Moshe Idel –
Victor Malka,
I percorsi della CABBALÀ
Conversazioni sulla tradizione mistica ebraica
La parola Edizioni, 2007, pagg. 300 (circa)
INTRODUZIONE a cura di M. Morselli
a Marco M. Olivetti
in memoriam
Che cos’è la Qabbalah?(1) La parola
significa “ricezione” e indica la tradizione mistica ebraica. Si tratta di una
tradizione diffusa ora nei cinque continenti, che suscita ai nostri giorni un
interesse crescente negli ambienti più diversi.
Pur avendo origini antiche, essa venne alla luce verso la fine del XII secolo
nella Francia meridionale, per poi passare nel secolo successivo in Spagna e di
lì diffondersi in varie direzioni. Un ruolo particolarmente importante, che
proprio Idel tende a sottolineare, vi riveste l’Italia.
Alla fine del Quattrocento la Qabbalah destò l'interesse degli umanisti, e nel
Cinquecento vennero anche stampati alcuni manuali cristiani in latino.
A metà del secolo, essa conobbe uno sviluppo senza precedenti a Safed, in
Galilea, per poi fare da sfondo alla grande avventura sabbatiana e alla
successiva fioritura del Hassidismo.(2)
Il mondo nel quale viviamo costituisce solo una parte di un sistema di mondi
molto più vasto. Questi mondi spirituali si compenetrano e interagiscono tra
loro e con il mondo materiale, e nella nostra vita quotidiana facciamo
esperienza, che ne siamo consapevoli oppure no, di questo scambio di influenze
tra le diverse sfere della realtà.
- Il mondo nel quale viviamo è il mondo dell’azione, al di sopra del quale vi sono
il mondo della formazione, della creazione e dell’emanazione.
- Il mondo della formazione è il mondo delle emozioni, o degli angeli. Il mondo
della creazione è il mondo delle intelligenze, o dei serafini.
- Il mondo dell’emanazione è il più vicino alla Divinità, o forse è la Divinità
stessa.
Ognuno di questi mondi ha molte dimore, molte sfere di vita.
- Spazio, tempo e identità sono fattori presenti in tutti e quattro i mondi, ma
con significati diversi.
- Vi sono anche mondi al di sotto del nostro, dove il male diventa ad ogni livello
più potente. Essi sono abitati da angeli di distruzione, che però non sono
entità autonome, ma ricevono la loro forza dal nostro mondo, dalle nostre
azioni. Per altro verso, essi diventano strumenti per punire coloro che
agiscono, parlano, pensano male: noi veniamo colpiti dalle conseguenze delle
nostre azioni.
L’En Sof, l’Infinito, benedetto Egli sia, si manifesta attraverso dieci Sefirot,
dieci forze fondamentali, canali del flusso divino.
Esse sono: Kéter, Hokhmah, Binah, Hésed, Gevurah, Tiféret, Nésah, Hod, Yesod, Malkhut.
Insieme, nelle loro interrelazioni, esse formano il collegamento permanente tra
il Santo, benedetto Egli sia, e il nostro mondo.
Le miswot, i comandamenti, che sono 613 per chi segua l’alleanza di Mosè e 7 per
chi segua l'alleanza di Noè, ci insegnano a fare in modo che le nostre azioni,
le nostre parole, i nostri pensieri non interrompano il flusso di energia che
scaturisce dalle Sefirot.
Lo studio e la pratica della Torah, la preghiera, l’amore, il pentimento
mantengono e ripristinano l’ordine all’interno di una complessa relazione di
mondi tra loro interconnessi.
Occorre tuttavia sottolineare che, se le preghiere e le invocazioni degli uomini
passano attraverso un articolato sistema, non si rivolgono però a quel sistema,
ma a D_o.
Le Sefirot non costituiscono in alcun modo un ostacolo all' intima e immediata
relazione tra l’uomo e il suo Creatore.
Nel suo libro di memorie Da Berlino a Gerusalemme Gershom Scholem (1897-1982)
ricorda l’emozione provata nella primavera del 1913 (aveva allora 16 anni)
quando lesse per la prima volta una pagina del Talmud e ascoltò la spiegazione
che Rashi elabora dei primi versetti del Genesi. Fu, egli scrive, il primo
incontro con la sostanza ebraica della Tradizione:
«Ciò che mi affascinò allora, la forza di una tradizione plurimillenaria, era
abbastanza forte da determinare la mia vita, e da indurmi a passare da una
dedizione nel modo dello studio e dell’apprendimento a un’attività di ricerca e
riflessione nella quale sprofondarmi».(3)
Il contatto con la profondità della Tradizione creò una trasformazione: «Ciò che
allora credevo di poter cogliere e afferrare, e su cui ho riempito alcuni
quaderni della mia giovinezza, si trasformò in quest’atto di prensione, e il
concetto cui tendevo divenne qualcosa che riluttava tanto più energicamente ai
concetti, man mano che passavano gli anni, in quanto liberava una vita
misteriosa della quale dovevo riconoscere l’impossibilità di essere tradotta in
concetti, e appariva tale da poter essere soltanto rappresentata sotto forma di
simboli».(4)
Poi, dapprima con esitazione, intorno al 1915 incominciò a leggere scritti sulla
Qabbalah. Provò a cimentarsi con i testi originali, il che comportava non poche
difficoltà, perché vi erano allora in Germania talmudisti, ma non cabbalisti:
«Ben presto si destò il mio interesse per la Qabbalah, probabilmente attivato
dall’unione di motivi molto diversi. Forse – come avrebbero detto i cabbalisti –
nella “radice della mia anima” avevo un’affinità con questa sfera; forse
concorse il mio bisogno di comprendere il mistero della storia ebraica – e
l’esistenza degli ebrei attraverso i millenni è un mistero, checché ne dicano le
“spiegazioni” offerte con dovizia».(5)
Così dovette cercare di imparare da solo a leggere tali fonti. Si comprò
un’edizione dello Zohar, l’opera
di Franz Molitor, Philosophie der Geschichte, e alcuni testi del Hassidismo.
Tra il 1915 e il 1918 riempì molti quaderni di estratti, riassunti, traduzioni e
riflessioni. Nella primavera del 1919
prese la decisione di abbandonare gli studi naturalistici per dedicarsi a uno
studio scientifico della Qabbalah.
Nel 1923 compì la sua alyiah [ritorno in Israele], insieme ai duemila volumi
della sua biblioteca, e andò ad abitare a Gerusalemme. Dopo essersi sposato,
andò ad abitare in via Abissinia, non lontano dal quartiere ortodosso di Meah
Shearim, a pochi minuti dalla Biblioteca Nazionale:
«La Gerusalemme nella quale arrivai mi era stata destinata dal cielo, per così
dire […] Dopo gli anni della Prima guerra mondiale era impregnata di vecchi
libri ebraici come una spugna di acqua. Già allora venivano di continuo a
Gerusalemme molti ebrei da tutte le parti del mondo, per lo più con i loro
libri, per pregare, studiare e morire».(6)
Nell’aprile del 1925 assiste all’inaugurazione dell’Università Ebraica sul Mount
Scopus, senza immaginare che di lì a pochi mesi (in settembre) vi sarebbe stato
assunto come studioso di Qabbalah.
Un terreno vergine, dal punto di vista scientifico, si apriva alla sua attività
di ricerca.
Moshe Idel è nato nella Romania comunista nel 1947, in uno shtetl che era forse
l’unico villaggio ebraico scampato alla Shoah. Sale in Israele nel 1963, quando
ha 16 anni, e va a vivere in un kibbutz.(7)
All’yiddish e al romeno si aggiungono l’ebraico e il francese. Già mentre
frequentava il heder, la tradizionale scuola elementare ebraica, apprezzava
in modo particolare il fatto che quando uno scolaro aveva imparato la lezione
poteva ritornarsene a casa, e lì lui aveva tutto il tempo a sua disposizione per
la sua occupazione preferita: la lettura. A 11 anni gli era capitato in mano il
primo libro di filosofia. Da adolescente va a comprarsi libri di filosofia e
sulle religioni, tra cui le opere di Schweitzer e di Jung, nella libreria
francese di Haifa.
Leggendo le opere di Scholem inizia a scoprire la Qabbalah, incontrando un
giorno “per caso” Shlomo Pinès (1908-1990, meno famoso di Scholem, ma non meno
straordinario: si dice che parlasse 70 lingue), decide di diventare uno studioso
del pensiero ebraico, e sceglie per la sua tesi di occuparsi di Abraham Abulafia
(1240-1291).(8)
Idel è stato allievo di Pinès, non di Scholem. Idel e Scholem si incontrano per
la prima volta nel 1971, e in seguito per una quarantina di volte. Il giovane
studioso porta con sé manoscritti cabbalistici, che l’anziano studioso legge con
gioia. Discutono per ore. Ripensandoci ora, Idel le considera ore di festa.
Idel legge molto, lavora molto in biblioteca e nel suo studio, ma pubblica il
suo primo libro solo nel 1988, dopo la morte di Scholem. Da allora, i libri che
ha pubblicato sono molti, tradotti in molte lingue, ma molti altri sono ancora
manoscritti e altri ancora sono quelli in progetto.
È considerato il maggior studioso contemporaneo di Qabbalah. Pur riconoscendo
che l’immensa opera scientifica di Scholem ha gettato luce su tutti gli aspetti
fondamentali del misticismo ebraico, Idel ritiene tuttavia che su una serie di
questioni il suo giudizio vada rivisto. In particolare egli ritiene che Scholem
abbia privilegiato la corrente teosofico-teurgica rispetto a quella estatica, e
sottovalutato gli aspetti magici.
Idel ha imparato dai suoi maestri la libertà di pensiero e di parola. Anche a noi
è cara, e ci sia consentito di dissentire allorché egli pone il XIX secolo tra i
periodi nei quali la Qabbalah non è stata importante.
Nel XIX secolo è vissuto Rav Elia Benamozegh (Livorno 1823-1900), sul quale un
grande maestro del XX secolo, Rav Léon Askenazi (1922- 1996) si esprime in
questi termini:
«Duemila anni dopo l’inizio della grande diaspora che è seguita alla distruzione
del Secondo Tempio, per la prima volta si fa udire una voce che si riaggancia al
tempo dei profeti ebrei. Dopo la lunga parentesi di questa notte diasporica,
riprende il tempo in cui i profeti ebrei parlavano simultaneamente in ebraico
per Israele e nelle settanta lingue per le nazioni. Dopo un’eclissi di un
secolo, ecco che Elia Benamozegh è di nuovo presente, nostro contemporaneo».(9)
Victor Malka sottolinea il tono sfumato, a mezza voce, delle risposte di Idel,
che sono sotto il segno della misura, della concisione e del ritegno: non tre
parole, quando due sono sufficienti. Egli si dichiara agnostico, ma osserva la
Kasherut [insieme delle regole alimentari ebraiche], afferma che avrebbe potuto
studiare tutt’altro,ma è difficile credere che solo “il caso” lo abbia condotto
ad occuparsi di Qabbalah. Chi dicesse: «Sono un cabbalista!» sarebbe sicuramente
un falsario. D’altra parte non basta dichiarare di non esserlo per esserlo in
effetti. Tuttavia se qualcuno alla Qabbalah dedica la propria esistenza, almeno
un sospetto lo suscita. E se l’accentuato understatement di Idel fosse in
effetti una copertura?
Marco Morselli
Sukkot 5767
Note
(1) Idel preferirebbe la domanda: che cosa sono le Qabbalot [plurale di Qabbalah]?
Ma anche in una visione pluralistica ci si può chiedere ad esempio cosa sia la
filosofia, benché le filosofie siano molte e diverse tra loro.
(2) A chi si accosti per la prima volta all’argomento potremmo consigliare: G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, tr. di G. Rossi, Introduzione
di G. Busi, Einaudi, Torino 1993; A. Steinsaltz, La rosa dai tredici petali, tr.
di R. Volponi, Giuntina, Firenze 2000; A. Safran, Saggezza della Cabbalà, tr. di
V. Lucattini Vogelmann, Giuntina, Firenze 1998;Mistica ebraica, a cura di G.
Busi e E. Loewenthal, Einaudi, Torino 1995 (un’antologia che consente di
conoscere alcuni testi fondamentali della tradizione esoterica ebraica, dal
Sefer Yesirah al Sefer ha Bahir, ad alcune parti dello Zohar).
(3) G. Scholem, Da Berlino a Gerusalemme, tr. di A.M.Marietti, Einaudi, Torino
1988, p. 46. Una nuova traduzione, a partire dall’edizione ebraica, è stata
curata da G. Busi e S. Campanini (Einaudi 2004).
(4) op. cit., pp. 46-7.
(5) op. cit., p. 105.
(6) op. cit., p. 156.
(7) Per coloro che amano enfatizzare la differenza tra laici e religiosi: il
termine qibbus venne scelto per designare i villaggi socialisti e laici da
Yehudah Yaari, recuperandolo dalla tradizione dei hassidim di Nahman di Breslaw.
(8) Abulafia nasce nell’anno 5000 della datazione ebraica.
(9) L. Askénazi, La Parole et l’Ecrit, Albin Michel, Paris 2005, vol. II, p. 476.
Anche se Idel si è occupato in almeno due occasioni di Benamozegh, non ha ancora
preso in considerazione le due opere fondamentali
Essai sur l’origine des dogmes
et de la morale du christianisme (le cui due prime parti sono edite solo in
traduzione italiana: Marietti 2002) e
Storia degli esseni (1865 e Marietti di
prossima pubblicazione).
vedi anche, nel sito: Marco Morselli,
La mistica ebraica