Le quattro pietre miliari di Wojtyla
nel dialogo con Israele
Oded Ben Hur, ambasciatore d'Israele presso la Santa Sede

Israele, il popolo ebraico e il mondo intero hanno perso un grande paladino della riconciliazione e della fratellanza tra le fedi. Possa riposare in pace. 


L’ambasciatore israeliano alla Santa Sede, Oded Ben Hur, è convinto che “in 26 anni di pontificato, Giovanni Paolo II abbia fissato quattro pietre miliari importanti nel cammino verso la riconciliazione tra il mondo cristiano e il mondo ebraico e lo Stato d’Israele. La prima è stata la visita ad Auschwitz nel 1979, la seconda quella alla grande sinagoga di Roma nel 1986. La terza è il fatto che sono stati allacciati rapporti diplomatici pieni tra Israele e la Santa Sede. La quarta è stata il pellegrinaggio in Terra Santa nell’anno del Giubileo. Il Papa ha anche incontrato il presidente d’Israele, un gesto di alto riconoscimento della sovranità israeliana”. 

Negli ultimi anni, però, la Santa Sede non ha esitato a criticare Gerusalemme per la costruzione della barriera difensiva, definita un muro da abbattere, per costruire ponti. “Nonostante i punti bassi e le critiche espresse dal Vaticano durante l’ultima Intifada contro Israele, il Santo Padre ha saputo conservare i rapporti di base, d’apprezzamento, di preghiera e di speranza per un cammino di pace in medio oriente. Il Papa ha condannato in diverse occasioni gli atti di terrorismo e l’uso della religione e del nome di Dio per uccidere innocenti. 

Il Santo Padre ha sempre continuato a incontrare rappresentanti del mondo ebraico e a portare avanti il dialogo interreligioso con i rabbini capi d’Israele, con cui si era da poco incontrato, per giungere alla positiva conclusione del negoziato finanziario e giuridico fra i due paesi”. Israele e il Vaticano per dodici anni non hanno però concluso il negoziato.

Secondo Ben Hur, il fatto che il governo israeliano debba confrontarsi quotidianamente con questioni che riguardano la sicurezza dello Stato non lascia all’agenda nazionale spazio sufficiente per affrontare altre situazioni importanti. “Ammetto che esiste una reciproca ignoranza fra le due religioni, dovuta a una storia difficile di persecuzioni, inquisizione, antisemitismo, paure e sospetti, che ha creato anche in Israele una mancanza di conoscenza”. 

Per l’ambasciatore, non ci sono dubbi che Giovanni Paolo II abbia presentato un’idea chiara e determinante sulla necessità di riconciliazione con gli ebrei. Per quanto riguarda i rapporti con Israele, c’è stata “una svolta decisiva: relazioni che non esistevano prima, dalla fondazione dello Stato nel 1948”. Lo Stato del Vaticano e quello d’Israele si sono riavvicinati negli ultimi anni anche sulla questione dell’antisemitismo. “La posizione ufficiale della Chiesa, sostenuta anche dalle dichiarazioni più volte ripetute dalle massime autorità della Curia romana sono molto chiare nei confronti dell’antisemitismo e sul dovere di lottare contro qualsiasi manifestazione del fenomeno, nello spirito della dichiarazione ‘Nostra Aetate’ già dal 1963. Giovanni Paolo II è stato il pastore che ha sostenuto questa posizione”. Il rabbino David Rosen, responsabile per gli affari interreligiosi dell’American Jewish Committee, rabbino capo d’Irlanda dal 1979 al 1985 e membro della delegazione israeliana per i rapporti con la Santa Sede, al Foglio dice che Wojtyla “ha tradotto in azione i principi della dichiarazione del concilio Vaticano II ‘Nostra Aetate’. 

Giovanni Paolo II è l’eroe della riconciliazione ebraico-cristiana. Non c’era mai stato un simile carisma papale. Aveva un potere visivo enorme, dalla visita alla sinagoga di Roma all’autentica sofferenza sul suo viso allo Yad Vashem a Gerusalemme”. Per Rosen, è stato il Papa che “al Muro del pianto ha riconosciuto i peccati dei cristiani sul popolo ebraico e ha compreso il suo diritto al ritorno in Terra Santa”. Su tutto è stato determinante l’impatto della Shoah: “L’ho incontrato 14 volte. Ad Assisi, nel 1993, quando ero a capo della delegazione ebraica, abbiamo parlato a lungo del significato universale dello sterminio ebraico”.

"Così il pontefice sciolse il groviglio diplomatico di Gerusalemme":

Roma. Fino al 13 aprile 1986, quando Giovanni Paolo II entra nella sinagoga di Roma a fianco del rabbino Elio Toaff, non tutto è chiaro tra cattolici ed ebrei. Soltanto il gesto – quel gesto – apre il sigillo della fiducia reciproca, crea la svolta. Cinque lunghi anni erano passati dal marzo 1981, quando il pontefice aveva fatto il primo passo verso la sinagoga, ma si era fermato nella parrocchia del ghetto, quasi fosse impedito. Entrato il pontefice in sinagoga, finalmente, Giacomo Saban, presidente della comunità di Roma gli dice: “Ritengo di dover manifestare l’aspirazione a veder cadere alcune reticenze nei confronti dello Stato d’Israele”. Il Papa non risponde, non nomina mai lo Stato di Israele. Quando gli viene presentato l’ambasciatore di Israele, Eytan Ronn, che ripete l’auspicio, sorride: “Speriamo”.

Chi scriverà la storia del rapporto tra Giovanni Paolo II e Stato d’Israele avrà molte notizie da disseppellire. Dovrà scoprire anche come nel 1967, da cardinale di Cracovia, Karol Wojtyla ha vissuto la violenta campagna antisemita che il regime comunista di Wladyslaw Gomulka scatena contro gli ebrei, dopo la guerra dei sei giorni. Il pontefice tocca allora con mano il legame intrinseco tra antisemitismo e antisionismo comunista, mentre in tutta la Polonia, con una campagna di massa, migliaia di studenti, centinaia di insegnanti, centinaia di ufficiali sono espulsi con disonore, soltanto perché ebrei: 25 mila figli dei superstiti di Auschwitz sono costretti a lasciare la Polonia. 

Dieci anni dopo, a Roma, l’intimo segreto che lega la storia della Polonia all’antisemitismo cristiano, parte del più grande mistero che porta alla Shoah, è palesemente in cima ai pensieri di Giovanni Paolo II. Di una visita in Israele si parla già nei primi mesi del pontificato, poi nel 1981, ma ci vorranno ben 22 anni perché Wojtyla possa infilare il suo biglietto nel Muro del Pianto con la parola pesante: “Perdono”. 

È molto più facile per il pontefice risolvere la questione vera – il rapporto della Chiesa con l’ebraismo – che quella che ne consegue, il rapporto diplomatico tra lo Stato Vaticano e lo Stato di Israele. Eppure la questione vera è enorme, perché è fatta di storia, di tanta storia. Ciò che Wojtyla vuole è ritornare a San Paolo, all’ebreo che polemizza con gli ebrei, fraternamente deluso, perché non riconoscono continuità tra la Legge che sente sua, da ebreo, e il Cristo. Wojtyla, appunto, chiama gli ebrei “fratelli maggiori”, come Paolo: stessa famiglia. Ma se gli è relativamente facile chiudere con l’antisemitismo teologico, è ben più vischioso concludere il riconoscimento dello Stato di Israele nei cui confronti la Santa Sede ha due vincoli: lo status di Gerusalemme e il destino dello Stato palestinese (la maggioranza dei cristiani che vive in Palestina è araba). 

Paolo VI, col suo viaggio in Palestina del 4 gennaio 1964, ha poi formalizzato una richiesta irrealistica su Gerusalemme che pesa e intralcia, perché ne ha chiesto uno “Statuto internazionalmente garantito”. Tre anni dopo dovrà comprendere che gli statuti di Gerusalemme si scrivono prima con le armi, poi con i trattati. La diffidenza, non priva di cascami antisemiti, continua così a segnare i rapporti della Santa Sede con Israele, tanto che nel 1976 il segretario di Stato del Vaticano, Agostino Casaroli, deve riparare a quella che Israele definisce giustamente “una guerra spirituale della Chiesa Cattolica contro gli ebrei”, quando l’Osservatore Romano pubblica un documento congiunto libico-vaticano che fa propria la definizione di “sionismo come forma di razzismo”. 

Né il rapporto tra Vaticano e Israele è poi aiutato dalle gerarchie cristiane palestinesi, con un patriarca latino, Michel Sabbah, sempre più sdraiato sulle posizioni più oltranziste di Yasser Arafat. Giovanni Paolo II anche qui segue allora la regola principe del suo pontificato: si occupa della storia, lascia alla Curia la cronaca. Guarda avanti, cercando di capire come riformare anche il più delicato dei rapporti. Così, non appena Rabin e Arafat si stringono la mano, ordina al cardinale Angelo Sodano di concludere il riconoscimento reciproco, siglato il 30 dicembre 1993. Paradossalmente, da quel giorno in poi, sarà semmai Israele a sottovalutare l’importanza di quel rapporto. Soltanto la crisi della Basilica della Natività, nel maggio 2002, farà capire a Gerusalemme che è necessario essere in due, per parlarsi: la rappresentanza ebraica presso la Santa Sede viene allora potenziata e, discretamente, il Vaticano risponde al rinnovato interesse, spostando da posizioni cruciali i vescovi palestinesi più oltranzisti.
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[Fonte: Il Foglio – 4 aprile 2005]

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