Il Vaticano muove alla
scoperta di Israele. I suoi fedeli abitano lì. In Israele gli
ebreocristiani sono sempre più numerosi e la Santa Sede si adegua. Il
nuovo Custode della Terra Santa parla ebraico. E nel Cenacolo, ridato
presto alla Chiesa, si tornerà a dir messa.
torna
su
Dal 15 maggio la Terra Santa ha un nuovo Custode, il
francescano Pierbattista Pizzaballa, 38 anni, bergamasco. Il Custode ha
la potestà su tutti i maggiori luoghi sacri cristiani della terra di
Gesù. L’hanno eletto i suoi confratelli, ma è il Vaticano che ha
avuto l’ultima parola. Pizzaballa parla ebraico ed è stato parroco
degli ebreocristiani di Gerusalemme. È amicissimo del vescovo
Jean-Baptiste Gourion, l’ebreo convertito che dallo scorso autunno è
stato messo lì dal papa a curare “i fedeli cattolici di espressione
ebraica” viventi in Terra Santa.
Il nuovo Custode è la conferma di una svolta in corso. Il Vaticano
cerca di raffreddare gli ardori filopalestinesi del patriarcato latino
di Gerusalemme, retto dall’arabo Michel Sabbah, e guarda con interesse
crescente all’altro versante, a Israele.
La svolta ha ragioni religiose: il forte desiderio di Giovanni Paolo II
di far pace con gli ebrei, da lui ribadito nel messaggio del 23 maggio
per il centenario della sinagoga di Roma.
Ma ha anche ragioni demografiche: i cristiani arabi in Terra Santa sono
sempre di meno, nei Territori ne sono rimaste poche decine di migliaia;
mentre sono sempre più numerosi, invece, i cristiani non arabi che
abitano in Israele. Negli anni Novanta ne sono arrivati più di
duecentomila dalla Russia, dall’Ucraina e da altri paesi slavi. Sono
di parentela ebraica ma battezzati. Molti sono nati ortodossi, ma facili
a passare al cattolicesimo. In essi la Chiesa di Roma vede il futuro
della presenza cristiana in Terra Santa.
Il Vaticano lavora su più terreni e con più uomini. Per la conquista
degli immigrati dall’est d’Europa ha dato libero corso ai
neocatecumenali, attivissimi nel far proseliti e sicuramente i più
filoisraeliani tra i movimenti cattolici nati negli ultimi decenni.
Sopra il monte di Korazym, in vista del Mare di Galilea, essi hanno
quasi ultimato una cittadella per la formazione dei loro missionari,
inaugurata dal papa nel 2000 durante il suo viaggio in Israele, tra gli
applausi dei rabbini compiaciuti dello stile anticotestamentario della
costruzione. Il loro fondatore e capo supremo, lo spagnolo Kiko
Argüello, ha incontrato di recente Ariel Sharon. Anche nei mesi più
cupi dell’ultima intifada non hanno mai cessato di portare pellegrini
in Terra Santa, facendo capo a un’agenzia di viaggi ebraica o
direttamente alla compagnia aerea israeliana El Al.
Quanto agli arabocristiani che abitano nei Territori, il Vaticano fa di
tutto perché non emigrino: sollecita i pellegrini che visitano quelle
terre a portare loro aiuti in denaro. Ma un conto è il sostegno
umanitario, un conto quello politico. Contro gli eccessi d’attivismo
filopalestinese il Vaticano s’è fatto più severo. Il francescano
Ibrahim Faltas, divenuto celebre come portavoce dei guerriglieri che
occupavano la basilica di Betlemme nella primavera del 2002, è sulla
lista degli epurandi.
Poi c’è il terreno diplomatico. Lo scorso autunno, quando monsignor
Jean-Louis Tauran lasciò la carica di ministro degli esteri, i rapporti
tra il Vaticano e Israele erano pessimi. Col suo successore Giovanni
Lajolo e col nuovo ambasciatore israeliano presso la Santa Sede, Oded
Ben-Hur, qualche lume s’è acceso. È imminente la ripresa di
negoziati ufficiali. E uno dei punti vicini a soluzione ha per oggetto
la Sala del Cenacolo, a Gerusalemme.
Giovanni Paolo II, nel 2000, vi celebrò messa. Ma formalmente il
Cenacolo è una ex moschea di proprietà dello stato d’Israele,
visitabile come fosse un museo. La speranza della Santa Sede è di
vederlo restituito a luogo di culto cristiano, e il papa contava di
darne l’annuncio lo scorso giovedì santo, memoria dell’ultima cena
di Gesù. Il governo israeliano è pronto a cedere il Cenacolo non in
proprietà ma in uso al capo della Chiesa cattolica. Restano però
ancora dei punti da negoziare: ad esempio lì sotto c’è una tomba
venerata dagli ebrei come sepoltura di Davide. Per il Vaticano i
negoziatori ufficiali sono Lajolo e il nunzio in Israele, l’arcivescovo
Pietro Sambi. Ma alla loro ombra si muovono gli sherpa, gli effettivi
tessitori di questo e di altri accordi. Sono entrambi francescani:
David-Maria Jaeger, altro ebreo convertito, giurista ferratissimo, e
Pizzaballa, il nuovo Custode.
[Da “L’espresso” n. 22 del 28 maggio-3 giugno 2004]
torna su
Un altro punto di frizione con il Vaticano riguarda il mancato rinnovo
dei visti d’ingresso in Israele per circa centoventi preti, suore,
religiosi originari del Libano e di altri paesi arabi.
Per anni essi hanno avuto il visto rinnovato per routine. Ma qualche
mese fa, adducendo ragioni di sicurezza, il governo israeliano ha deciso
di sottoporre a meticoloso controllo ciascuna richiesta di rinnovo, e le
ha tutte bloccate. Col risultato che molti di questi religiosi
continuano a restare in Israele illegalmente, a visto scaduto, e non se
ne vanno perché temono di non potervi rientrare.
Per accelerare la soluzione del caso si è recato in Israele dal 24 al
28 maggio il cardinale Walter Kasper. Propriamente il suo ruolo è di
curare i rapporti religiosi con l’ebraismo. Ma nell’agenda del suo
viaggio, fitta di incontri con rabbini e uomini di Chiesa cattolici,
greci ed armeni, Kasper, oltre che con autorità d’Israele, ha fatto
posto anche alla questione visti.
Alla visita di Kasper farà seguito dal 1 al 4 giugno, a Gerusalemme, un
meeting tra i rettori della Hebrew University, della Tel Aviv
University, della Bar-Ilan University e i loro omologhi delle quattro
maggiori università pontificie romane: il vescovo Salvatore Fisichella
della Lateranense, il gesuita Franco Imoda della Gregoriana, padre
Giuseppe Cavallotto dell’Urbaniana, l’università di Propaganda
Fide, e don Mariano Fazio dell’università della Santa Croce, dell’Opus
Dei.
Fisichella è braccio destro del cardinale Camillo Ruini, il vicario del
papa che domenica 23 maggio ha letto il messaggio di Giovanni Paolo II
agli ebrei nella sinagoga di Roma, nel centenario della costruzione.
Mentre Imoda è confratello e amico del cardinale Carlo Maria Martini.
torna su
Senza prevedibili rapide soluzioni è invece la controversia creata dal
muro di separazione che Israele sta innalzando tra sé e i Territori.
La protesta della Chiesa è sia di principio (il papa ha invocato
pubblicamente “non muri ma ponti”), sia dettata da motivi pratici.
Uno degli ultimi atti del predecessore di Pizzaballa come Custode della
Terra Santa, padre Giovanni Battistelli, è stato, il 24 marzo, la
presentazione a Ginevra, alla commissione dell’Onu per i diritti
umani, di una protesta formale.
In essa, oltre a lamentare che il muro non ricalca la “Linea Verde”
del 1967 ma ingloba il 7 per cento del territorio palestinese con circa
95.000 abitanti, la Custodia denuncia una serie di “violazioni di
diritti umani” a danno dei cristiani del posto.
“Massicci sbarramenti di cemento bloccano la strada verso la città
araba di Abu Dis e tagliano in due la città vecchia di Betania. I
bulldozer dell’esercito sono penetrati nell’area di un convento e
hanno distrutto gli alberi d’ulivo di un altro. Il muro circonda un’altra
casa religiosa della stessa area impedendo di accedervi dai Territori.
Tutti questi atti violano in modo flagrante l’Accordo Fondamentale tra
la Santa Sede e lo stato d’Israele firmato il 30 dicembre 1993 ed
entrato in vigore il 10 marzo 1994”. Seguono i rimandi precisi a due
articoli di detto Accordo.
[Sandro Magister su l'espresso 28 maggio 3 giugno 2004]
Intervista
con il nuovo custode di Terrasanta
torna
su
Fr. Pierbattista Pizzaballa ofm
Cosa è per te la
Custodia di Terra Santa?
La Custodia è una presenza radicata in Medio Oriente, quella che noi
cristiani chiamiamo Terra Santa. È una presenza ponte, un incontro (a
volte scontro) tra due culture, quella orientale e quella occidentale.
Credo, inoltre, che non vi sia un luogo al mondo come Gerusalemme dove
tutte le confessioni religiose cristiane sono presenti. Al di là
delle evidenti difficoltà di relazione, la Terra Santa ha un fascino
che è unico nel suo genere, a tal punto che lo stesso Paolo VI l'ha
definita "Il quinto Vangelo". Qui noi francescani siamo una
presenza storica e lungo i secoli abbiamo imparato molto anche a
dialogare con gli altri cristiani. A livello interreligioso siamo una
piccola realtà rispetto alle due grandi presenze: ebraica e islamica,
ma è bello vedere come pur non facendo parte di queste culture,
assumiamo alcuni aspetti delle loro tradizioni e riusciamo a
comunicare qualche cosa della nostra. In questo senso qui ci troviamo
nel cuore della vita della Chiesa e del mondo. Nonostante i limiti
dovuti alla scarsità di personale, alla difficoiltà delle lingue
parlate ecc., riusciamo sempre ad offrire accoglienza, a incontrare
pellegrini e fedeli di ogni parte del mondo e a discutere con chi non
la pensa come noi. La Terra Santa è un luogo avvincente, che sfida
continuamente e la sfida più grande di fronte a cui ci troviamo ora
è quella di non limitarsi a subire le difficili situazioni in cui
viviamo, ma riuscire a inserirsi in esse con un atteggiamento attivo e
critico.
Quali sono le priorità che ti sei prefissato per il tuo mandato di
Custode?
La mia priorità è innanzitutto la Formazione. Proprio per il fatto
di essere radicati in Terra Santa, da sempre facciamo parte del
panorama, ma non possiamo correre il rischio di vivere di rendita: lo
“status quo”, a volte, può diventare anche un modo di pensare.
Credo sia necessario scuotere le nostre coscienze, nella formazione
iniziale e permanente, perchè in Terra Santa le cose cambiano e, di
conseguenza, anche noi siamo chiamati a cambiare, pur rimanendo nel
solco della tradizione.
Secondo te cosa ostacola il cambiamento e il rinnovamento?
Il primo ostacolo che individuo è la mancanza di personale, che del
resto è un problema di buona parte dell’Ordine. Un altro è la
divisione per gruppi linguistici. L’internazionalità nella Custodia
è una ricchezza, che diventa un limite, quando i singoli gruppi
tendono a rinchiudersi, mentre ciascuno dovrebbe proporsi come
ricchezza per l’altro. Bisogna poi considerare che la Terra Santa è
una terra carica di passioni. La situazione ambientale obbliga in un
certo senso a coinvolgersi nelle situazioni, ma questo comporta anche
dei rischi, quando la passione diventa viscerale e ci si arrocca sulle
proprie posizioni. Bisogna essere appassionati, ma non lasciarsi
prendere dalle passioni, perchè questo toglie la libertà nei
confronti degli altri. Credo che conservare la libertà di amare tutti
sia fondamentale oggi, soprattutto in Terra Santa. Noi Frati, sull’esempio
di Francesco di Assisi, dobbiamo conservare l’amore per tutti come
un atteggiamento profetico e per questo il nostro prossimo Capitolo
avrà come tema “Profeti di riconciliazione e di pace”. Profeta è
chi è solidale con tutti e vicino a tutti.
Cosa ti aspetti dall’Ordine dei Frati Minori?
La Custodia è parte dell’Ordine dei Frati Minori: siamo un’unica
famiglia. La Custodia da sola non può venire incontro a tutte le
esigenze e alle difficoltà che ci sono in Medio Oriente; la Custodia
ha bisogno dell’Ordine e, credo, che anche l’Ordine abbia bisogno
della Custodia. Se la Custodia intende rinnovarsi chiedendosi “cosa
è” e “come vuole essere presente in Terra Santa”, non potrà
trovare risposta senza un dialogo con l’Ordine. Abbiamo bisogno non
solo di personale, ma anche di idee e di progetti in cui siano
coinvolti i Frati di tutte le latitudini.
Cosa auspicheresti in particolare?
Un coinvolgimento maggiore da parte delle Province. La Custodia è
definita la “perla delle missioni”, ma resta un modo di dire.
Molto spesso si parla di missioni senza considerare tra queste la
presenza in Terra Santa. Anche nella formazione permanente, è urgente
coinvolgere l’Ordine e le Province. Vogliamo essere in sintonia con
il cammino dell’Ordine. Credo ci sia una possibilità, addirittura
una necessità, di collaborare.
Il riconoscimento dello Studio Biblico della Flagellazione da parte
della Chiesa, è la conferma di uno degli aspetti peculiari della
presenza francescana in Terra Santa.
Il ruolo dello Studio Biblico Francescano e degli altri Centri di
Studio è indispensabile per la Custodia. Non si può prescindere dal
contributo scientifico e formativo di questi Centri. Dovremo
certamente confermare, potenziare e coordinare i nostri Centri di
Studio perchè non ci sia dispersione di forze. Noi siamo una piccola
presenza numerica in un ambito interreligioso ma, proprio per questo,
dobbiamo dare un contributo soprattutto qualitativo. Il riconoscimento
che la Chiesa ha dato allo Studio Biblico Francescano conferma il
nostro impegno in tal senso. Per questo sarà necessario continuare ad
investire e a far convergere le nostre energie in questo campo.
Ritieni sia necessario un'atteggiamento differente nei rapporti con
le autorità civili?
Dobbiamo recuperare la libertà nei confronti di tutti. C'è la
tendenza, sia da parte delle autorità locali sia di quelle
internazionali a strumentalizzare la nostra presenza. C'è il rischio
che certi eventi vengano usati e strumentalizzati. Penso sia molto
importante per noi mantenere un linguaggio non politico e un
atteggiamento libero, che rimanga fuori dagli schemi della politica.
Dovremmo cominciare ad usare un linguaggio e ad avere un atteggiamento
profetico. Questo non significa disinteressarsi di quanto accade
intorno a noi, ma conservare la nostra autonomia e libertà nei
confronti di tutti senza pregiudizi per nessuno.
Due peculiarità della presenza francesana in Terra Santa sono
state l'attenzione ai pellegrini e ai cristiani residenti. Una delle
azioni concrete che la Custodia ha operato è stata la costruzione
delle abitazioni per i cristiani. Ritieni utile continuare questo tipo
di attività?
Il problema delle case per i cristiani di Terra Santa è molto serio.
Bisogna però fare attenzione a non trasformarci in un ministero delle
infrastrutture. Per quante case si possa costruire non si riuscirà
mai a risolvere il problema della sopravvivenza dei cristiani. In
questa prospettiva siamo chiamati a dare il nostro contributo
concreto.
La costruzione delle case é finalizzato ad evitare l'emigrazione:
sono molti i cristiani che vanno via dalla Terra santa...
Nei Territori l’emigrazione è un problema veramente drammatico,
mentre per i cristiani che vivono in Israele ci sono problemi di tipo
diverso, tanto è vero che la Custodia per loro, per esempio, non
costruisce case. Va poi tenuto presente che i poveri non andranno mai
via, rimarranno sempre con noi, perchè non hanno il denaro necessario
per emigrare. Un problema grave è invece la diminuzione di una
presenza cristiana qualificata perchè chi ha possibilità economiche
e una buona formazione preferisce emigrare, perchè non vede
prospettive per il futuro. Nei Territori Palestinesi questo problema
esiste, ed è dovuto soprattutto alla situazione politica e alla
mancanza di prospettive economiche. In questo caso costruire edifici
è importante, ma la Custodia non può limitarsi a questo. Noi Frati
dobbiamo essere più solidali, meno assistenzialisti e più presenti.
La gente non ha solo bisogno di soldi, chiede speranza, vuole essere
aiutata a credere nel futuro.
Cosa pensi del muro di separazione?
Comprendo la paura e l'angoscia di Israele. Sono certo che il muro non
è la risposta. Israele vuole difendersi dagli attacchi terroristici,
ma la realtà del muro divide il villaggio dalle terre, la scuola dai
bambini, l'ospedale dai malati; tutto ciò è difficilmente
comprensibile. La storia, inoltre, insegna che tutti i muri prima o
poi cadono. È una risposta di paura che non ha prospettive nel tempo,
perchè la forza delle idee e la forza della vita superano qualsiasi
barriera.
Hai vissuto da vicino la realtà delle comunità cristiane sia di
origine ebraica, sia di origine palestinese. Come affrontano questa
situazione drammatica?
Quello che ho notato nelle comunità cristiane è che c'è tanta
stanchezza psicologica e spirituale. I cristiani non sono un popolo a
sé, perchè essere cristiano non vuol dire appartenere ad una entità
nazionale e la fede non si identifica con una identità nazionale. I
cristiani stanno dall'una e dall'altra parte e ciascuno si identifica
col proprio popolo d'appartenenza. I cristiani palestinesi sono
solidali con i palestinesi, mentre i cristiani d'origine ebraica sono
solidali con gli israeliani, anche se, chiaramente, molto spesso non
condividono le scelte dei propri governanti.
Quali sono le prospettive per il futuro della Custodia, anche in
relazione all’attuale situazione in cui è inserita?
Il punto di partenza della presenza francescana in Medio Oriente è l’incontro
di S. Francesco con il Sultano Melek el Kamil. In quel contesto di
guerra, nel corso delle Crociate, Francesco di Assisi ha scavalcato le
trincee per andare a parlare, a dialogare con il Sultano che era
considerato il nemico per eccellenza, l’infedele. Il futuro è nel
gesto profetico del dialogo. Esso va attualizzato e vissuto prima di
tutto nei rapporti tra noi Frati che proveniamo da diversi paesi e da
diverse culture e poi nei rapporti con gli uomini e le donne che
vivono in Terra Santa. Bisogna ripartire dalle origini, dalle
motivazioni per cui Francesco di Assisi ha desiderato intraprendere il
suo viaggio per rifare l’esperienza di Gesù Cristo, per vedere con
i propri occhi i luoghi terreni dove il Figlio di Dio è nato,
vissuto, morto e risorto per la salvezza dell’uomo.
a cura dell'Ufficio Comunicazione OFM
ISRAELE – PALESTINA
– TERRASANTA
torna su
Essere ponte per ebrei e musulmani
[Intervista
con P. Pierbattista Pizzaballa, ofm, nuovo Custode di Terrasanta
Bernardo
Cervellera, su Asianews 26 maggio 2004]
Avere il coraggio di voltare pagina, di perdonare, di
riconciliarsi: questa per padre Pierbattista Pizzaballa, nuovo
Custode di Terrasanta, l’unica strada per uscire dalla spirale
di odio e di vendette che insanguina da troppo tempo la regione.
Parlare, ma anche ascoltare, per farsi perciò ponte sia verso i
palestinesi che verso gli israeliani., per promuovere il dialogo
interreligioso, che sa offrire contenuti di profezia alla
politica. Sono alcuni dei temi dei quali padre Pizzaballa parla
nell’intervista con AsiaNews, nella quale evidenzia anche
la sua volontà di contribuire a far superare l’immagine di
Israele legata all’aspetto militare degli eventi, a favore di
quella di una società civile attenta anche alle altre religioni,
e di un Islam che non è soltanto terrorismo.
Le prime
impressioni dalla nomina in poi.
Il lavoro è tanto.
La situazione della Terrasanta non è semplice, ma ho molta
fiducia. I miei confratelli e un po’ tutti mi hanno espresso
simpatia e sostegno. Confido che andrò avanti per quest’opera
necessaria.
Come vede la
missione dei francescani in Terrasanta?
È una missione di
riconciliazione e di ponte. Per i francescani di Terrasanta, la
nostra missione del futuro è simile a quella del punto di
partenza e cioè l’incontro di san Francesco con il sultano. La
nostra missione, oltre che custodire i Luoghi Santi, oltre che
animare la vita delle comunità cristiane, è anche quello di
essere punto di riferimento, di riconciliazione.
Anzitutto fra noi:
noi siamo una comunità internazionale. Non è facile che un
americano viva fianco a fianco con un palestinese. Eppure nelle
nostre case succede.
Un altro aspetto è
farsi promotori di riconciliazione nell’ambiente in cui viviamo.
Io condivido totalmente il messaggio per la Giornata della pace
del 2002: “Non c’è pace senza giustizia non c’è giustizia
senza perdono”. Vivendo in Terrasanta, fra israeliani e
palestinesi, ci accorgiamo che è in atto una spirale senza fine
di violenze, rivendicazioni, vendette, ritorsioni. L’unica
soluzione è avere il coraggio di voltare pagina, di perdonare, di
riconciliarsi. Occorre guardare davanti e non chiudersi ognuno nel
proprio dolore.
Come attuare
questo? Il mondo francescano è legato soprattutto ai cristiani di
Terrasanta e questi sono in maggioranza palestinesi…
La nostra storia,
è vero, è legata al mondo arabo, ma siamo anche una comunità
internazionale. E ci sono anche tanti luoghi santi in Galilea, in
zona israeliana. Vi sono francescani che lavorano anche col mondo
israeliano, soprattutto in campo culturale. Un esempio: a Jaffa
c’è una comunità dove i francescani accolgono israeliani e
arabi. Al convento di S. Simeone ed Anna, oltre ad essere
responsabile della comunità ebraica di Gerusalemme, ho curato i
rapporti con le diverse istituzioni: andare in università a
spiegare il cristianesimo, nelle scuole, alle guide turistiche e
perfino nelle caserme.
Nelle caserme
israeliane?
Il servizio
militare in Israele dura tre anni. In questo tempo i soldati non
devono solo sparare, come si pensa qui in Italia. Essi devono
studiare e conoscere tutte le realtà del paese. Prima di iniziare
a visitare chiese e luoghi santi, cercano disperatamente dei
cristiani che possano spiegare loro il cristianesimo in
ebraico. Poi vi sono gruppi dell’esercito che fanno corsi di
aggiornamento e chiedono esperti cristiani in campo etico…
In occidente
spesso trionfa un’ immagine di Israele che ammazza e
distrugge…
Israele non è
soltanto esercito o conflitto, o i carri armati che vanno nei
campi profughi. Israele è anche una società civile, che ha
problemi come tutti, ma è anche vivace e ricca dal punto di vista
culturale. Noi abbiamo il dovere di essere in contatto anche con
loro. La nostra internazionalità ci mette in condizione di
simpatia e favore verso tutte le altre culture, non solo quelle
arabe.
Pensa di
riuscire a far parlare israeliani e palestinesi che si fanno
guerra da quasi 100 anni?
Il nostro ruolo di
religiosi non è entrare in politica. I politici devono tradurre
in fatti concreti quello che i religiosi dicono in modo profetico.
Noi dobbiamo lavorare soprattutto nel dialogo interreligioso.
Certo, in Israele e in Terrasanta non si può distinguere fra
religione e società, ma noi dobbiamo limitarci al campo
interreligioso, educativo, culturale, stimolando l’opinione
pubblica. E, là dove è possibile, stimolare i politici ad
incontrarsi.
L’occidente
vede nella Terrasanta un luogo di benedizione, ma anche una specie
di punto d’origine di tanti problemi che si sono diffusi nel
mondo….Un ponte anche con i musulmani?
Il conflitto
israele-palestinese non è il punto di origine di tutti i mali.
Quello che accade in Terrasanta è la risultante di tanti
conflitti e che esistono nel mondo. Adesso si parla molto di
islam e di terrorismo. Proprio per questo pregiudizio, che è
generato dalla paura e dalla non conoscenza, l’unica posizione
costruttiva è ancora quella di san Francesco. Nel pieno periodo
delle crociate, quando il sultano era il nemico per eccellenza,
rischiando di essere ucciso, lui è andato a parlare. Questo è
difficile: parlare significa anche ascoltare, tentare di capire e
questo richiede tempi lunghi. Ma è l’unica via; non vi è altra
scelta.
Lei ha
ricevuto accoglienza e messaggi da politici israeliani e
palestinesi?
Sì ho ricevuto gli
auguri e i complimenti da politici di entrambe le parti.
Lei ha una
grande esperienza con i cattolici di lingua ebraica. Questi
cattolici non hanno vita facile nel mondo israeliano né nel mondo
cristiano-palestinese. Pensa ci sia una missione di
riconciliazione anche per loro?
Penso che questo
non sia ancora possibile. Sono comunità molto piccole e
troppo giovani dal punto di vista ecclesiale. Solo ora, con la
nomina del vescovo [mons. Jean Baptiste Gourion - ndr] si stanno
strutturando un po’ di più. Senz’altro essi sono importanti
come futuri interlocutori. Anche nella chiesa, una comunità di
tradizione ebraica è fondamentale.
Perché è
importante una comunità di lingua e tradizione ebraica?
Dal punto di vista
storico e teologico, penso sia importante: la prima comunità
cristiana era fatta da persone provenienti dall’ebraismo. Con
l’andar del tempo la chiesa ha perduto questa sensibilità verso
il mondo ebraico, da cui noi proveniamo. Avere nella chiesa
qualcuno che pensa come ebreo, come pensava Gesù, è molto
importante anche per la comprensione teologica della bibbia. Un
anno fa ho letto insieme a un gruppo di ebrei religiosi il nuovo
testamento. Era fantastico: quasi per ogni passo trovavano un
parallelo nella letteratura rabbinica. Capivi molto bene il
contesto entro cui Gesù ha parlato.
Lei ha detto
che i francescani di Terrasanta finora si sono preoccupati troppo
di aiutare i cristiani a costruire case, trovare lavoro – magari
nel campo del turismo religioso. È finito il tempo
dell’assistenzialismo?
La mia esperienza
pastorale è stata più insieme a comunità ebraiche che
palestinesi. Ma la mia impressione è che in Terrasanta ci si
preoccupa troppo di muri, e invece bisogna preoccuparsi
dell’evangelizzazione, della formazione, della
ri-evangelizzazione (che è molto più difficile). Abbiamo dato
molta rilevanza ai luoghi e agli edifici – ed è importante –
ma non si vive solo di case e di lavoro; si vive anche di
prospettive, di speranze. La vita ha bisogno di senso e non solo
di punti fisici di riferimento.
La formazione serve
anche a creare un futuro. Invece la gente fugge ed emigra. Ma si
emigra non soltanto per la guerra: in fondo in Terrasanta vi è
stata sempre tensione… Anche se oggi ve n’è di più. Occorre
aiutare a comprendere che essere presente in Terrasanta è una
missione.
Lei è un
superiore che può parlare in ebraico con i politici israeliani.
Quando li incontrerà, cosa dirà loro?
Di tutti i problemi
che abbiamo. Ma anzitutto quello dei visti ai religiosi, che è il
più urgente. Poi vi sono quelli lasciati in sospeso dalla
commissione mista israelo-vaticana, che ho saputo riprenderà gli
incontri il mese prossimo. Essi devono ancora trattare i problemi
fiscali di riconoscimento giuridico delle chiese, ecc. che prima o
poi si chiariranno. L’altro lavoro è per un dialogo più sereno
fra le parti, per una comprensione reciproca più profonda.
In questi
giorni il card. Kasper è a Gerusalemme per incontrare capi
religiosi e politici. Che rapporto c’è fra i vostri due lavori?
Non è la prima
volta che il card. Kasper viene in Terrasanta. Viene di frequente
e le sue visite sono accolte sempre con molto interesse. Questi
suoi incontri sono un incoraggiamento per noi che lavoriamo con
musulmani ebrei cristiani sul posto. Talvolta ci si sente soli a
Gerusalemme.
Cosa può
fare il mondo e i cristiani per la Terrasanta?
Fare nel proprio
mondo quello che noi facciamo in Terrasanta: lavorare per la pace,
per la comprensione reciproca, vincendo la paura, che è l’ombra
della morte. Nelle macro relazioni occorre sottolineare le stesse
cose: occorre non fermarsi ai problemi attuali, ai conflitti. Non
permettere che siano i conflitti a scrivere la nostra storia. Per
fare questo occorre speranza e anche certezza. Io sono cristiano e
credo nel Cristo morto e risorto: questa è la mia certezza e il
fondamento della mia fede.