IV Giornata Europea della Cultura Ebraica, 
momento di conoscenza e tolleranza
Edizione 2003 - Soncino (Cremona)


L’ORIGINE TESA

Nell’immaginaria proiezione di un mondo sempre più virtuale, l’immagine prodotta tecnologicamente simula - e nasconde - l’irrealtà dell’evento. Eventi che non accadono effettivamente da nessuna parte (oppure sono accaduti altrove e altrimenti, o addirittura non sono ancora accaduti) rendono ormai irriconoscibile la loro differenza. Perché la simulazione è ormai in grado di fornire tutte le coordinate realistiche dell’accadere, compresa la nostra partecipazione (visiva e affettiva, mentale ed emotiva, sensibile e interattiva).

In un simile universo, verso il quale a volte ci sentiamo fatalmente sospinti come verso il nostro futuro imminente, la comparsa di antiche carte manoscritte, di arcane lettere sacre, di turgori antropomorfi sospesi nella formalina invisibile di orbite purissime e vuote (celesti o terrestri), appaiono come miracolosi segni di vita. Nella loro polverosa secchezza ridestano umidi intenerimenti di attesa e di speranza, per la nuova rivelazione di una segreta e non estinta affinità tra le geometrie rarefatte del cosmo genuinamente naturale e le tracce immemoriali dello spirito veramente creativo.

Di questa affinità, la nostra antica sapienza, conosceva molto. Un tempo, la sottile tensione dei legami onniavvolgenti del cosmo sacro e la proporzione musicale delle sue armoniche corrispondenze nel mondo storico avevano nell’umano sensi adatti alla percezione estetica e mente pronta alla sintonia spirituale. Le tracce di questa spontanea attitudine si sono di molto affievolite. Nuove abitudini, alimentate dall’opulenza di un’immaginazione convulsa e fredda ad un tempo, che ricrea il mondo a imitazione di una mente perfettamente incorporea, hanno creato assuefazione all’indifferenza del legame fra la pura sensazione di realtà e l’autentico sentimento delle cose. La prima si produce anche in assenza di ogni metabolismo spirituale della percezione. La seconda invece vive proprio di questa prodigiosa transustanziazione: e solo a partire di qui viene a capo della differenza fra l’asettica alternanza di acceso / spento e la feconda contraddizione vita / morte.

Il prodigio di questa rievocazione gentilmente propositiva dell’antica sapienza accompagna il gesto artistico rigorosamente contemporaneo di Giovanni Bonaldi, che installa le sue macchine del tempo originario come antidoti a futura memoria, per il day after. L’ultimo giorno non è più, nel nostro mondo quello del rogiolo apocalittico del vecchio mondo. E’ il giorno dopo la Simulazione Totale, quando l’ultimo frammento di Realtà sarà perfettamente sostituibile con la sua Riproduzione.

Bonaldi accetta serenamente la sfida. E monta piccole macchine dell’invenzione nella sua accezione originaria: dove l’inventio è ancora scoperta del meraviglioso che c’è nella creazione, prima di immaginarsi presuntuosamente come la sua continuazione. Bonaldi, con le sue macchine poetiche, rifà il verso -sub contrario- all’ossessione tecnologica, decostruendone la presunzione e riportandola alla sua origine genuina: l’osservazione del nomos della terra e il riconoscimento dei suoni armonici fondamentali. 

Le sue sono macchine pitagoriche, che mettono in tensione la grammatica delle forze elementari in cui il mondo fisico e lo spirito vivente si annodano inestricabilmente: rendendo impossibile la loro separazione, e immediata la percezione della loro divina proporzione. L’uovo è atomo e cellula, grembo e cosmo, cavità misteriosa di ogni generazione: guscio-mondo segretamente custode di un vuoto ospitale per l’eccedenza che sempre annuncia la vita come scompiglio del perfettamente calcolabile. La corda è vibrazione e ombelico, vincolo e molla, enigmatico ordito di tutte le imprevedibili trame dell’universo: mette in collegamento tutti i punti, orchestra la musica (per lo più inudibile) di tutti i mondi possibili. 

Sono macchine leonardesche: ma sono destinate alla memoria di un passato umanistico, più che di un futuro tecnologico. L’ombelico delle geometrie nelle quali è iscritto l’umano è incandescente, luminoso, infuocato. Anche i corpi raggrinziti nell’attesa di un nuovo soffio vitale hanno un punto caldo, una tumescenza promettente, una diafania che addensa tratti umani intorno ai vortici dello spirito e della materia.

I dettagli originari dell’unica creazione reale, sopravvissuti alla simulazione fantascientifica di infiniti mondi virtuali, vengono collezionati e custoditi con infinito amore nelle piccole astronavi portatili di Giovanni Bonaldi. Una volta che queste miniature dell’origine siano guardate con il suo stesso sguardo, che si ritrae umilmente da ogni invadenza prometeica dal suo stesso gesto compositore, esse lasciano apparire le armoniche di una musica delle sfere che a poco a poco riscalda il cuore e apre la mente. 

Gli oggetti e le forme entrano in vibrazione, trasformandosi in campi di forze: se il nostro sguardo li incoraggia, essi prendono calore e movimento. Le larve giacomettiane diventano realmente il grembo di corpi in gestazione. E il vortice dei corpi in formazione diventa realmente il crogiolo nel quale il corpo e l’anima cercano di aderire entrambi, indisgiungibilmente, all’intero mondo dell’essere vivente: sino all’infinitesima particella, sino all’ultimo respiro. Le incarnazioni diventano anche ascensioni: ma i corpi in sospensione fra la terra e il cielo non perdono mai il loro polo terrestre di attrazione. 

Le lettere di Dio nascondono l’enigma del senso di ogni cosa: e poiché lo nascondono, lo custodiscono. Esso si deve ripresentare come puro inizio per ogni generazione. Il suo uso (e persino il suo abuso) lo impastano con la terra e la pietra, la carne e il sangue. Ma questo legame non consuma e non annulla l’origine. Intatta, essa si rende disponibile per ogni generazione. La Parola si fece carne e vi morì: ma non vi si estinse. Né se ne divincolò, per ritornare semplicemente com’era. Le sue tracce, indelebili come le striature di sangue che decorano infiniti sudari, sono diventate commoventi reliquie per ogni figlio dell’Uomo. Chiunque, ormai, vi si può riconoscere. Mai la Parola ritorna com’era, senza aver legato ciò che si era dissolto e sciolto ciò che viveva in costrizione.

La grammatica dei sensi spirituali attivata da Giovanni Bonaldi ha compiutamente riassorbito ed estinto il gesto puramente violento che sino a ieri sembrava indispensabile per la riconquista dell’origine e la riapertura di un varco nella simulazione -prima manieristica, poi tecnologica- dell’esistente. L’origine qui si riapre persuasivamente come un’attesa del tutto seriamente interrogante. Ma anche come un gesto dignitoso e grave, puro e scantrito: esteticamente e psicologicamente risolto. 

La negazione del già dato, pur necessaria per l’immaginazione di un mondo più reale di quello della semplice apparenza, mostra di non aver più bisogno di imprestiti deliranti e di provocazioni isteriche per darsi una forza che teme di non possedere in se stessa. La negazione, nella poetica di Giovanni Bonaldi, diventa perfetta purificazione dello spazio e del tempo. La spoliazione del decoro non necessario, il pudore rammemorativo del segno sacro, che riduce a citazione la parola e il mondo, sprigionano tutta la forza necessaria per la riapertura di una nuova innocenza, tra le infinite possibili. “Dall’immagine tesa vigilo l’istante, con imminenza d’attesa” (C. Rebora). 

Ci servono, le sue macchine del tempo, per non confondere la speranza che regge anche alle lunghe distanze (e Dio sa se ne abbiamo bisogno) con l’eccitazione che consuma rapidamente il proprio fuoco senza lasciare traccia: né di forme, né di forze. I suoi essenziali archivi, che custodiscono e mostrano i punti di congiunzione della lettera e dello spirito, sono oggetti transizionali fra l’arca dei viventi che sopravvive alla liquefazione della terra e l’arca delle parole che sopravvive all’estraniazione dell’esodo. Entrambe, si ricorderà, impegnano sul destino dell’uomo anche i cieli dei cieli.

Nessuna contraffazione del sentimento delle cose è possibile, dunque, che non possa sempre di nuovo essere smascherata. Nessuna parola può diventare così muta da perdere tutte le lettere in cui è scritta l’origine e la destinazione. Nessun grembo può diventare così vuoto di generazione da rinsecchire semplicemente su se stesso fino al nulla. E nessun legame terreno, per quanto semplice, è così privo di armonia da non poter congiungere, sulla musica di una sola corda, anche i punti più distanti dell’universo.

Mons. Pierangelo Sequeri



 
 
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