Giudaismo e Cristianesimo "falsi gemelli" [*]
saggio di antiebraismo teologico e di polemica confessionale antigiudaica.
A proposito di due libri recenti di André Paul

Mauro Perani


1. Il Giudaismo antico e la Bibbia, Edizioni Dehoniane Bologna, Collana di Studi religiosi, traduzione dall’originale francese (Parigi 1987) di G. Cestari e A.M. Cantoni, Bologna 1993.

2. Leçons paradoxales sur les Juifs et les Chrétiens, Desclée, Paris 1992.

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Premessa

Parte I.1 (su Il Giudaismo antico e la Bibbia)

Parte I.2

Conclusioni

Parte II (su Leçons paradoxales sur les Juifs et les Chrétiens)

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Premessa    torna all'indice

Nel compiere la rassegna dei due volumi in esame, tenendo presente anche altri scritti dell’A., sono stato spinto in maniera diretta - come appare del resto anche dal titolo - dall’impressione in me suscitata da alcune affermazioni contenute nelle quali si configura un antiebraismo di stampo teologico che mi è sembrato doveroso evidenziare. L’A. in realtà nel suo approccio ai testi si muove con uno schema ideologico e teologico precostituito, al quale piega i documenti esaminati, non senza fare loro violenza e passando continuamente dal piano dell’indagine storica alla teologia, in un discorso che necessariamente finisce col non avere né rigore storico, né rigore teologico.

Si sarebbe potuto scegliere di discutere e contestare le affermazioni di Paul mantenendosi sul piano esclusivamente storico, ignorando di conseguenza le contaminazioni apologetiche e teologico-confessionali antiebraiche in esse contenute. Allo stesso modo ci si sarebbe anche potuti mantenere su un piano nettamente teologico e contestare le tesi dell’A. riguardo ai rapporti fra giudaismo antico e cristianesimo primitivo, sulla base dei testi neotestamentari e dei documenti del magistero ecclesiastico.

Non ho scelto nessuna di queste due piste esclusive, preferendo lasciare allo storico una più articolata disamina storica delle tesi dell’A. e al teologo una contestazione teologica più dettagliata, anche se di fatto nella mia rassegna non mancano critiche puntuali sia sul piano metodologico, sia su quello storico-letterario e teologico.

La mia scelta è stata determinata dal fatto che spesso Paul piega la sua interpretazione del dato storico alla tesi apologetica che vuole affermare o alla polemica confessionale e ideologica che intende perseguire. Dunque, senza ripetere alla rovescia la sua discutibile contaminazione metodologica, ho voluto semplicemente mettere a fuoco l’antiebraismo soggiacente a molte sue affermazioni, mettendo in discussione al tempo stesso il presunto rigore scientifico delle tesi su cui esso pretende di basarsi.

Scorrendo anche parte della sua precedente produzione, mi pare che questa sua posizione si sia andata accentuando nei suoi scritti più recenti. Può darsi che, soprattutto nella prima delle due opere qui esaminate (anche per il fatto che in larga misura si tratta della riproposta di articoli apparsi negli anni precedenti), Paul non perseguisse in maniera diretta gli obiettivi che a me sembra di rilevare; è comunque fuori dubbio che nelle tesi da lui sostenute sono implicitamente presenti dei nuclei di pensiero che tendono a configurarsi come antigiudaici e possono condurre a posizioni chiaramente antisemite. Ed ora un ultimo accenno preliminare alla questione del metodo, che potrà essere utile per valutare quello adottato da Paul.

Dal punto di vista metodologico oggi gli sviluppi più recenti propongono come primo passo nello studio del giudaismo tra il 300 a.C. e il 200 d.C. una analisi sistemica dei documenti prodotti dai vari tipi di giudaismo, liberandoli dalla struttura dei corpora confessionali in cui essi sono stati tramandati, al fine di comprenderli in se stessi come sistemi di pensiero, all’interno di un esame comparativo sincronico e diacronico con altri documenti, al fine di giungere ad una loro classificazione ideologica quali espressioni diverse e rivali di giudaismi, ciascuna delle quali nasce e si evolve sulla spinta di una diversa idea generativa.

La seconda fase di questa metodologia - messa a punto e illustrata recentemente da G. Boccaccini, Middle Judaism and its contemporary Interpreters (1986-1992): Methodological Foundations for the Study of Judaism, 300 BCE to 200 CE, "Henoch" 15 (1993), pp. 207-234 - consiste in una critica delle fonti che metta in rilievo il modo in cui ogni particolare tipo di giudaismo abbia utilizzato un patrimonio comune, reinterpretandolo e riplasmandolo alla luce della sua originale costruzione ideologica e della propria autocomprensione. Alla fine di questo percorso ritengo che sia possibile una reincorporazione ed una più profonda comprensione del documento stesso all’interno della struttura religiosa che lo ha tramandato e del suo corpus di scritti.

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Parte I.1       torna all'indice

1. Il primo volume presenta l’edizione italiana di un libro di Paul apparso a Parigi nel 1987 e nel quale egli propone una serie di studi - alcuni dei quali già pubblicati altrove - incentrati su alcuni aspetti del giudaismo e del cristianesimo antichi, con particolare riferimento alla Bibbia. I contributi, tuttavia, non sempre mantengono un andamento unitario, spaziando dall’analisi storica e politica a quella socio-culturale, da valutazioni teologiche ad affermazioni di natura confessionale, sicché alcuni non mostrano in realtà una vera pertinenza con il titolo del libro. Come afferma l’A. nella prefazione, il volume vuole essere "una perorazione a difesa della differenza. Differenza tra giudaismo e cristianesimo - egli prosegue - che definerei falsi gemelli" (p. IX).

L’immagine ed il concetto non sono nuovi. Già nel 1960 J. Parkers in The Foundations of Judaism and Christianity, (Chicago, p. xiii) parlava di "due gemelli dizigotici" che, a causa della loro separazione, cercarono fin dall’inizio di delegittimarsi reciprocamente. Nel 1986 Alan F. Segal pubblicava a Cambridge Rebecca’s Children. Judaism and Christianity in the Roman World nel quale parlava di giudaismo rabbinico e di cristianesimo come di due falsi gemelli nati nella stessa epoca e nutriti dallo stesso ambiente, pur avendo lottato fra loro fin dal loro sorgere, come Giacobbe ed Esaù nel ventre di Rebecca, considerandosi entrambi il vero erede della madre, mentre a suo avviso è difficile stabilire quale delle due religioni sia la più antica.

Queste affermazioni negli anni Ottanta, mentre andavano apparendo importanti contributi di J. Neusner e di G. Stemberger, costituivano complessivamente un significativo progresso nello studio del nascente giudaismo rabbinico e cristianesimo. Il libro pubblicato Da Paul nell’’87 letto allora in questo contesto poteva forse apparire in un alone sostanzialmente positivo, pur contenendo molte affermazioni ambigue, comunque più velate e apparentemente meno schierate.

Si poteva insomma pensare che l’accento potesse essere posto in positivo sui gemelli, pur restando valida in secondo piano la precisazione falsi relativa alla loro forte diversificazione. Ma la lettura del volume lascia in realtà trasparire soprattutto la preoccupazione di perorare la causa della diversità, sul che nessuno avrebbe alcunché da ridire se non fosse che viene sostanzialmente ripresa la vecchia tesi dell’esistenza prima dell’era volgare di un giudaismo buono e di un giudaismo cattivo, rispettivamente confluiti nel cristianesimo e nel rabbinismo.

Alla domanda se il background del cristianesimo fosse il giudaismo o l’ellenismo, che nella prima metà del nostro secolo gli studiosi ancora si ponevano, non dico che l’A. risponda optando per la seconda tesi, ma certo dal suo discorso traspare una indiscutibile simpatia per le ascendenze ellenistiche della religione cristiana.

Oggi - come osserva G. Boccaccini, Il medio giudaismo, Genova 1993, p. 36 - c’è ormai un consenso generale tra gli studiosi sulla natura giudaica dell’insegnamento di Gesù e del suo movimento palestinese, mentre molti considerano giudaica anche la prima generazione cristiana e la sua fede messianica in Gesù. Inoltre è accettato che le due tendenze da cui si sarebbero sviluppati cristianesimo e rabbinismo non sono le uniche all’interno del giudaismo - o, come dicono alcuni con Neusner, dei giudaismi - del periodo tardo-antico, pur essendo al suo interno certamente molto importanti.

L’approccio dell’A. allo studio del periodo delle origini cristiane e rabbiniche si pone in continuità con la violenta polemica tra queste due religioni, che per secoli ha caratterizzato e fortemente condizionato sulla base di schemi confessionali la comprensione storica. Se, ad ogni modo, alcune tesi potevano in questo primo libro rimanere in una certa misura più sfumate ed implicite, esse vengono svelate nella loro reale portata alla luce del secondo volume del 1992 in cui l’approccio confessionale ed antiebraico dell’A. si manifesta in maniera del tutto scoperta. Ma torniamo all’esame de Il giudaismo antico e la Bibbia.

Delineando nell’introduzione oggetto e metodo dello studio di quello che egli chiama giudaismo antico, Paul - teologo e storico che ha al suo attivo diverse pubblicazioni nel campo del giudaismo e del cristianesimo antichi - pone come eventi che lo delimitano cronologicamente nientemeno che l’esilio babilonese (sec. VI a.C.) e il sorgere dei grandi commenti talmudici come quello di Rashi in Occidente (sec. XI) e la fine dell’esilarcato in Oriente (sec. XII). "Penso - afferma a p. XXI - che il giudaismo antico abbia inizio con l’esilio a Babilonia e, procedendo sempre in avanti, abbracci il periodo talmudico e quello dei primi commenti al Talmud".

Già questa delimitazione cronologica mi pare inaccettabile, poiché non si capisce come si possa parlare di giudaismo antico ancora al volgere del Medioevo, agglomerando in una sola definizione un coacervo di epoche, tendenze, culture, concezioni e movimenti tanto diversi ed eterogenei fra loro: il risultato non può che essere una schematizzazione semplicistica ed un livellamento che poco giovano alla comprensione storica, ingenerando anzi, come vedremo, una serie di equivoci fonte di grave confusione in ambito storico, sulla base di una tesi teologica preconfezionata.

Mi pare più corretto parlare con Neusner e Stemberger di giudaismo classico o rabbinico per il periodo che va dal 70 d.C. al 1040, di cui i primi quattro secoli costituiscono il periodo formativo (formative Judaism); oggi, inoltre, è sempre più accettata la designazione di antico giudaismo per il periodo che va dal VI al IV sec. a.C. e di medio giudaismo per i secoli III a.C.-II d.C. seguendo la terminologia di Boccaccini. In alternativa resta corretta la designazione di giudaismo del secondo tempio per il periodo che va dal VI sec. a.C. al I d.C., adottata ad esempio da P. Sacchi.

L’imprecisione contenuta nella definizione di giudaismo antico sarà continuamente all’origine di un errore di prospettiva storica che rende equivoca l’affermazione per cui il cristianesimo costituirebbe un sistema totalmente diverso ed autonomo rispetto al giudaismo, con il quale non avrebbe nulla da spartire: ora, se si tratta del giudaismo antico nell’accezione corretta del termine, ciò non è affatto vero, poiché, al contrario da esso il cristianesimo deriva come uno sviluppo particolare della tendenza messianica e della linea apocalittico-escatologica; senza il giudaismo dell’antico Israele e quello del secondo tempio, fino al periodo contemporaneo a Gesù, il cristianesimo non solo non sarebbe storicamente pensabile, ma non esisterebbe neppure.

"Il primo cristianesimo - come osserva M. Pesce, Il cristianesimo e la sua radice ebraica, Bologna 1994, p. 91 - ha conservato l’ebraismo e ha ebraizzato i gentili". L’affermazione resta vera in rapporto al giudaismo rabbinico che si è sviluppato contemporaneamente al cristianesimo in una netta differenziazione reciproca. Ma l’A. passa spesso dall’uno all’altro giudaismo.

La rilevata imprecisione terminologica genera dei giudizi inesatti, tra l’altro chiaramente venati di una preoccupazione teologico-apologetica nei confronti del cristianesimo. Come l’affermazione che apre la prima parte e che suona così: "A quanto pare, il giudaismo antico fu molto più biblico prima della comparsa del cristianesimo che dopo. (...) La rivendicazione dei cristiani di essere sia i testimoni di fronte a Gesù Cristo, sia gli operatori, con la redazione del Nuovo Testamento, del compimento delle Scritture, fu di certo una delle motivazioni maggiori" (p. 3).

Innanzitutto qui l’A. passa ad intendere per giudaismo antico qualcosa di diverso dalla definizione che ne aveva appena dato, ossia il giudaismo fino alla fine del I secolo della nostra èra; in secondo luogo è assolutamente discutibile l’affermazione stessa che con la distruzione del tempio il giudaismo diventi meno biblico, tra l’altro perché - è la tesi implicita di Paul - la Bibbia sarebbe stata monopolizzata, nonché portata a compimento dal cristianesimo.

A parte la natura teologica e confessionale di un simile giudizio, allo storico parrebbe esattamante il contrario. Innanzitutto fino agli ultimi secoli prima di Cristo non è che il giudaismo sia "più biblico", ma semplicemente produce la stessa Bibbia, evidentemente quei libri che, grosso modo, diventeranno l’Antico Testamento dei cristiani.

Dopo la catastrofe del 70 il giudaismo certamente ripensa radicalmente la sua identità e si ridefinisce sempre più come giudaismo della Torah - nella duplice forma scritta e orale - e quindi una religione che, avendo perduto il sistema-tempio e tutte le strutture religiose su cui si era retta per secoli, avendo vissuto laceranti delusioni per il vanificarsi delle speranze messianiche di riscatto, si concentra tutta attorno alla sola cosa che le è rimasta, ossia proprio la Scrittura, tanto da essere definita religione del Libro, un concetto che certo non si addice al giudaismo prima del 70.

Che il giudaismo rabbinico si formi come commento alla Torah ed alla Scrittura mi pare fuori dubbio: così nascono la Mishnah, i Midrashim halakici ed aggadici, la Gemara dei due Talmudim. Certamente si tratta di una rilettura delle Scritture alla luce dei concetti fondamentali che delimitano l’autocomprensione che il giudaismo della duplice Torah ha di sè o, meglio, di sè va elaborando, in maniera del tutto analoga alla rilettura che degli stessi testi compie il nascente cristianesimo alla luce del messia di Nazaret figlio di Dio venuto nella carne, morto, risorto e atteso per la fine dei tempi. Ma non si potrà dire che il giudaismo rabbinico sia "meno biblico" per il ricorso alla Torah orale, più di quanto non lo si possa dire anche del cristianesimo per il ricorso al concetto chiave del Messia crocifisso-salvatore e a tutta la elaborazione concettuale neotestamentaria.

A meno che non si parta, appunto, dal postulato confessionale che la "vera Bibbia" è quella cristiana, composta da Antico e Nuovo Testamento. Peraltro, se è innegabile nel giudaismo rabbinico una particolare attenzione verso la halakah, sappiamo che questa linea non è l’unica, ma convive con quella del commento biblico non halakico e con quella della mistica, mentre oggi viene giustamente rifiutata la sua definizione come "giudaismo normativo".

Resta comunque difficile, se si prescinde da giudizi teologici e da argomentazioni dettate dalla propria adesione a questa o a quella religione, stabilire quale dei due sviluppi sia più o meno biblico, il che equivale a dire il migliore. Si potrebbe dire di ciascuno dei due che è più biblico dell’altro in modi e forme diverse, ma da un punto di vista scientifico semplicemente la domanda non ha senso.

Scrive al riguardo Neusner: "Proprio come il cristianesimo rilegge l’intera eredità dell’antico Israele alla luce della ‘resurrezione di Gesù Cristo’, così il giudaismo [rabbinico] interpreta le Scritture ebraiche come una parte, quella scritta, dell’ ‘unica Torah di Mosè, nostro maestro’. L’antico Israele non fornisce testimonianze a favore della Torah orale, fissata nella Mishnah e negli scritti rabbinici successivi, più di quanto non faccia di Gesù in quanto Cristo. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a circoli religiosi che, nell’ambito del giudaismo della tarda antichità, rileggono tutto il passato alla luce della loro coscienza e delle loro convinzioni" (Judaism and Scripture: The Evidence of Leviticus Rabbah, Chicago - London, 1986, p. XI).

D’altra parte l’affermazione sopraccitata dell’A. pare in contrasto con quanto egli stesso afferma poche pagine più avanti a proposito del Midrash: "L’autentico midrash (...) è praticamente nato dopo il 70. Fino ad allora, infatti, solo di rado la Scrittura costituiva la forza spirituale centrale della comunità giudaica. In primo luogo e al di sopra di tutto c’era il tempio con il sacerdozio e le sue tradizioni..." (p. 21).

La prima parte del volume è dedicata a Rabbinismo, qumranismo e caraismo. A parte l’affermazione discutibile relativa alla "superiorità" nel giudaismo rabbinico della tradizione (Torah) orale su quella scritta (p. 10) e l’approccio nell’esposizione della halakah come "sapienza del possibile" incentrata sulla polarità fra "Parola divina" e "attività umana" poiché "esiste nella halakah una grande parte umana che la rende possibile" (p. 14), nonché la trattazione della haggadah come "narrazione al quadrato" che, pur partendo dalla Scrittura è "alimento del mondo dei sentimenti" (p. 17), Paul esalta la Torah una e perfetta dei qumraniti, per i quali il Rotolo del tempio, concepito come nuova Torah escatologica, "veniva non ad abolire la legge, ma a darle compimento" (p.33), naturalmente a differenza del giudaismo rabbinico, il quale non solo non dà compimento a nulla, ma si distacca imperdonabilmente dalla stessa Scrittura.

In questo senso vengono contrapposti i qumraniti ai rabbini: i primi "sono dei biblisti nel senso più rigoroso del termine, mentre quelli non lo sono più di tanto" (p. 34). La tesi è così riassunta: Qumran è "un quasi prototipo del modello cristiano"; il cristianesimo ha sintetizzato in sè la posizione di Qumran, per cui "tutto è Scrittura", e quella dei rabbini per cui "tutto è Dottrina (è il significato del termine "Torah"), ossia Tradizione. Ora il cristianesimo afferma l’esistenza e della Scrittura e della Tradizione come realtà distinte ma necessariamente collegate" (p. 35). Il che sarebbe come dire che il cristianesimo non solo è il vero giudaismo della Scrittura, ma è anche al tempo stesso il vero giudaismo della Tradizione orale: al giudaismo rabbinico non resta più nulla. Inutile pensare ad una analogia anche per il giudaismo rabbinico tra Torah scritta-Scrittura e Torah orale-Tradizione!

Ci sarebbe molto da dire sull’affermazione per cui Qumran sarebbe "un quasi prototipo del cristianesimo". Come conciliare con quest’ultimo il marcato dualismo essenico che P. Sacchi definisce "dualismo a livello degli spiriti"? (Storia del Secondo Tempio. Israele tra VI secolo a.C. e I secolo d.C., Torino 1994, p. 310) oppure con la rigida chiusura settaria della comunità degli eletti o con il rigoroso predeterminismo? con la sua concezione del male inteso come impurità? e con il suo netto orientamento centripeto, per usare un’espressione con cui Paul definisce il giudaismo? Se, certamente, non mancano affinità con il messaggio di Gesù di Nazaret, la comparazione con l’essenismo va fatta in maniera più articolata e complessa.

La natura teologico-apologetica di un simile modo di argomentare diviene ancor più chiara con il rilievo del ritorno alla sola Scriptura ad opera dei Caraiti verso la metà dell’VIII secolo; essi si chiamano "qeraim, letteralmente biblisti (...) La sua [scil. del termine caraiti] traduzione più corretta in italiano è scritturali, vale a dire biblisti" (p. 44s). Dalla presenza nel Talmud dell’espressione tanae Qeryyah, ossia "gli specialisti della Bibbia" e nel Levitico Rabbah dell’altra qerye, ossia "gli esperti della Scrittura", l’A. conclude che "esistevano probabilmente nel giudaismo degli antichi rabbini, taluni elementi precursori di ciò che più tardi si affermerà come caraismo".

Ancora, la tesi di quella che Paul chiama la "qumranizzazione del caraismo" è spiegata col fatto che la scoperta di documenti nei dintorni di Gerico verso l’anno 800, di cui parla il patriarca di Seleucia Timoteo I, riguarderebbe il Documento di Damasco e altri testi qumraniani, "raccolti, circa venti o trent’anni più tardi, dai caraiti appena insediatisi in Palestina e anche a Gerusalemme": così "è come se i manoscritti del deserto di Giuda siano stati riportati alla luce due volte, a più di un millennio di intervallo" (p. 48s).

I caraiti sono elogiati per la loro lotta a difesa dell’autentica Torah, grazie anche alla loro riscoperta dei qumraniti della sola Scriptura, e per il fatto di aver rigettato il rabbinismo, senza poter tuttavia evitare di rimanerne anche profondamente condizionati (p. 50). Se una certa linea di continuità fra i due movimenti esiste certamente, credo che non si dovrebbe dimenticare che accanto alla Scrittura per i settari di Qumran esistono anche altre fonti di conoscenza.

Nella loro ideologia svolge un ruolo importante anche la conoscenza per illuminazione, concessa soprattutto al Maestro di giustizia e da questo rivelata solo ai membri che hanno accettato le verità fondamentali della setta; questi, avendo fede in lui, possono essere liberati dal giudizio. Inoltre, come osserva Sacchi (Storia del Secondo Tempio, cit., p. 300), nel Documento di Damasco si va profilando il concetto di "tradizione garante" costituita da "coloro che conoscono e praticano la giustizia" ai quali esclusivamente l’autore si rivolge.

Nella seconda parte dedicata all’influsso esercitato dal mondo ellenistico sulla nazione giudaica, Paul rileva come la versione dei Settanta sia chiamata per la prima volta Bibbia: essa da un lato sarebbe "la Bibbia autentica dei giudei" (p. 73; ma di tutti i giudei o di quelli di lingua greca?), dall’altro il fatto della traduzione della Torah ebraica in greco non avrebbe nulla da spartire con il fenomeno dei targumim che non sono che il suo falso omologo. Questi "non dipendono dalla scrittura propriamente detta, né sono solidali con una vera produzione letteraria" ma rientrerebbero in un sistema centripeto "con la strutturazione dottrinale dell’ebraico come unica lingua autentica... (...)

Gli scritti che possiamo definire come la letteratura dei giudei dopo il 70, vennero redatti nella maggior parte dei casi in ebraico, e i targumim aramaici non ne fanno parte. (...) Ma la produzione e le funzioni della Bibbia greca dipendono da un sistema del tutto diverso, sistema di diaspora, centrifugo e proto-cristiano".

La realizzazione della versione greca dei Settanta viene definita più avanti "momento sorprendente di apertura e di conversione culturale dei giudei" della diaspora alessandrina (p. 221). Le stesse tesi sono sostenute dall’A. nella relazione La Torah sapienziale a confronto con il mondo culturale ellenistico tenuta alla XXIX Settimana Biblica Nazionale dell’Associazione Biblica Italiana e pubblicata alle pp. 49-70 negli atti della stessa intitolati Sapienza e Torah, apparsi a Bologna nel 1987. Paul esalta Aristobulo che attorno agli anni 180-170 a.C. esprime uno dei momenti migliori "di maturità culturale ... della corrente nazionale giudaica.

Non si tratta più allora di distruggere, di sterminare e quindi di occupare, come lo si era fatto in Canaan al tempo della grande conquista": ahimè, triste esperienza fondante, peccato originale dell’antico Israele, commesso per di più in obbedienza a Dio! tendenza aggressiva e distruttiva perenne dell’inconscio ebraico! Da tutto ciò al tempo di Aristobulo gli ebrei sono salvati dall’apertura alla cultura greca che offre nuovi e migliori canali alla legge di Mosè: "legge depoliticizzata che, grazie al bagno in questo canale ellenistico, andava in qualche modo trasformandosi in Sapienza" (p. 67). Peccato che, proprio negli stessi anni, Gesù ben Sira componga un libro presente solo nella Bibbia greca, appunto il Siracide, nel quale egli, ebreo forse troppo poco proto-cristiano, compie esattamente il cammino opposto, identificando la Sofia con la Torah di Mosè! Lo stesso si potrebbe dire di un altro ebreo della diaspora alessandrina che, scrivendo poco più di un secolo dopo il libro della Sapienza, identifica quest’ultima con una filosofia religiosa della storia capace di cogliere in essa il governo di Dio, ancorandola in tal modo profondamente alle vicende del passato di Israele.

La cultura ellenistica - ma l’aggettivo ellenistico andrebbe usato in maniera meno indeterminata, come osserva giustamente M. Hengel, L’"ellenizzazione" della Giudea nel I secolo d.C., [Tübingen 1991] Brescia 1993, p. 130s - non potrebbe essere esaltata con maggior vigore: meno chiaro è capire da quale penosa chiusura e da quale malvagia cultura essa abbia il potere di salvare i suoi adepti, dato che costituisce una conversione.

Ho sottolineato di proposito l’ultima espressione, poiché mi pare che la vis apologetica raggiunga veramente uno dei suoi apici appunto definendo gli ebrei della diaspora alessandrina che hanno prodotto la Settanta come non dico i precursori dei cristiani, ma addirittura espressione di un modello proto-cristiano!

D’altra parte l’A. in un articolo del 1982 aveva sostenuto che non esiste una Bibbia ebraica. Così scrive in Y a-t-il vraiment une Bible juive? (nel volume miscellaneo "L’Ancien et le Nouveau", Paris 1982): "...composta di un Antico e di un Nuovo Testamento, la Bibbia è un bene esclusivamente cristiano (p. 47). (...) Anche se le sue radici sono ebraiche, la parola Bibbia è un concetto cristiano.

Così, quale che sia la simmetria tra Bibbia e Torah, si può affermare che non c’è alcuna Bibbia ebraica (p. 53)": infatti - conclude Paul - Torah evoca e corrisponde a una nazione, mentre Bibbia evoca e corrisponde ad una chiesa. Ma - ci vien fatto di osservare - oltre alla Torah, l’Israele antico non ha prodotto anche i Nevi’im ed i Ketuvim? E se è vero che nella teologia rabbinica le ultime due parti non hanno la pienezza di autorevolezza della prima, essendone come il riflesso, non costituiscono pure anche per il rabbinismo tutti insieme la rivelazione di Dio, rispettivamente come luce diretta e come luce riflessa?

E al di là del termine di origine greca ta Biblìa, ossia semplicemente "i libri", che cosa si evoca con esso di così diverso dai termini ebraici Miqra’, Sefer, Sefer Torah, Hamesh Megillot, Megillat Ester e, più tardi, Tanak? Oppure quella ebraica non è una Bibbia perché non comprende il Nuovo Testamento? Ma la logica vorrebbe in tal caso che si dicesse che non è un Antico Testamento poiché non possiede un Nuovo, ed infatti non lo è affatto per un ebreo! In questo senso il concetto di intertestamento è scientificamente inaccettabile per definire il periodo compreso fra la chiusura dell’Antico e la radazione del Nuovo, come del resto l’A. stesso riconosce (p. XXII), pur avendo pubblicato in passato un volume che porta questo titolo (Intertestament, Paris 1975).

Si potrebbe poi osservare - come sottolinea E. Norelli, La Bibbia nell’antichità cristiana I, Bologna 1993, p. 12 - che i libri entrati nel Nuovo Testamento non furono composti con la pretesa di essere divinamente ispirati, ad eccezione dell’Apocalisse giovannea, e che Giustino, ancora intorno alla metà del II secolo d.C., nella sua dimostrazione basata sulle Scritture non usa nessun testo estraneo alla Bibbia ebraica. In sintesi l’impressione è che - visto che il discorso è fatto sulla Settanta - non si tratti altro che della solita operazione di "espropriazione" perpetrata contro gli ebrei dei loro libri sacri, comunque li si voglia chiamare, secondo una prassi a cui l’antisemitismo cristiano ci ha abituati da duemila anni!

(continua)

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[*] Pubblicato in "Rivista Biblica" (it.) 44 (1996), pp. 455-473 con il titolo: Giudaismo e cristianesimo "falsi gemelli": saggio di antiebraismo teologico e di polemica confessionale antigiudaica. A proposito di due libri recenti di André Paul, CONTRO IL RISORGENTE ANTIGIUDAISMO TEOLOGICO.

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