Giudaismo e Cristianesimo "falsi gemelli" [*]
saggio di antiebraismo teologico e di polemica confessionale antigiudaica.
A proposito di due libri recenti di André Paul
Parte1.2

 

Parte I.2      torna all'indice

I tre capitoli che costituiscono la Parte seconda "Il mondo ellenistico aperto alla nazione giudaica" non sembrano avere una pertinenza diretta con il titolo del volume, occupandosi in particolare dell’ellenizzazione di concetti biblico-ebraici, nonché di storia politica e sociale. Ciò vale in modo particolare per il capitolo terzo Il terzo libro dei Maccabei, che ripropone uno studio apparso nel 1984 in "Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt", II.20.1, pp. 298-336.

Perplessità nascono anche dalla lettura dei tre capitoli dedicati a Giuseppe Flavio definito "vero testimone della nazione", "il giudeo fedele alle tradizioni ancestrali dei padri"; dall’analisi del racconto flaviano della creazione contenuto nelle Antichità giudaiche, Paul definisce Giuseppe come "assai più giudeo, nel senso rabbinico del termine, di quanto non sia fedele alla verità biblica"; in questo modo egli si mostra non solo contemporaneo dei maestri tannaiti (un tanna di lingua greca), ma addirittura un loro complice (p. 198s).

Quale sia il misfatto perpetrato è meno chiaro da capire: forse di essere stato ebreo, di aver ragionato con categorie ebraiche, e di non essersi sufficientemente staccato dalla matrice semitica di pensiero, rinnegandola a favore di quella ellenistica che ha il merito di aver prodotto la vera Bibbia, quella "proto-cristiana" di Alessandria che, almeno per la Torah, ha anticipato il cristianesimo e la sua Bibbia di ben tre secoli. A conferma, se qualcuno avesse dei dubbi, si precisa che con l’espressione "la Bibbia greca, intendo dire la Bibbia cristiana col Nuovo Testamento" (p. 207), come pure l’altra che suona "la Bibbia cristiana, vale a dire la Bibbia come tale" (p. 216).

D’altra parte per l’A. le Antichità giudaiche sono un manifesto anticristiano. L’opera costituisce "il prodotto del pentimento di Giuseppe": pentimento rispetto alla sua maggiore apertura a Roma e all’ellenismo presente nella Guerra giudaica che sarebbe stato suscitato dalla visione della comunità giudaica di Roma caratterizzata da una grande "povertà culturale e sociale. (...) A questa miseria locale dei giudei corrispondeva, sul versante opposto la ricchezza letteraria, culturale e dottrinale dei cristiani di Roma" (p. 211s), fin dagli anni Cinquanta con la lettera inviata da Paolo e sulla fine del secolo con quella ai Corinzi attribuita a Clemente. Se Giuseppe Flavio non si fosse "pentito" forse avrebbe potuto essere annoverato tra i "proto-cristiani"!

Nella quarta parte siamo invece informati che la traduzione greca di Aquila vuole essere una reazionaria restaurazione della verità ebraica mediante una interpretazione anti-cristiana, operando una resa etimologicistica dell’ebraico che è una vera trappola ideologica: "egli disarticola in qualche modo il testo al livello delle parole, che restituisce nel loro rispettivo sostrato di significato" (p. 229), critica che Paul rivolge anche alla traduzione francese della Bibbia compiuta da Chouraqui ai nostri giorni.

La conclusione è che "in lui (Aquila), artefice e campione di una verità iper-ebraica, la relazione che costituisce la condizione reale della scrittura appare nettamente di ordine ideologico" (p. 230). Ora, se nessuno può mettere in dubbio che in qualsiasi traduzione esista una componente ideologica, e quindi anche in quella di Aquila - benché una tendenza anticristiana in essa non si possa provare -, così come esiste nell’elaborazione rabbinica della ideologia-teologia dell’ebraico come lingua santa, lingua di Dio e lingua di Adamo, quello che non si capisce è perché mai la Settanta invece non sarebbe altrettanto ideologica e teologica, come ogni persona di senno ammette senza problema, nella consapevolezza che decidere quali siano l’ideologia e la teologia giuste è un altro problema che si risolve su un piano diverso e che non può divenire il metro per stabilire la bontà filologica di una versione o lo strumento per esaminarne l’ideologia da un punto di vista storico.

Al contrario, per Paul la riaffermazione iper-ebraica di Aquila è espressione del sistema-giudaismo che "dal Libro dei giubilei a Rashi" ci è rivelato con chiarezza come "coerenza nazionale, ideologica, anziché dottrinale!" (p. 249). Mi pare che ogni commento a una simile affermazione sia superfluo.

Ancora più strabilianti sono le affermazioni che Paul fa nel capitolo Dal mito di Masada all’ideologia del terzo tempio. Possiamo riassumerle così: il movimento dei resistenti di Masada rappresenta "l’ostinato riemergere dell’ideale della regalità ereditaria degli asmonei" (p. 267); l’ideale nazionalistico è fortemente radicato nel subconscio di ogni giudeo (p. 268); del resto "in ogni tempo i giudei lontani dalla Palestina non furono più sventurati dei loro dominatori politici, ad esempio i musulmani, né dei loro concorrenti religiosi, vale a dire i cristiani" (Ibid.,: l’A., che tiene corsi alla École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, dovrebbe essere a conoscenza della storia dell’antisemitismo, dall’Antichità alle Crociate, dall’Inquisizione spagnola a quella della Controriforma, dai pogrom dell’Europa orientale alla Shoah!); "i governanti dei paesi del loro esilio erano ai loro occhi degli usurpatori, e quindi dei nemici da combattere"; la loro sventura era l’esilio, cioè la mancanza dell’esercizio diretto del potere politico, ma ciononostante i giudei "credevano più che mai di essere destinati a dominare, un giorno, l’insieme del mondo (...) perciò in ogni epoca il loro scopo primo e ultimo fu quello di conquistare il controllo del territorio nazionale ... e di conseguenza di essere i dominatori della gentilità" (p. 269: affermazioni che sembrano una citazione puntuale ripresa da I protocolli degli anziani di Sion!); ciò è dimostrato dai ben settantacinque pretesi messia computati da Zunz, otto dei quali "imperversarono" durante le tre prime crociate (le quali, risaputamente, riservarono un trattamento di favore agli ebrei, come a Magonza e in altre località europee!); pur nella loro marginalità, i sicari di Masada "ebbero di fatto la funzione obiettiva di far percepire la voce più segreta e quindi l’elemento immortale del subconscio giudaico", pur costituendo un fenomeno reazionario "epifenomeno ideologico o bubbone sociale ... uno spirito collettivo di integralismo nazionale che ... diede vita talvolta a forme di aggregazione di tipo terroristico" (p. 270s); eppure, nonostante quanto detto, il vero nemico di Masada fu il rabbinismo: quest’ultimo, che prima era stato definito l’essenza del giudaismo, ora sconfigge Masada, che però pure aveva espresso la voce più segreta e quindi l’elemento immortale del subconscio giudaico!

E’ sorprendente notare come, mentre una volta lo stereotipo classico dell’antisemitismo era il concetto teologico di "popolo deicida maledetto" e, poi, quello di "razza inferiore", l’antiebraismo nella sua inculturazione nel moderno si serve di un importante concetto psicoanalitico come il subconscio, della cui scoperta siamo debitori proprio ad un ebreo.

Nell’indagine storica di Paul Masada si collega senza problemi alla monarchia di Davide, al regno asmoneo e alla politica dello stato d’Israele soprattutto prima della Guerra dei sei giorni; dopo di essa infatti il riferimento di continuità col passato glorioso non è più Masada, ma il riconquistato muro del pianto (quasi che prima del 1967, esso fosse pressoché ignorato dagli ebrei!) il quale apre la strada alla nuova ideologia del terzo tempio: il passaggio è chiaro: Davide, gli asmonei, Masada, i falsi messia sparsi per i secoli, la politica israeliana degli ultimi decenni e, finalmente, la conquista del muro occidentale!

La giustificazione che l’A. si dà per questo sconfinamento è che "la storia di un periodo o di un fatto antico è formata anche della sua posterità" (p. 331). Ma il caleidoscopio della deformazione storica non è finito: infatti, la visita di Sadat a Gerusalemme nello stesso anno, e soprattutto gli accordi israelo-egiziani siglati a Camp David nel 1979 sanciscono un’alleanza "che non poteva non ricordare le fasi ahimè brillanti della storia asmonea": il vero nemico resta la Siria e, infatti, poco dopo c’è l’annessione del Golan! Parallelamente a ciò il già menzionato A. Chouraqui promuove una "enorme impresa di pan-sionismo letterario" (p. 288) con la ricordata traduzione in francese della Bibbia!

A parte che si fatica a comprendere cosa c’entri tutto ciò con Il giudaismo antico e la Bibbia, titolo del libro in esame, per fortuna arriva l’apocalittica, oggetto dell’ultimo capitolo. Ora "senza indulgere a un’apologetica troppo accentratrice [un barlume di consapevolezza, almeno come rischio, pare non manchi all’A.!], sottolineo tuttavia che il sostantivo apocalisse ... è nato cristiano" (p. 326): contrariamente al rabbinismo, all’ideologia della Torah, a Masada ecc., l’apocalittica infatti secondo Paul esprime nel giudaismo "una solidarietà profonda e obbligata col vasto universo di cui faceva parte".

Almeno nell’apocalittica, dunque, il giudaismo non ha complessi di superiorità, si integra col mondo circostante e, anzi, in esso si perde. Il risultato è che anche di essa l’A. lo espropria, attribuendone la creazione ai cristiani: "Il nome apocalisse è scaturito per così dire dalla loro [scil. della dottrina e della forma apocalittiche] sintesi cristiana, con l’Apocalisse di S. Giovanni, libro destinato a chiudere, non senza fatica, la Bibbia o Apocalisse cristiana. Si può dire che nel cristianesimo la pseudonimia apocalittica si è sistematizzata con la firma Gesù Cristo" (p. 327).

Sappia dunque chi ha dedicato la sua vita a studiare l’apocalittica giudaica che essa fino all’Apocalisse di Giovanni non è che "pseudonimia apocalittica", come a dire falsa apocalittica, designata impropriamente mediante uno pseudonimo. Superfluo esplicitare l’argomento teologico soggiacente, fin troppo chiaro: l’unica vera apocalittica è la apo-kalypsis della salvezza portata da Gesù Cristo, così come la sola vera apocalisse è la rivelazione del compimento escatologico cristiano di Giovanni, il veggente di Patmos.

Dunque tutta l’altra apocalittica, che non reca la firma di Cristo, o non è tale, o al massimo sarà un abbozzo asistematico, una preparazione implicita proto-cristiana o pre-cristiana nella misura in cui conterrà elementi di convergenza con la sola vera apocalisse, quella cristiana che costituisce "la maturità apocalittica" (p. 301) preparata da Geremia, Ezechiele, Isaia secondo e terzo. "Si potrebbe dimostrare facilmente - conclude l’A. a p. 326 - che questa stessa Bibbia (cristiana) è un’immensa apocalisse, la quale riunisce la totalità delle dimensioni e caratteristiche che abbiamo detto essere quelle di un’autentica apocalittica e, parallelamente, che Gesù Cristo soddisfa a tutte le condizioni e possiede tutti i tratti del perfetto apocalittico".

Cosa ci sia di apocalittico nel libro della Genesi, nel Levitico, nei Proverbi o in Qohelet, che pure in quanto parte dell’Antico Testamento cristiano sono Bibbia, ma anche negli Atti, e in molte parti degli stessi Vangeli, compreso Giovanni, attenderemo di saperlo meglio in un prossimo libro di Paul! Ancora una volta un giudizio teologico, che andrebbe rispettato se si mantenesse consapevole della sua natura di adesione religiosa ad una fede (pur connotandosi di spirito settario e di assolutismo culturale), pretende di sostituirsi all’indagine storico-letteraria facendo violenza ai testi.

In realtà l’apologeta cristiano Paul, che nessuno vuole spingere a considerare ispirato e canonico il Libro dei giubilei e tanto meno a convertirsi al giudaismo, pure non può dire che l’apocalittica giudaica non è apocalittica perché non è cristiana, o che tutta la Bibbia è apocalittica, e soprattutto comprenderà meglio la stessa Apocalisse di Giovanni anche studiando il Libro dei giubilei e le altre opere prodotte da questa importante tendenza del giudaismo.

A proposito di questi testi, e di quelli impropriamente indicati come intertestamentari, meraviglia vedere citata dall’A. (p. XXII) l’opera di J.H. Charlesworth Gli pseudoepigrafi dell’Antico Testamento e il Nuovo Testamento (Cambridge 1985; ed. italiana Brescia 1990) come contenente "giudiziose messe a punto sull’argomento" quando Paul sembra esattamente ricadere in quel "pregiudizio confessionale" riguardo a questi testi "considerati importanti unicamente e a motivo del ponte che essi tendevano a gettare ... tra le ‘due sacre e canoniche raccolte della santa parola di Dio’ " denunciato da Charlesworth nel suo libro (p. 38s) come tipico del periodo buio della ricerca su di essi negli anni 1914-1949.

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Ed eccoci alle conclusioni del libro: il giudaismo è una nazione di esiliati, anzi dopo il 70 può esistere solo come "gruppo di esilio e religione di esilio" (p. 332); ciò in conseguenza della scomparsa del tempio. E veniamo ora all’ultima espropriazione compiuta dall’A.: tutti pensano che la diaspora sia una caratteristica del giudaismo? Errato. Infatti la diaspora presuppone un tempio unico, condizione che non può più essere giudaica dopo il 70: gli ebrei, che sono stati in diaspora fino a questa data, saranno d’ora in avanti solo esuli, mentre in diaspora sono i cristiani, poiché hanno il tempio, ossia il tempio del suo (di Cristo) corpo, ed una terra santa che tuttavia non è nazionale.

"Se il giudaismo si è costituito come sistema social-dottrinale di esilio, il cristianesimo invece è l’erede social-letterario della diaspora ...Si può dire che la qualità e la funzione di diaspora sono fondamentalmente costitutive dell’anima e della forza propulsiva del cristianesimo" (p. 332s). Dello stesso tema l’A. si era occupato nell’articolo Une voie d’approche du fait juif: Diaspora et Galut, apparso nella miscellanea dedicata a H. Cazelles De la Tôrah au Messie, apparsa a Parigi nel 1981 (pp. 369-380). In esso aggiunge che la situazione di galut termina nel 1948: se è così allora emerge anche un altro equivoco, poiché allora il giudaismo o l’ebraismo vengono fatti coincidere con lo Stato d’Israele, come entità politica definita.

Per chi non lo avesse ancora capito giudaismo e cristianesimo non solo sono falsi gemelli, ma forse nemmeno fratelli ed hanno per madre una "realtà ambigua". Ma chi mai sosterrebbe - precisando che ci si riferisce al giudaismo rabbinico - che si tratti di gemelli, tanto più monozigoti? Chi non è in grado di cogliere la profonda diversificazione che ne ha caratterizzato la nascita e lo sviluppo? Chi vuole sostenerne l’identità? Dunque la perorazione di Paul a difesa della differenza mi pare del tutto superflua.

Sarebbe utile e, comunque, innocua se in realtà non nascondesse la tesi che il cristianesimo non ha nulla a che spartire non dico con il giudaismo rabbinico, ma con il giudaismo antico che per l’A. inizia con il postesilio quasi seicento anni prima di Cristo. Del cristianesimo tutto è originale e cristiano, nulla mutuato da quello che più correttamente potremmo definire giudaismo del secondo tempio: la Bibbia è solo cristiana, così come l’apocalittica, la diaspora, il tempio-corpo.

Gli ebrei di qualche valore sono quelli che sostanzialmente rinunciano non alla loro dottrina (poiché il giudaismo non ha una dottrina!) ma alla loro ideologia e al concetto di nazione (ma nel senso di stato o in quello spirituale di nazione santa?), si aprono, si "convertono" all’ellenismo, traducono la Bibbia in greco, si integrano bene nella sapienza internazionale dell’epoca ellenistica, presentando Mosè come fonte di una sapienza autonoma, senza l’eteronomia della rivelazione del Sinai.

Paul continua ancora oggi quello che è stato il tentativo che giudaismo rabbinico e cristianesimo hanno fatto per secoli fin dalla loro nascita, ossia "diseredare l’altro e negare un legame di consanguineità divenuto ben presto per entrambi scomodo e imbarazzante. Ma una scomunica reciproca non può cancellare la realtà di una origine comune... fra i molti giudaismi possibili, il cristianesimo è semplicemente uno di quelli che si sono realizzati" (Boccaccini, Il medio giudaismo, cit., p. 38).

Dal punto di vista storico rabbinismo e cristianesimo sono entrambi due sviluppi coerenti del giudaismo antico, ciascuno dei quali si pone al tempo stesso in continuità e in discontinuità con la tradizione; "L’interrogativo su quale dei due sia lo sviluppo più autentico (vale a dire il vero Israele) appartiene alla polemica confessionale" (ibid., p. 39).

Ed è proprio in questa che Paul impegna le sue forze, mascherandosi da storico. Si sperava che oggi tutto ciò fosse un dato acquisito e la bimillenaria polemica superata, ma così non è. Sembra che ancora una volta la via scelta dal "migliore" dei falsi gemelli per affermare la propria peculiarità sia quella del disprezzo dell’altro, fatto che, da parte del cristianesimo, si concretizza in una sorta di damnatio memoriae delle proprie radici giudaiche.

Infine alcune osservazioni sul testo dell’edizione italiana (e dell’originale). Mi pare preferibile "giudaicità" a giudaità che compare alcune volte alle pp. 165 e 289. Nelle note di pp. 171-183 (e altrove) per ben cinquanta volte si cita di seguito La guerra giudaica, tr. it., ecc.: non si poteva alleggerire l’apparato con l’usuale Ibid.?

Riguardo alla trascrizione ebraica una nota editoriale avverte che nell’edizione italiana ci si attiene in genere a quella adottata nella Piccola enciclopedia dell’ebraismo di J. Maier e P. Schäfer [Stuttgart 1981, ediz. italiana Casale Monferrato 1985]. Non si capisce allora perché spesso venga reso lo shewa quiescente come nei termini Miqera invece di Miqra (p. 42-45 varie volte; ma corretto a p. 15, nota 29), nigeleh-nigelot invece di nigleh-niglot (pp. 26-28 alcune volte).

Risulta poi incomprensibile - se non con una lettura errata del testo ebraico non vocalizzato ywnyt - la resa due volte di "sapienza greca" con hokmah yônît invece di yewanit (pp. 219-220): pensavo che l’errore potesse dipendere da una resa maldestra del traduttore italiano, ma è puntualmente presente - come quasi tutti gli altri qui segnalati - nell’originale francese (nel caso particolare pp. 193s). Ancora alla p. 47 Torah Mosheh va corretto in Torat Mosheh, nella trascrizione del titolo ebraico a p. 107, in nota b) ha-Hizoniyym va corretto in ha-Hizonim mentre a p. 217 compare "joudaïsme" invece di judaïsme.

(continua)

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[*] Pubblicato in "Rivista Biblica" (it.) 44 (1996), pp. 455-473 con il titolo: Giudaismo e cristianesimo "falsi gemelli": saggio di antiebraismo teologico e di polemica confessionale antigiudaica. A proposito di due libri recenti di André Paul, CONTRO IL RISORGENTE ANTIGIUDAISMO TEOLOGICO.

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