«... E dal forte è uscito il dolce»
L’ ambasciatore d’Israele presso la Santa Sede paragona la visita di papa
Benedetto XVI in Terra Santa con quelle di Paolo VI nel 1964 e di Giovanni Paolo
II nel 2000. E cita la frase del Libro dei Giudici per spiegare l’attuale
rapporto tra Stato ebraico e Roma
È utile e gratificante fare una comparazione delle tre visite papali in Terra
Santa, dato che da esse possiamo trarre delle conclusioni sullo stato delle
relazioni bilaterali tra Israele e la Santa Sede.
Nel 1964 la visita di Paolo VI fu la chiara espressione di una politica di non
riconoscimento. La Nostra aetate
non era ancora stata promulgata e lo scopo della visita, al di là dell’atto del
pellegrinaggio, fu l’incontro con il patriarca ecumenico greco-ortodosso
Athenagoras a Gerusalemme. Il risultato, un anno dopo, fu la rimozione della
storica scomunica verso la Chiesa greco-ortodossa.
La visita di Giovanni Paolo II
nel 2000, d’altro canto, era nel quadro delle celebrazioni del Giubileo. La
visita del Papa, preannunciata molto tempo prima, si verificò senza che ci fosse
stato un invito formale.
Fu come se papa Wojtyla si fosse messo in marcia per proprio conto e solo dopo,
bussando alla porta d’Israele, annunciasse: «Sto arrivando, siete in casa?». Il
desiderio personale del Papa aveva annullato ogni obiezione da parte dei suoi
consiglieri e della Chiesa locale. Il programma includeva non soltanto atti di
riconoscimento politico attraverso la visita al presidente d’Israele nella sua
residenza ufficiale a Gerusalemme, ma il suo affetto personale verso gli ebrei
fu visibile quando lui rimase più a lungo di quanto previsto dal protocollo
a
Yad Vashem, parlando con gli ebrei di Cracovia che erano sopravvissuti
all’Olocausto. Il suo gesto sensazionale di chiedere perdono a Dio
davanti al
Muro del Pianto configurò in modo indelebile l’impatto che la sua storica visita
avrebbe avuto in futuro. Al tempo stesso non tutti in Vaticano erano felici di
questo suo gesto che, nelle loro menti, aveva troppe e troppo estese
implicazioni teologiche.
I primi passi operativi per esaudire il desiderio di papa Benedetto, a lungo
coltivato, di seguire le orme del suo predecessore e di realizzare una visita
pastorale e un pellegrinaggio in Terra Santa, furono fatti nel novembre del
2008.
Una delle prime richieste del Papa, dopo essere stato così tante volte
sollecitato verbalmente ad andare, fu di ricevere un invito formale da parte di
tutti i capi di Stato interessati (cioè il re di Giordania, il presidente
d’Israele e il presidente dell’Autorità palestinese). Con questi inviti in tasca
egli stava dando alla sua visita anche una dimensione politica, essendo stato
invitato, appunto, dai suoi colleghi – i capi di Stato. Ciò è servito
principalmente come ennesima conferma del costume della Santa Sede di assumere
una posizione speciale come attore politico. Anche gesti ulteriori che potevano
significare un miglioramento delle relazioni bilaterali con Israele furono presi
in considerazione.
Certamente la visita del 2000 ha funzionato come modello per il programma del
Papa nel 2009. I leggeri cambiamenti intervenuti sono stati non di natura
politica ma piuttosto dovuti a considerazioni logistiche.
Né l’“operazione piombo fuso” né l’affaire Williamson né le elezioni in Israele
o la storica disputa su Pio XII hanno in alcun momento messo in pericolo il
viaggio di papa Benedetto. Le mine potenziali, come la visita alla mostra su Pio
XII al museo Yad Vashem, sono state eliminate in anticipo. Un’iniziativa
fuori controllo del rabbino responsabile del Muro del Pianto, che mirava a
impedire di portare croci durante la visita del Papa, è stata stoppata allo
stato embrionale. I preparativi sono continuati in maniera discreta senza
interruzione. Come è successo in passato, all’inizio i cattolici locali erano i
meno entusiasti di questa visita. Il patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal
ha dovuto fare una campagna a favore. D’altra parte il mondo ebraico si è
mostrato collaborativo e si è unito a Israele nell’accettare le spiegazioni date
dal segretario di Stato Bertone riguardo alla negazione dell’Olocausto
pronunciata dal vescovo Williamson(1). Nella
sua eccezionale Lettera ai vescovi, Benedetto XVI ha espresso ringraziamenti ai
suoi amici ebrei per la comprensione da loro dimostrata, un atteggiamento che,
secondo lui, molti cattolici non erano pronti a manifestare.
Numerosi critici all’interno della Chiesa e del mondo dei mezzi di comunicazione
hanno scrutato ogni mossa di papa Benedetto al fine di poter “celebrare” qualche
altro potenziale incidente. Con questo scenario in mente il successo complessivo
della visita del Papa conta anche di più. La diplomazia vaticana durante il
viaggio si è espressa al suo massimo. La Segreteria di Stato ha provato, per
quanto ha potuto, a coniugare le sensibilità di giordani, israeliani e
palestinesi, ciascuno secondo i propri meriti. Solo le richieste che mettevano
in pericolo gli interessi specifici del Vaticano sono state nettamente
rigettate.
Per Israele la visita di Benedetto XVI ha avuto un’importanza storica, e non
semplicemente perché essa ha avuto luogo. Israele tiene l’attuale Papa in grande
considerazione come vero amico degli ebrei, come pure stima il dialogo tra le
fedi che insieme a noi il Papa promuove. Ci sembra che la sua visita abbia ormai
dato vita a una tradizione grazie alla quale qualunque pontefice in futuro potrà
visitare la Terra Santa e Israele. Il programma di Giovanni Paolo II
probabilmente rimarrà come modello per le visite a venire.
Ma le dichiarazioni
di papa Benedetto durante la sua permanenza alimenteranno le nostre relazioni
future per lungo tempo. Le sue chiare parole contro la
negazione dell’Olocausto
e a favore della lotta all’antisemitismo, ma ancor più il suo
impegno al dialogo
con il “fratello maggiore” nello spirito della Nostra aetate, noi
speriamo raggiungeranno anche le comunità cattoliche nel Terzo mondo.
Così, avendo in mente ciò che è successo nell’ultimo anno, possiamo spiegare lo
stato attuale delle nostre relazioni bilaterali con l’indovinello di Sansone
tratto dal Libro dei Giudici (14, 14): «… E dal forte è uscito il dolce».
© Copyright 30Giorni luglio 2009
(1) È bene sottolineare come il 'caso
Williamson' nasca da una montatura artatamente costruita, anche e forse non
solo, per creare difficoltà alla regolarizzazione canonica dei Lefebvriani e di
come quelle dichiarazioni - riduzioniste e non negazioniste - non appartengano
ai cristiani, ma siano appannaggio di una minoranza di persone, rappresentino
una opinione personale su un fatto storico e non vadano ad intaccare nessun
dogma di fede né ebraico né cristiano.