
le riflessioni svolte fin qui non si è certo sviscerato fino in
fondo il tema proposto, lo si è solo introdotto. Alla luce del Catechismo
abbiamo riflettuto sulla relazione tra Gesù e Israele, su ciò
che la Chiesa crede riguardo a Cristo e sul suo rapporto con la fede
di Israele, limitandoci, in un tema tanto ampio, ad alcuni elementi
fondamentali che il Catechismo intende proporre per
l'insegnamento della dottrina nella Chiesa cattolica. Si sono quindi
poste le basi per affrontare i la questione del rapporto
Israele-Chiesa, nella consapevolezza che una trattazione dettagliata
richiederebbe uno studio il cui svolgimento andrebbe ben oltre i
limiti di questo saggio (e anche oltre gli stessi limiti
dell'insegnamento catechistico). Ancor meno si può qui affrontare
la grande questione di un i compito comune di ebrei e cristiani nel
mondo attuale. Mi pare però che il nucleo fondamentale di tale
compito traspaia da quanto si è detto e risalti di per se stesso:
ebrei e cristiani devono accogliersi reciprocamente in una più
profonda riconciliazione, senza nulla togliere alla loro fede e,
tanto meno, senza rinnegarla, ma anzi a partire dal fondo di questa
stessa fede. Nella loro reciproca riconciliazione essi dovrebbero
divenire per il mondo una forza di pace. Mediante la loro
testimonianza davanti all'unico Dio, che non vuole essere adorato in
nessun altro modo che attraverso l'unità tra amore di Dio e amore
del prossimo, essi dovrebbero spalancare nel mondo la porta a questo
Dio, perché sia fatta la sua volontà e ciò possa avvenire in
terra così come «in cielo»: «perché venga il Suo Regno».
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(1) Questa frase è stata intesa dai miei uditori
come un riferimento all'insegnamento di Lutero sui due Testamenti.
In effetti avevo presenti alcuni aspetti del pensiero di Lutero, ma
ovviamente ero anche consapevole che un'opera tanto complessa e
variegata come quella del riformatore tedesco non poteva essere
riassunta adeguatamente in una sola frase. Qui non si può e non si
deve affrontare né, tanto meno, giudicare o addirittura condannare
la teologia luterana dei due Testamenti. Si vuole semplicemente
accennare a diversi modelli di trattazione del problema, per meglio
evidenziare la linea agostiniano-tomistica scelta dal Catechismo.