La
bilancia dell'esistenza
Commemorazione di Sophie e Hans Scholl
Christoph Probst, Alexander Schmorell, Willi Graf e Prof Dr. Huber
Nella foto: Hans e Sophie Scholl e
Cristoph Probst
Può essere interessante scoprire
che nell’opposizione al Terzo Reich confluirono i principali filoni
del cattolicesimo tedesco di inizio ’900: l’associazionismo
caritativo, la teologia 'sociale' di Guardini e i difensori dello
Stato di diritto come Von Galen
Miei gentilissimi
ascoltatori!
Ringrazio i familiari e gli amici delle persone
nel cui nome ci siamo riuniti per la fiducia che mi hanno accordato,
chiedendomi di pronunciare qualche parola di commemorazione.
Si può ricordare un uomo soltanto dicendo come
in verità egli è stato; ma ci sono strade diverse per giungere alla
verità della sua vita.
La prima via è quella di tentare di
comprendere, sotto la guida dell'amore e la vigilanza della riflessione,
la sua personalità e il percorso della sua vita, spingendosi sempre più
a fondo in ciò che gli è proprio, fino a quando il suo essere ne
risulta alla fine chiaramente illuminato. Non posso percorrere questa
via, non avendo conosciuto di persona gli uomini di cui oggi onoriamo la
memoria; e gli appunti e i racconti non possono sostituire ciò che solo
l'incontro vivo può rivelare.
C'è però un'altra via, ed è quella di
domandarsi quali idee essi hanno servito e da quali valori si sono
sentiti obbligati ad agire. Anche questa via conduce alla verità della
loro vita; così, infatti, è l'uomo: vive di ciò che è fondamentale
ed eterno, come di ciò che è individuale e temporale, ovvero lo
tradisce e lo trascura e ne è poi condizionato. Questa è la via che
cercherò di seguire. Anche se il mio discorso non si soffermerà a
lungo sulle persone in quanto tali, lo sguardo resterà tuttavia
costantemente rivolto a loro. E io spero che dalle cose che devo dire
cadrà una luce chiara sul loro essere e sul loro agire e lo rischiarerà,
così come la nostra esistenza confusa può essere rischiarata soltanto
dall'eterno.
Su quale bilancia si pesa la vita di un uomo?
Secondo quale ordine si tirano le somme, da cui risultano il guadagno e
la perdita di questa vita, e appare chiaro il suo senso ultimo? Di
fronte alla natura non si può parlare di bilancia, perché tutto va
come deve andare secondo la sua legge intrinseca. Ma nell'uomo l'agire e
l'essere sono affidati alla libertà, e libertà significa che si può
fare qualcosa di giusto, ma anche di sbagliato, che si può preservare
qualcosa ma anche che qualcosa si può corrompere. Qual è dunque la
bilancia, e quale l'ordine?
II
Ci sono diverse bilance e diversi ordini, a
seconda dell'ambito dell'esistenza.
Un primo
ordine si riferisce alle cose materiali. Il termine non è usato in senso spregiativo, perché le cose sono
affidate all'uomo affinché egli le usi rettamente, per il proprio
benessere, come anche per realizzarne l'intrinseca finalità. In questo
ordine troviamo l'ambito ristretto in cui l'uomo «viene al mondo» e
prende posto in esso, ossia la casa, il cui governo risiede anzitutto
nella cura e nell'uso delle cose.
Fuori della casa l'uomo entra nella
professione: anche il lavoro si rivolge prevalentemente alle cose, alla
loro acquisizione e utilizzazione. Lo stesso vale ancora per la comunità
e per lo Stato: le cose costituiscono il fondamento e l'impalcatura
della loro esistenza. In massima parte la vita dell'uomo è una
relazione con le cose e in questo ambito l'ordine è quello della retta
amministrazione.
Questa si caratterizza per la responsabilità che
l'uomo esercita nei confronti della propria esistenza e dell'esistenza
altrui, entrambe bisognose di molte cose, e per sua personale
responsabilità nei confronti delle cose stesse; perché l'uomo è
responsabile anche se spesso ritiene di poter fare con le cose ciò che
gli dettano l'arbitrio e la volontà di potenza. C'è un atto di accusa
che si leva dalle cose di cui si è fatto abuso. Le Lacrimae rerum di
cui parla Virgilio lacrime della creatura che patisce violenza, sono più
vere di quanto sospetti la superficialità della vita quotidiana. E c'è
una vendetta delle cose di cui si è abusato, una vendetta che non si
lascia facilmente scorgere in ogni suo singolo atto perché si compie
seguendo binari nascosti e attraverso movimenti impercettibili. Ma la
percepiamo nel sentimento inquietante che ci assale quando le relazioni
economiche e sociali non sono in ordine, fino al momento in cui questa
vendetta non si manifesta in catastrofi che nessuno può più ignorare.
Le azioni vengono pesate sulla base di quest'ordine.
Si misurano sull'onestà, sulla fedeltà e la prudenza, virtù poco
appariscenti, faticose ma fondamentali per la vita. San Benedetto da
Norcia, che è stato definito il padre dell'Occidente perché appartiene
alla schiera di coloro che salvarono l'eredità del mondo antico e
imbrigliarono il caos delle migrazioni dei popoli dandogli una nuova
forma, nel capitolo 31 della sua Regola dice che il cellerario,
che presiede agli averi e ai beni del monastero, deve considerare le
cose quasi vasa altaris, come i calici del culto divino.
In
queste parole non vi è certo una sopravvalutazione delle cose
possedute: sono parole, infatti, che stanno nella stessa Regola che
conduce quanti la seguono al distacco estremo dalle cose. Il loro
idealismo, piuttosto, esprime il senso della realtà tipico dell'uomo
romano, che sapeva che solo la coscienziosità quotidiana può fondare
l'ascesi, per poter raggiungere davvero l'altezza dello straordinario.
Tutto questo si avvicina molto alla nostra situazione contemporanea,
perché di nuovo la «forma» di un'epoca vacilla, e l'uomo è
abbandonato e la distretta è così grande che nessuno sa come le poche
cose a disposizione possano bastare, secondo le parole del Vangelo, «per
così tanti».
L' ordine delle cose deve essere rispettato in ogni
caso - benché affondi le sue radici in strati più profondi di quanto
si pensi. L 'uomo, infatti, non fa giustizia alle cose materiali
seguendo una concezione puramente materiale. Le cose hanno in sé il
potere di ribellarsi e insorgono contro chi si sottrae alla propria
responsabilità nei confronti dello spirito. Malgrado ciò, l'ordine di
cui parliamo va senz'altro rispettato. Riposa sulla natura del creato,
sulla fiducia e sull'accortezza e si afferma nella prosperità dei
rapporti umani. È qualcosa di grande essere amministratori
dell'esistenza.
Ma da questo punto di vista non ci sarebbe molto
da dire, sulle persone che qui ricordiamo. Non so come si siano
comportati con i loro beni e i loro averi; certo erano quasi tutti
giovani e probabilmente, per un bel libro o una giornata felice,
avrebbero sacrificato ciò che forse sarebbe stato necessario per
mangiare e vestirsi. E non sarebbero stati da biasimare, perché è una
prerogativa dei giovani il poter credere che di fronte allo spirito e
alla vita la razionalità delle cose non abbia alcun peso.
III
Un secondo ordine è quello dell'azione e
dell'opera: dell'azione, che scopre e conquista, intraprende e plasma,
vince la necessità e compie la salvezza; dell'opera, che ordina i
rapporti tra gli uomini, fonda l'autorità e il diritto, produce la
scienza e l'arte. Senza dimenticare ciò che fluisce sempre di nuovo
nella corrente della vita e non si può più distinguere e diviene
chiaro solo nella rivelazione di tutto l'umano alla fine dei tempi:
l'amore in tutte le sue forme, il proteggere e dispiegare, sciogliere e
liberare, aiutare e curare. Tutto ciò proviene dalla forza della libertà,
dalla profondità dello spirito, dalle sorgenti del cuore e, dall'altro
lato, dalle possibilità della storia e dalle esigenze del momento. Ciò
sta in un ordine che dalla semplicità di ogni giorno sale fino
all'altezza dell'eroe e del genio. Nell'ordine della azione retta e
dell'opera pura, si deve fare e agire non come raccomandano l'ambizione
e l'interesse, ma come esige la cosa stessa.
Qui sono richieste altre virtù: il coraggio,
che abbandona il terreno protetto ed esce all'aperto perché sente una
chiamata; la forza di cominciare, che rinuncia alle cose conosciute e ne
osa di nuove, perché qualcosa di dentro la spinge; la prontezza che si
mette a disposizione di ciò che non è ancora, ma che deve essere.
Anche qui c'è un peso sulla cui base viene misurato l'uomo e il suo
agire: se è attento e risponde alla chiamata che giunge dallo spazio
del possibile; se è puro in spirito e non confonde la chiamata con i
desideri egoistici; se è pronto a prendere su di sé le angosce e i
dolori del divenire.
Non è così facile comprendere ciò che avviene
in quest'ambito rispetto all'ambito precedente dove avviene ciò che
deve accadere; qui è in gioco una grandezza che non consiste in numeri,
ma in una nobiltà interiore, che può essere propria di un semplice
gesto e può mancare dove si fanno largo le masse e i milioni di
individui. Ma anche questi eventi hanno la loro ragione, in quanto hanno
il loro ordine. La ragione non è affatto così misera come spesso si
vuol far credere. Essa è vasta quanto il mondo. È la capacità di
riflettere sugli ordini dell'esistenza. Può dunque riconoscere anche
l'ordine dell'agire e del creare, solo che, per questo, ha bisogno di
uno sforzo più onesto e più profondo esponendosi sempre al rischio di
considerare come errato ciò che è inconsueto.
Come è lontana dal comune modo di pensare la
vita di un ricercatore, che dimentica piaceri e salute per trovare una
verità ancora sconosciuta! Come è sensata la sofferenza di un artista,
che si consuma per la sua opera! Come è incomprensibile l'atteggiamento di
chi, chiamato da un'ora della storia, fa ciò che essa richiede, anche se
così soccombe! E come è assurdo per un osservatore indifferente il
comportamento di chi ama, quando un'altra persona gli ha affidato sua vita,
o quando si sente obbligato dal bisogno di chi è stato abbandonato! Anche
qui c'è un ordine più potente di quello delle cose materiali; più
inesorabile nelle sue conseguenze se viene violato, più ricco di frutti
se viene realizzato; un ordine che è immediatamente trasparente solo a
chi già vi appartiene.
Le persone di cui facciamo memoria sono vissute
in questo ordine. Appartenevano al mondo dell'università, un mondo che
è, nonostante tutto, uno dei mondi più nobili che esistano, perché ha
degli obblighi solo nei confronti della verità. Negli anni scorsi
l'università è stata umiliata. È stato corrotto il suo rapporto con
la verità e con ciò la sua essenza è sta distrutta. È stata ridotta
a strumento al servizio di fini politici. I fratelli Scholl e i loro amici volevano che l'università ridiventasse ciò che deve essere: una
comunità che vive nella dedizione alla verità, e per questo hanno
osato tutto.
Ma oltre a ciò, ad essi importava l'onore del
popolo tedesco, la sua vita spirituale, la sua vocazione autentica. Per
questo si sono ribellati contro il degrado e la distruzione causata al
popolo da quelli che si proclamavano le sue guide, e la loro azione,
impotente se considerata da un punto di vista realistico, forse perfino
folle, porta in sé questo significato ed è assurta a simbolo della
nobiltà umana.
IV
Abbiamo
parlato di due ambiti di vita: quello delle cose e del loro ordine, che
si realizza nella fedeltà di un lavoro di «amministrazione»; e quello
dell'agire creativo e del suo ordine, che si realizza nell'obbedienza
alla chiamata interiore. Entrambi gli ordini hanno i loro problemi e le
loro necessità. Tanto più è difficile comprenderli, quanto più
grandi diventano i loro compiti; ma nonostante ciò si possono
comprendere a partire da loro stessi, perché hanno il loro fondamento
nell'essenza delle cose e della vita. In questo trovano anche la loro
garanzia, e chi realizza questo ordine si fonda su questa garanzia. C'è,
però, ancora un altro ordine, che non è fondato nel mondo e nella
vita; che non è garantito da queste realtà e che perciò non si può
comprendere né giustificare a partire da esse. La sua origine è nel
cuore di Dio.
Un tale ordine è stato portato nel mondo per mezzo
di Gesù Cristo. In Lui si fonda il suo senso, e solo a partire da Lui
può essere riconosciuto. Si potrebbe obiettare che queste cose qui non
c'entrano; ma noi dobbiamo parlare della verità, di cui le persone che
ricordiamo hanno vissuto, e il cuore di questa verità è qui.
Contraddiremmo la loro stessa volontà, se non ne parlassimo.
Allora
dobbiamo parlare di Cristo e dobbiamo domandarci, come dobbiamo
considerare Cristo stesso, affinché ci divenga chiaro l'ordine che Egli
ha fondato. Cristo non è un «grande» nell'ordine dei «grandi uomini»,
non è nemmeno il «più» grande di tutti, ma è Colui nel quale Dio è
venuto tra gli uomini. Ed è venuto non come Egli viene in ogni cuore
nobile, in ogni spirito elevato, ma in un modo che rivela già da sé
la totale alterità che qui è in gioco: la rivela - per usare una
parola che Egli stesso ha pronunciato - fino allo scandalo. In Cristo il
Figlio di Dio, che non ha bisogno di nulla e che non è determinato da
alcuna necessità, è entrato nell'orizzonte del tempo e si è fatto
uomo. E ha fatto questo per ricondurre al Padre nell'amore del suo cuore
il mondo che si era perduto e per guidarlo verso una nuova vita.
Non c'è
qui grandezza in senso naturale; né l'audacia dell'eroismo umano né il
mistero della creatività terrena. Si sbaglia del tutto, se si usano
criteri derivati dalla nostra esistenza immediata. Qui c'è qualcosa la
cui essenza può essere compresa solo da se stessa: l'atto dell'amore.
Non quell'amore di cui parlano filosofi e poeti, si chiamino Platone o
Dante, ma un amare che comincia in Dio e fa sì che l'Eternamente
Compiuto - che sarebbe ciò che Egli è anche se non ci fossero né il
mondo né gli uomini - si offra per elevare l'uomo nella Sua propria
vita. Se uno dice di comprendere questo, esamini pure se stesso: forse
non sa nemmeno di che cosa parli. La comprensione autentica comincia con
l'inquietudine provocata dall'inaudito. Si fa poi strada nella
cognizione che questa realtà apparentemente priva di senso costituisce
il senso ultimo di tutte le cose. Infine si compie nell'abbandono della
fede in ciò che supera ogni realtà terrena.
Questo si è compiuto per opera di Gesù
Cristo e si è compiuto in modo tale da dare inizio ad una nuova
esistenza. La fede significa collocarsi in questo inizio: considerare il
sensus Christi come quello vero; accogliere la realtà che Egli
annuncia come quella definitiva; perfezionare, nella propria vita, la
propria forza con la forza che Egli stesso dà.
Nel nocciolo più intimo di questa vita sta il
sacrificio. Di nuovo, però, dobbiamo distinguere, e Voi non dovete
risparmiarvi questo continuo esercizio del dire «non così, ma così».
Perché per gli uomini che oggi ricordiamo il discernimento delle cose
essenziali era un proposito importante. Erano impegnati a superare la
sconfinata confusione dei concetti, il terribile travisamento e
imbrattamento dei valori spirituali che si insinuava ovunque, tesi a far
emergere le essenze nella loro nuda verità e a ristabilire gli ordini
dell'esistenza così come essi sono veramente. Per questo deve essere
anche chiaro che cosa significa «sacrificio» in questo ambito, qui
dove ci avviciniamo all'interiorità più profonda.
Di certo nessuna
grande azione, nessuna opera autentica, nessuna relazione umana sincera
è possibile senza che l'uomo vi arrischi ciò che è suo. Ma il senso
di una tale donazione sta nell'essenza stessa della vita, è fondata
nella legge del «muori e divieni», e anche l'estrema spoliazione trova
qui una giustificazione ed una assicurazione. Ma la donazione, che guida
la vita di Gesù e che si compie nella sua morte, è qualcosa di
diverso. Cristo sta nell'esistenza terrena e contemporaneamente al di
fuori di essa, sta insieme tra tempo ed eternità, e là, nell'ultima
solitudine, responsabile solo verso il Padre e riconosciuto solo da Lui,
porta a compimento il destino del mondo. È il sacrificio di Cristo
quello che il credente, ognuno a suo modo e secondo la sua misura, deve
compiere nella propria vita.
Da questo sacrificio il credente ottiene una libertà
estrema, ormai inattaccabile. Nessuno oserebbe compiere un'azione il cui
fallimento fosse assolutamente certo, perché la giustificazione di ogni
azione sta, in ultima istanza, proprio nell'efficacia ch'essa realizza
nella struttura della vita e nel corso della storia. Nessuno
comincerebbe un'opera, se fosse certo che questa non possa riuscire:
quale creazione, infatti, è quella che non può compiersi? Ogni agire e
ogni creare dipende dunque dalle possibilità, che il mondo e la vita
gli danno, e resta legato ad esse.
Quel sacrificio, invece, che il
credente compie in unità d'intenzione con Cristo, spera certo anch'esso
di poter avere la sua efficacia nella vita immediata - come potrebbe
rinunciare a questa speranza? - ma non dipende dalla sua realizzazione,
perché il suo senso autentico è riposto altrove. Può fallire, può
restare nella congiuntura dell'esistenza privo di ogni effetto
riconoscibile, può tramontare nell'oscurità dell'ignoto - tutto ciò
non toglie il suo senso proprio. In ultimo questo sacrificio è compiuto
davanti a Dio solo, è affidato alla Sua sapienza ed è rimesso nelle
Sue mani, affinché Egli lo inserisca nel grande conto del mondo, dove
Egli vuole.
Non si può capire questo comportamento partendo
solo da presupposti terreni, né da un'etica del disinteresse né da una
filosofia della creazione e della storia. Vive della fede nel nuovo
inizio, che si è aperto in Cristo e che è «scandalo e follia», come
il Suo stesso agire è stato.
In verità questo agire sostiene l'esistenza
umana. Rispetto all'individualismo dell'epoca precedente, abbiamo
imparato che cosa significa comunità, anche se forse non ne sappiamo
ancora abbastanza. Essa penetra nel profondo, più di quanto
generalmente percepiamo. C' è il legame che trae origine da tutta la
nostra dipendenza dalle cose materiali. Se lo dovessimo aver
dimenticato, la distretta di oggi, in cui ne va della vita stessa, ci
riporta vicino a questa realtà in un modo che non si può ignorare.
C'è poi il legame costituito dal tessuto delle
azioni e delle opere. Di nuovo è proprio il nostro tempo che ha
insegnato a tutti coloro che vogliono imparare, come l'azione del
singolo diventa destino per tutti, nel male, ma anche, grazie a Dio, nel
bene. Per ciò che concerne le opere dello spirito, della conoscenza,
dell'ordine e della bellezza, queste sono nutrite dalle correnti che
sgorgano dalla vita di tutti e a loro volta divengono sorgenti pronte a
colmare ogni calice che si tenda verso di loro.
Poi però c'è ancora un'altra, ultima comunità,
che nasce dall'azione di Cristo, di cui abbiamo parlato. La fede
significa affidarsi a questa comunità; l'amore significa sostenerla con
la vita. Essa scorre, sottratta all'esperienza quotidiana, sotto la
nostra esistenza. Nessuno sa, da quali vittorie tragga forza. Nessuno può
dire dove è stata sofferta la liberazione che conduce la sua vita alla
libertà. E nessuna conoscenza scientifica può stabilire sulla base di
quali espiazioni di un' epoca viene concessa la grazia di un nuovo
inizio, di cui essa poi approfitta come se fosse un fatto naturale.
Nella profondità di questa comunità hanno tratto
origine i motivi ultimi, che hanno determinato la vita di coloro di cui
onoriamo la memoria. Non si deve pensare con questo a nulla di
eccezionale. Erano persone normali, che vivevano intensamente la loro
vita; gioivano delle cose belle che la vita regalava loro, e
sopportavano le difficoltà imposte. Guardavano diritto al futuro,
pronti all'opera buona e fiduciosi nelle promesse che la giovinezza
porta con sé. Ma erano cristiani per convinzione. Stavano nello spazio
della fede, e le radici della loro anima affondavano in quelle profondità
di cui si è parlato. Non è nostro compito indagare in che modo siano
affiorate alla loro coscienza le interpretazioni ultime. Che sia
successo, sia pure in modo velato e indiretto, è sicuro.
Di certo hanno lottato per la libertà dello
spirito e per l'onore dell'uomo, e il loro nome resterà legato a questa
lotta. Nel più profondo hanno vissuto però nell'irradiazione del
sacrificio di Cristo, che non ha bisogno di alcun fondamento
nell'esistenza immediata, ma sgorga libera dalla fonte creativa
dell'eterno amore.
"Viva la libertà" - Monaco, 12 luglio 1958
I
Signore e signori!
Celebriamo oggi il completamento dei
lavori dell'atrio della nostra università. Quest'atrio non è
semplicemente il locale ampio e spazioso in cui si incontrano docenti e
discenti. È qualcosa di più. È un luogo che suscita gravi pensieri;
perché qui, come il Magnifico Rettore ci ha prima ricordato, si è
consumato un evento che quindici anni fa ha segnato con una tragica
svolta la vita di sette appartenenti a questa università - il professor
Kurt Huber, gli studenti Sophie e Hans Scholl, Christoph Probst,
Alexander Schmorell, Willi Graf e Hans Carl Leipelt.
Lassù, dal parapetto del primo
piano, Sophie e Hans Scholl hanno lanciato i loro appelli: l'ultima
espressione della lotta per la libertà condotta dal loro gruppo di
amici. Sapevano che al loro gesto doveva seguire la cattura. E questo,
infatti, fu ciò che accadde, e la fine per tutti loro fu la morte. Un
piccolo evento tra innumerevoli altri in quegli anni, che hanno avvolto
la Germania in una profonda oscurità, quando sembrava non aver più
valore né il diritto, né la verità, né la libertà.
Per questo la celebrazione del completamento dei
lavori di questo atrio ha trovato il suo senso più profondo
nell'inaugurazione del monumento dedicato a coloro che hanno
testimoniato con la loro vita quell'aspirazione alla libertà, che
rendeva ai loro occhi l'esistenza degna di essere vissuta. Ma
quell'aspirazione alla libertà costituisce anche il fondamento di tutto
ciò per cui la nostra università deve esistere, fino a che essa vuole
essere degna del proprio nome.
II
Dal
racconto della sorella abbiamo appreso che le ultime parole pronunciate
da Hans Scholl prima di morire sono state: «VIVA LA LIBERTÀ!». Per
lui queste parole contenevano il senso e la giustificazione del suo
agire per noi sono un testamento, e dobbiamo riflettere su che cosa esse
significano.
Quelle parole sono state dette in un'epoca di oppressione e oscurità, un'oppressione e un'oscurità di cui le
persone che oggi sono più giovani - devo aggiungere: in Germania
Occidentale - non hanno la minima idea. Molte persone più avanti con
gli anni hanno però dimenticato tutto questo, altrimenti alcune cose
andrebbero diversamente. In quelle parole veniva affermato il diritto a
qualche cosa che costituisce il fondamento dell'intera esistenza
europea: il diritto alla libertà - ma alla libertà di tutti; così che
la libertà dell'uno trova la propria misura nella libertà dell'altro.
«Libertà»
significa che l'uomo ha la possibilità di formarsi le proprie
convinzioni, di esprimerle e di vivere in modo conforme ad esse;
significa la garanzia dell'inviolabilità della propria casa; significa
il diritto a scegliersi il lavoro e la professione seguendo la propria
volontà; ad acquisire una proprietà e ad averne tutelato il possesso.
Questi sono i diritti elementari dell'uomo; così
evidenti per un giovane che oggi raggiunge la maggiore età, che solo a
fatica egli riuscirebbe a concepire una realtà diversa. Queste sono le
libertà che sono state realizzate dal corso dell'intera storia europea,
fino al momento in cui questa storia esaltò se stessa, al di là di
ogni limite, nell'idea dell'autonomia e - conseguenza intrinseca questa,
su cui si sorvola volentieri - si rovesciò nella schiavitù della
dittatura.
Contro questa schiavitù sono insorte le sette
persone di cui oggi celebriamo la memoria. Essi hanno affermato il
diritto dell'uomo alla libertà e lo hanno testimoniato con la loro
vita.
III
Dobbiamo però spingere più a fondo la nostra
riflessione sulla libertà, perché raramente una parola è stata usata
in modo peggiore ed è stata corrotta più a fondo.
In qualsiasi modo si voglia definire l'essenza
della libertà, in ogni caso essa esprime la realtà di fatto - una
realtà che si presenta come evidente all'esperienza interiore benché
il pensiero non possa risolverla ulteriormente - che l'uomo non è
soltanto un trasformatore di energie, ma è initium, inizio; che
l'uomo ha iniziativa, nel senso che ha, al proprio interno,
un'originaria forza di «iniziare»; e che per questo deve rispondere di
ciò che fa in quel modo specifico che è la responsabilità. Con
questo l'uomo trascende tutte le modalità con cui nelle altre realtà
naturali l'energia diventa attiva. Egli è persona; ma ciò è qualcosa
di grande e gravido di destino. Voi conoscete le parole, con cui il coro
nella prima scena dell'Antigone esprime il brivido esistenziale
di fronte a questa grandezza: «Molte cose nel mondo ispirano sgomento;
ma nulla più dell'uomo».
Una tale forma di esistenza è impossibile per
un essere che si risolve completamente nell'ambito della natura. Questa
possibilità è data però all'uomo, perché egli è in relazione con
qualche cosa che supera l'ambito della natura, qualche cosa che mette
l'uomo nelle mani dell'uomo stesso vincolandolo alla norma etica: Dio.
Dio si fa strada nella consapevolezza dell'uomo; questa realtà, che è
inseparabilmente legata alla libertà e che, come la libertà, non può
essere affatto dissolta sul piano psicologico o su qualche altro piano,
noi la chiamiamo coscienza. Non c'è nessuna libertà senza coscienza -
tanto meno può esserci coscienza, responsabilità morale in un essere
che non è libero.
Solo chi sa di essere vincolato dalla verità,
ha delle opinioni proprie e delle parole proprie. Solo chi rispetta
l'inviolabilità della sfera personale altrui, ha diritto
all'inviolabilità della propria. Solo chi vede nel lavoro e nella
professione non soltanto un mezzo per guadagnare denaro, ma il modo in
cui compiere la propria opera responsabilmente nei confronti del tutto,
può scegliere la propria strada in modo giusto.
Solo chi acquisisce
rettamente la proprietà e riconosce quella degli altri, ha diritto ad
essa. In una parola: soltanto colui che, come ha detto Kierkegaard, sta
ritto in se stesso, ma davanti a Dio, può esistere come persona.
Se queste condizioni non sono soddisfatte, la
libertà diventa arbitrio. Ma l'arbitrio è già in se stesso schiavitù
- il fatto poi che si trasformi in schiavitù anche sul piano esteriore,
sul piano storico, su quello politico, dipende solo dalle circostanze.
Non appena scompare dalla consapevolezza questo
«essere di fronte a», la libertà caratteristica della persona non
scompare in quanto tale, perché appartiene alla sua essenza, è la sua
nobiltà e il suo destino, che la persona lo voglia oppure no; ma si
trova in pericolo. E allora ciò di cui parla Sofocle, quel qualcosa
nell'uomo che crea «sgomento», smarrisce ogni freno e norma, e gli
ultimi decenni hanno mostrato ciò di cui diviene poi capace. L 'uomo
finisce per perdere la fede nella sua aspirazione alla libertà, perde
la capacità di affermare questa aspirazione sotto la pressione dell'istinto,
dell'utilità e del potere e allora egli è, di dentro, maturo per la
dittatura.
Sappiamo abbastanza di coloro che oggi
ricordiamo per poter dire che essi hanno inteso la libertà in questo
senso. Hanno incarnato l'ethos della libertà in una generosità e in un
coraggio, capaci di persuadere la mente e di toccare il cuore. Certo, si
può obiettare che sono stati degli idealisti e che avevano
sopravvalutato la disponibilità al rischio che caratterizza la media
delle persone. Si può obiettare che a loro è mancato il senso freddo
della realtà così come la sicurezza della tecnica rivoluzionaria.
Ma
forse proprio da questa mancanza viene la tragica purezza della loro
apparizione. Non hanno avuto alcun successo; la loro impresa è presto
naufragata contro i freddi meccanismi di un potere privo di scrupoli. E
così non sono neppure caduti in tutti quegli intrecci di menzogna e di
ingiustizia, in cui col tempo finisce per decadere ogni attività
rivoluzionaria.
La loro vita risuona come il canto di un'umanità
nobile; e io posso solo consigliare a Voi, cari studenti, di leggere il
libro che Inge Aicher-Scholl ha scritto col titolo «La Rosa Bianca» -
così si chiamavano i volantini del gruppo. Sentirete di che cosa è
fatta un'esistenza segnata, per usare un'espressione di Nicolai Hartmann,
dai valori dello straordinario.
Noi li onoriamo perché erano fatti così
e così agivano, e riteniamo giusto che questo tributo di onore trovi la
sua espressione nel monumento che oggi viene inaugurato.
IV
Ma, ancora una
volta, proviamo a scendere più in profondità - e non tanto
nell'interiorità dei singoli, quanto in quella della storia.
C'è qualcosa che
si potrebbe definire come una profezia storica. In questa profezia
parlano uomini che avvertono le correnti profonde del grande movimento
della storia e vedono la direzione in cui esse vanno. Può succedere così
che questi uomini, ad un dato momento, quando tutti quanti si sentono
tranquilli e sicuri nella condizione dominante, debbano annunciare
la dissoluzione di questa condizione, e il farsi avanti di una nuova
forma di esistenza che preme dal grembo della storia. Pensiamo alle
parole di Jakob Burckhardt; o a quelle più turbolente del suo collega
di allora all'università di Basilea, Friedrich Nietzsche.
Al tempo in
cui vivevano, l'ordine moderno razionalistico-borghese della vita
sembrava prosperare sotto ogni punto di vista e il futuro sembrava
sicuro. Ma essi videro che quell'epoca andava verso la fine e che una
nuova epoca si preparava, anche se essi descrivevano in modo diverso e
la decadenza e le forze emergenti.
Quella era una profezia esplicita; ma c'è
anche, io credo, una profezia nascosta; nascosta non solo a chi la
ascolta, che non capisce ciò che viene detto, ma anche a chi la
pronuncia. Egli annuncia delle cose e compie delle azioni che contengono
più di quanto egli stesso sia consapevole. Così è stato per le parole
che Hans Scholl ha pronunciato prima di morire. Quelle parole sono state
qualche cosa di più della semplice protesta di un cuore grande contro
la violenza che regnava in Germania.
Nel suo significato più profondo,
di cui egli stesso non era ancora consapevole, quel grido di libertà si
dirigeva non solo contro un sistema che viveva di ossessioni di potenza
e di visioni deliranti, ma contro una minaccia assai più forte che già
da lungo tempo si faceva strada. Ciò che avveniva allora sul piano
politico, era la prima forma di espressione di ciò che si preparava su
un piano più profondo della storia. Oggi noi lo vediamo - voglio essere
più prudente: lo vedono coloro che vogliono vedere. È il pericolo di
un asservimento, che proviene dall'opera stessa dell'uomo negli ultimi
secoli.
Le azioni dell'uomo si sono sempre ripercosse sull'uomo stesso.
Possedere è sempre stato un essere posseduto, esercitare-il-potere un
subire-il-potere. Tuttavia, fino ancora alla metà circa del secolo
scorso, il rapporto tra libertà e dipendenza si è mantenuto in una
proporzione che oggi giudichiamo assai felice. Questa proporzione si è
modificata successivamente, e in modo senz'altro essenziale.
Il potere dell'uomo
sulla natura si è concentrato in oggetti da lui prodotti che hanno una
forza mai vista; li chiamiamo macchine. A seconda della loro funzione e
della loro specifica fabbricazione stanno l'una in rapporto all'altra in
un grande sistema di interdipendenze; questo è ciò che chiamiamo «tecnica».
Essa si fonda su una ricerca scientifica in continua crescita e su di
una organizzazione socio-economica che attraversa sia la vita dello
Stato che quella del popolo: questa è ciò che chiamiamo la «società
moderna». È tipico di questa società il fenomeno dell'opinione
pubblica, ossia dell'opinione che non si forma spontaneamente dalla vita
delle persone o dei gruppi, ma viene guidata dalla stampa, dal servizio
d'informazioni, dalla radio, dalla televisione; attraverso iniziative,
programmi, rappresentanze di interessi dei tipi più diversi.
Parallelamente a questa il fenomeno del traffico, in ferrovia, nave,
aereo, automobile, raccoglie tutto ciò che riguarda l'organizzazione,
la propaganda, e tutto il resto.
Tutte queste attività,
strutture e prodotti creano un ambiente che condiziona l'uomo stesso.
Non solo per il fatto che esige da lui le prestazioni
corrispondenti, ma anche perché lo porta ad un atteggiamento spirituale
che si esprime in criteri che stabiliscono ciò che è degno della vita
e in ordinamenti dei valori.
Nasce così un «tutto» che incide
in ogni sfera della realtà: sorge una nuova «forma del mondo», e ciò
significa anche una nuova «forma dell'uomo». Che si tratti davvero di
questo, lo si vede in un momento, difficile da definire, in cui si
lascia riconoscere il segno più caratteristico di una nuova epoca e il
fattore forse più forte della sua autorealizzazione, ossia un suo
proprio stile.
Ciò che Hegel ha definito come «cultura in
senso oggettivo», considerandola come qualche cosa di divino in cui
l'uomo trova la sua realizzazione, si è ora concentrato in modo
preoccupante e si è reso autonomo. È sfuggito all'iniziativa
dell'uomo, sviluppandosi progressivamente e in modo sempre più decisivo
secondo una logica oggettiva di problemi, di scoperte, di costruzioni,
che non va nella stessa direzione della logica della libertà e della
dinamica vitale dell'uomo.
Ora si fa avanti, con allarmante consequenzialità,
qualcosa che è stato presente come possibilità fin dall'inizio in ciò
che chiamiamo «opera dell'uomo», «dominio della natura», «cultura»
nel senso più ampio, qualcosa che però per lungo tempo veniva
riequilibrato nella totalità dell'esistenza. E questo qualcosa cerca
ora di instaurare una nuova legge dell'esistenza, che afferma: l'uomo
non è libero, ma sottostà alle necessità dell'apparato creato da lui
stesso. Deve conformarsi alle esigenze di questo apparato. La sua
struttura personale deve adattarsi a queste. Deve perfino farsi
comprendere dalle apparecchiature che sono state concepite dalla
razionalità e fabbricate dalla tecnica, come sembra rivelare il
fenomeno della cibernetica.
Si forma così un nuovo concetto, che
esprime ciò che è assolutamente proibito e che comprende ogni
tentativo della personalità di far valere la propria essenza, la
propria volontà, la propria esperienza vitale, in quanto distrugge le
funzioni, ossia il dominio stesso dell'apparato: il concetto di
sabotaggio.
Di questa mancanza di libertà l'ordinamento
statale totalitario costituisce l'espressione più evidente. Non
possiamo farci però delle illusioni: anche quelle forme di vita, che
per loro essenza si fondano sulla libertà, minacciano sempre più di
essere caratterizzate dall'appiattimento della personalità. Diciamolo
con uno slogan: c'è un totalitarismo che viene dall'alto, ma anche un
totalitarismo che viene dal di dentro.
Chi guarda attentamente, scopre
nella vita delle democrazie, così apparentemente libera, i sintomi più
preoccupanti di una coercizione indiretta che si esercita attraverso
l'apparato della cultura tecnologica. Si potrebbero citare, a questo
proposito, fenomeni più ampi quali l'azione uniformatrice dei metodi
tecnici, l'ethos della formazione dei gruppi, lo sviluppo della
burocrazia, l'influsso dell'opinione pubblica, e così via, ma voglio
richiamare soltanto un singolo aspetto, che mi pare però
particolarmente illuminante: la manipolazione, studiata
scientificamente, dell'inconscio dell'uomo da parte dell'economia.
L'economia studia i modi in cui gli stimoli della pubblicità,
apparentemente inavvertiti, vengono interiorizzati nelle motivazioni
dell'individuo e sviluppa i risultati di queste ricerche in una tecnica
di influssi costanti, non avvertiti dallo stesso interessato. Chi è in
grado di comprendere la natura di questi sintomi, sa che cosa sta
accadendo.
V
È
tempo allora - prima che sia troppo tardi - di comprendere il senso
nascosto di quel grido profetico e di proclamare la lotta per la libertà
anche su questo fronte.
Questa lotta non è fatta di azioni esteriori,
dal momento che il nemico proviene dall'interno dell'uomo, di quell'uomo
contemporaneo che noi tutti siamo. Certo anche le misure esteriori sono
importanti: la regolamentazione dell'orario di lavoro, la tutela
giuridica della sfera personale, la possibilità di educazione e di
formazione spirituale, e così via. Ma i veri cambiamenti possono
accadere soltanto a partire dall'interiorità, e non sarà cosa di poco
conto il realizzarli - non sarà facile riconoscere che qui si gioca il
destino dell'uomo: se egli resta signore delle proprie opere, oppure il
loro funzionario.
L 'uomo, dunque, deve situarsi in se stesso.
Deve crearsi lo spazio della riservatezza personale e deve preservarlo
dall'invadenza della sfera pubblica. Deve tornare a riconoscere come
sacri i legami umani originari e li deve custodire. Deve essere
deciso a non sottostare a ciò che «si» fa, a ciò che «si» deve
avere e vedere. Deve costruire dentro di sé una barriera contro i
flutti dei condizionamenti sociali che giungono attraverso la pubblicità,
le notizie, la radio, e tutto il resto. E - cosa da non dimenticare -
deve liberare la propria vita spirituale da quel narcotico con cui
addormentano la loro coscienza tutti coloro, che non vogliono analizzare
a fondo nessun problema con lo spirito di una corretta critica
culturale: la fede nel progresso universale.
Vorrei, signore e signori, che quanto ho detto non fosse
interpretato male. La mia non voleva essere una esortazione moralistica,
né, tanto meno, volevo indulgere a un qualche genere di romanticismo.
L' epoca dell'individualismo è finita e non la si può far risorgere
artificialmente.
Siamo nell'epoca dei rapporti sovraindividuali ed
in questi rapporti dobbiamo compiere la nostra opera. È un compito grande e
degno di essere realizzato. In esso ne va - come ho già detto - di una
forma del mondo, niente di meno; le energie che sono all'opera si fanno
sentire in modo colposo. Ma è una differenza quella che decide tutto: o
l'uomo viene trasformato da queste energie in un semplice elemento
della macchina, o si radica nel suo proprio centro e crea l'ambito
vitale che gli è proprio.
In questo compito è bene però richiamare
l'attenzione su di una difficoltà presente. Credo infatti che nel corso
dello sviluppo dell'età moderna con l'uomo si è fatto strada qualcosa
di specifico. Questo sviluppo è culminato nella rivendicazione
dell'autonomia, cioè nella rivendicazione di un radicale autodominio
dell'uomo nel campo del pensiero, dell'agire e del creare, una
rivendicazione che è giunta fino a quelle forme esaltate che si trovano
rappresentate ne L'unico e la sua proprietà di Max Stirner, o
nella «libertà disperata» dell'esistenzialismo.
Quella rivendicazione
era falsa alla radice, perché l'uomo non è autonomo. Lo sforzo, durato
così a lungo, di realizzare quell'autonomia deve aver però provocato
nell'uomo qualcosa, senza cui gli eventi degli ultimi tre decenni non si
possono comprendere: in quello sforzo l'uomo deve essersi esaurito così
a lungo e così in profondità, fino al proprio intimo, al punto che
questo esaurimento è divenuto un fattore determinante della storia.
L'uomo, dopo la fine dell'epoca moderna, ha subìto un collasso
esistenziale. L' effetto di questo collasso fu, sul piano oggettivo, la
dittatura; sul piano soggettivo, invece, il desiderio di essere
sollevato dalla propria responsabilità, cioè di essere schiacciato
dalla dittatura, diretta o indiretta che sia.
Per questo il grido «VIVA LA LIBERTA!>,
assume oggi un nuovo significato. Diviene l'espressione di una minaccia
più profonda di quella di allora. Ascoltare quell'appello e seguirlo
significa essere pronti ad un'impresa difficile.
VI
Si potrebbe però dubitare se abbia senso
avanzare sfide di questa portata. Nel nostro paese, spezzato a metà dai
blocchi politici delle potenze, si riceve speso un'impressione
inquietante: come se l'uomo tedesco - più precisamente,
tedesco-occidentale - fosse in procinto di adattarsi ad una esistenza
senza storia.
Ci sono certo motivi che sembrano giustificarlo.
Primo fra tutti, il tentativo mostruoso, che sta alle nostre spalle, non
solo di creare storia, ma di conquistarla con la violenza: l'ultima
guerra. La guerra è stata sostenuta da un agire privo di un autentico
legame con il passato; privo di senso del possibile; privo di tutto ciò
che i Greci chiamavano «timore davanti agli Dèi». Si è giunti così
a un crollo dell'esistenza storica, mai sperimentato prima in Germania
nonostante la Guerra dei Trent'anni - tanto più tragico, se si tien
conto che, in sé, vi erano le premesse per un'azione capace
di dar forma all'avvenire, capace di creare per l'Europa e in Europa il
terreno di una storia futura.
La
fatica di questa guerra ha provocato una profonda spossatezza
spirituale, che nessun attivismo può mascherare. Questa spossatezza si
lega con quell'altro radicale esaurimento, di cui abbiamo parlato prima,
e fa sì che l'uomo si allontani dalla storia e si ritiri nella realtà
extra-storica: la cultura, la tecnica, la ricerca del denaro e dei
piaceri della vita. Una sorta di autoinganno, come se non fosse accaduto
ciò che invece è accaduto; come se si potesse, in uno spazio lasciato
in bianco, produrre il «miracolo» della ricostruzione e dell'economia
e di altre cose ancora, senza che la verità si prenda la sua rivincita.
Forse
Voi potreste obbiettare, che tanto è stato detto e tanto è stato
scritto; che i politici si scagliano gli uni contro gli altri con
passioni - o almeno con parole - così forti; che gli scienziati, i
rappresentanti di gruppi e di organizzazioni levano alti richiami di
ammonimento, di protesta, di accusa. E tutto questo sarebbe un
comportamento antistorico?
Non
voglio certo dubitare dell'onestà che si manifesta in talune di queste
espressioni. Ma ciò di cui qui propriamente si tratta sta ad un livello
più profondo. Un comportamento che fosse adeguato alla storia, nel
senso qui inteso, comincerebbe con lo sforzo di comprendere la
situazione in cui ci troviamo. Facciamo questo sforzo? Cerchiamo di
vedere come si sia giunti a questa situazione? Quali azioni, quali
omissioni, quali principi abbiano condotto ad essa? Abbiamo davvero
intenzione di riconoscere come abbia potuto avvenire tutto ciò che è
accaduto? Tutte le cose tremende, di cui i recenti avvenimenti hanno
rivelato la realtà così intollerabile?
L 'impressione è che si
voglia eludere questa domanda. O che chi fa questa domanda riceva sempre
la stessa risposta: «Lascia perdere! Vogliamo vivere, lavorare e
goderci la vita!». Non è così?
Ben poco è lo spazio lasciato ad un'iniziativa
storica attiva. Se non vogliamo scivolare fuori dalla storia, dobbiamo
almeno impegnarci ad analizzare ciò che accade con rettitudine e
coraggio. Da questa analisi il futuro uscirà più puro e più giusto.
Ciò a cui siamo chiamati in ogni caso, nel
ristagno della storia che ci è imposto, è anzitutto la riflessione
sulle grandi questioni che sopra abbiamo posto: la forma del mondo che
vuole nascere è imponente. Di questa realtà abbiamo solo un
presentimento. Al momento se ne intravedono soltanto singole linee di
fondo, qui e lì un profilo, talvolta un nesso.
La realizzazione di
questa nuova forma del mondo costerà non soltanto un lavoro
incalcolabile, ma anche grandi sacrifici, e questo è normale. Ma un
sacrificio non può richiederlo, se non vuole cessare di essere una
forma «umana» del mondo: il sacrificio della libertà.
Come devono allora essere delineate le grandi
forme sovraindividuali del lavoro e della vita, affinché la vita
propria della persona possa persistere e svilupparsi? E possa farlo non
solo «in modo appena sufficiente», ma in modo significativo, in modo
che essa possa essere l'opposto polare, esplicitamente riconosciuto,
della realtà sovrapersonale? La forma del futuro dovrà fondarsi su di
un approfondimento e riordinamento dell'esistenza della nazione - e
dietro ad essa dell'Europa - concepita come un tutto. E come si
presenta, a differenza del totalitarismo meccanico del sistema
materialistico che nega la persona, quell'ordinamento che riconosce la
persona come irrinunciabile polarità della totalità? Qui sta
l'autentica dialettica vivente che non è costruita artificiosamente, ma
che è fondata nell'esistenza stessa.
Qual è l'atteggiamento in cui questa dialettica
si esprime? Quale ethos si origina da essa? Come dovranno essere le
singole forme della vita, che da lei scaturiscono? E così via.
Se c'è un luogo, signore e signori, in cui si
può riflettere su questi problemi e in cui le istanze che sorgono da
essi possono essere accolte nella cultura, questo luogo è l'università.
L'onore che tributiamo a questi uomini che hanno
dato la loro vita per la libertà, resterà un semplice gesto, se non
tentiamo di capire dove si gioca per noi l'istanza di un'eguale libertà,
e se non siamo pronti a portarla a compimento.
Perché versammo il sangue degli ebrei? Agli studenti di Tubinga, 1952
Noi tedeschi, la nostra colpa
«Forse a quell’epoca ben pochi capivano. Ma è ancor più mostruoso che oggi molti facciano finta di
niente. Abbiamo ridotto l’uomo a cosa»
Qual è il fatto in questione? Questo: una moltitudine di uomini, senza colpa alcuna, vennero privati dell'onore, dei
beni e della vita. Una parte di essi apparteneva a Stati non tedeschi: Polonia, Francia, Olanda; e ciò che a loro accadde
urtò, prescindendo da ogni norma umana, il più elementare diritto dei popoli. Altri erano cittadini dello Stato tedesco,
e avevano quindi con esso un rapporto di diritti e di doveri; ma da questo medesimo Stato vennero disonorati, defraudati,
seviziati, uccisi.
Il numero fu imponente. Non voglio discutere le cifre: statistiche attendibili parlano di cinque o sei milioni. In ogni
caso il numero fu così alto che l'evento coinvolse immediatamente la collettività (das Ganze), la res publica.
Si può replicare che in questo genere di cose il numero non ha importanza: il fatto è sostanzialmente il medesimo, che
tocchi un singolo uomo o un milione di uomini. Giusto: tuttavia la grandezza del numero stabilisce una differenza e
manifesta che ne va dello Stato e del popolo come tali, del modo col quale lo Stato ha concepito se stesso e il proprio
rapporto con il popolo.
Ma altro si aggiunse che oltrepassò il mero dato quantitativo e divenne elemento essenziale. Le azioni di cui parliamo
non avvennero in un momento eccezionale o nella urgenza di gravi pericoli. Esse sono piuttosto il risultato di una teoria
che era stata ben meditata ed elevata a programma. E vennero condotte sistematicamente con un apparato perfezionato in
ogni sua parte, atto alla ricerca, alla cattura, all'annientamento delle persone per il quale era stato predisposto.
Spero che qui nessuno vorrà rispondere come è accaduto nelle adunanze politiche, nei cinema o per la strada: tutto ciò
è propaganda. Chi rispondesse in tal modo, non apparterrebbe più al mondo spirituale della Università, ma si troverebbe
in un ambiente di comizi d'agitazione. Queste cose sono avvenute, e chi vuol conoscerle, oggi le sa. Con ciò non
è detto fino a che punto il singolo le abbia conosciute allora; fino a che punto fossero conosciute dal pubblico; fino a
che limite arrivassero volta per volta consenso e collaborazione, e quindi la responsabilità. Non è di questo che
vogliamo parlare.
Indubbiamente allora molti le ignoravano o conoscevano vagamente - per lo meno fino a quando ci fu una
certa possibilità d'influire sulle menti. E molti, indubbiamente, le hanno condannate e hanno compiuto quanto stava in
loro potere per aiutare i colpiti. Ma qui non si tratta di questo. Si tratta soltanto della realtà del fatto che, nella
sfera giuridica dello Stato tedesco, nello spazio vitale del popolo tedesco, tali cose siano accadute. Che cosa significa
questa realtà di fatto?
Osservate lo svolgimento storico prima del 1917 - ossia prima dello scoppio della rivoluzione
bolscevica - e ciò che ad essa seguì. Analizzate la forma in cui si esercita il carattere di reificazione dell'uomo, in
tutto ciò che all'Est è avvenuto e continua ad accadere, che è avvenuto in Germania fra il 1933 e il 1945, che in Cina
pare esasperarsi fino alle estreme conseguenze - che cosa si mostra qui?
Non si tratta più di lotta, ma di sterminio. Non vi sono più avversari sconfitti e nuovi rapporti di potere che si
affermano, bensì intere classi sociali e parti di popolazione sterminate. E non sotto l'impeto di passioni, di odi
scatenati, ma perseguendo un programma politico-sociale. Viene stabilito a mente fredda che questi e questi gruppi
economici, sociali, etnici, non debbono più esistere. E non perché fecero del male.
Possono essere bravissime persone,
proprio per questo anzi - mi viene in mente la risposta che, se ben ricordo, ricevette Maxim Gorkij, quando cercava di
salvare un proprietario che era uomo giusto e pietoso: precisamente perché è tale deve venir soppresso, poiché maggiore
è la sua importanza politica! Neppure perché la loro opera fosse stata funesta: potrebbe essere stata di prim'ordine (lo
Stato totalitario vive anche del contributo di coloro contro i quali si scaglia); no, soltanto perché il potere politico
si crede autorizzato a disporre senz'altro degli uomini.
Questa è la novità. Prima di quelle date non si verificò mai come fattore del complesso storico. Se ne trova qualche
precedente: in procedimenti nei quali la volontà politica non tenne conto del fatto che si trattava di persone con un
loro diritto e una loro dignità.
La mostruosità del fatto è dimostrata da come il popolo tedesco si comportò nei confronti del fatto stesso dopo la
guerra: desta seria inquietudine osservare come poco si sia occupato di quanto avvenne, come non si renda cosciente di
avervi contribuito e neppure del significato dell'accaduto per tutta l'esistenza storica del popolo tedesco.
Come poté continuare a vivere tranquillamente, quasi non fosse successo nulla? Che ci siano ancora quelli che negano
queste cose, che le difendono, che cercano di tacciare d'immoralità quelli che sopportarono tanta mostruosa ingiustizia,
tutto ciò è orribile. Ma si può capire. E precisamente in base alla psicologia di chi sente la propria colpevolezza ma
non vuole convenirne, e tenta di giustificarsi, di far risultare colpevole quello stesso contro il quale commise la colpa;
anzi è preso da un odio caratteristico contro l'oggetto della propria colpa. Tutto ciò sarebbe orrendo, ma
comprensibile.
Ciò che intendiamo ha radici più profonde; come se la coscienza della collettività rimanesse perplessa davanti
all'orrore dell'accaduto. L'accaduto si è in certo modo stanziato come un blocco muto nel suo animo; indomabile e
pericoloso.
Certamente durante la guerra, da parte degli avversari, che ora ci rimproverano queste ingiustizie, vennero commesse
azioni scaturite da uno spirito di disumanità; basti ricordare la distruzione di Dresda stracolma di profughi; ma ciò
non ci riguarda: qui parliamo di noi. Come possiamo venire a capo dell'accaduto, affinché non si propaghi
ulteriormente come un veleno interno, né divenga modello per il futuro?
Ecco, quanto intendevo dirvi: farvi osservare che nella storia dei nostri ultimi vent'anni c'è qualcosa di
mostruoso, di cui non si è ancora venuti a capo. Ed è così, lo si voglia o no. E tutto quanto vien fatto e detto,
per negarlo o minimizzarlo, o persino per giustificarlo, è soltanto il sintomo della portata dell'accaduto. È colpa.
Grava sulla coscienza del popolo, lo sappia o no, sulla coscienza della vita, e chiede chiarimento. Inoltre rappresenta
nell'ambito occidentale il primo esempio di quella terribile eventualità che sovrasta la storia futura. È quindi un
avvertimento.
Romano Guardini, La
Rosa Bianca, introduzione di M. Nicoletti, appendice di
P. Ghezzi, Brescia Morcelliana 1994.
È interessante conoscere che La
Rosa Bianca conserva echi nelle coscienze di persone del nostro
tempo e ha unito e può unire molte "buone volontà" di oggi.
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