Matteo e lAntico Testamento -
5. Matteo 20,1-16 e 21, 33-44 L’argomento che affrontiamo nel quadro delle nostre ricerche sulla relazione del Nuovo Testamento col Giudaismo, è molto delicato, perché tocca un nervo scoperto nella storia dei rapporti tra le due religioni, ebraica e cristiana. Tradizionalmente, i cristiani, anche coloro che dal punto di vista religioso non sono aggressivi, si ritengono pacificamente i successori degli ebrei. Essi basano questa convinzione sul fatto che essendo Gesù Cristo colui che ha realizzato le promesse dell’AT, e nonostante ciò non essendo riconosciuto dagli ebrei, questi sono stati travolti e sorpassati dall’avvento del cristianesimo. Queste idee assumono talvolta dei risvolti che, se non implicassero dei fatti drammatici, sarebbero di certo comici. Un tale modo di pensare fa coincidere la storia reale con una convinzione di fede, così che ciò che per la fede è errato o inesatto, viene semplicemente destituito di esistenza propria. Ma basterebbe conoscere tutta la storia dell’ebraismo post-biblico, così ricca di pensiero e di religiosità, per vedersi contraddetti. In realtà, lo specifico cristiano, che è e deve rimanere unico, è un’opzione di fede fatta duemila anni fa da gruppi di ebrei che hanno riconosciuto in Gesù di Nazaret il Messia e il figlio di Dio e che hanno tramandato tale opzione alle generazioni a venire che avrebbero anch’esse creduto, venendo a costituire in seguito una vera e propria nuova religione. Tuttavia, il processo storico non è stato così semplice. All’inizio il giudaismo era come un’immensa galassia della quale facevano parte movimenti e partiti e corrispondenti aspettative e sistemi di pensiero. Pur essendo tutti di fede ebraica, la psicologia movimentista accendeva le polemiche e accentuava le divisioni così che ciascun gruppo si riteneva l’esclusivo Israele di Dio. È su questo sfondo che vanno situate le due parabole matteane di questo nostro contributo, ed anche se esse hanno dato adito ad un’interpretazione ecclesiologica di separazione e opposizione tra “Chiese”, siamo di certo lontani ancora dal momento in cui il cristianesimo diverrà una vera e propria religione nuova, che, come tutte le religioni esclusive, non riconoscerà alcun diritto agli altri credo religiosi (è un atteggiamento fondamentalista che la Chiesa cristiana ha tenuto in alcune epoche, ma che è tenuto anche dall’ebraismo e dalla terza religione monoteista, l’islamismo, quando sacrificano l’uomo immagine di Dio ad una visione integralista che soffoca l’anelito più autentico delle tre religioni abramitiche). Mt 20, 1-16 è la parabola degli operai chiamati da un padrone generoso nelle varie ore del giorno. La sua generosità consiste nel dare la stessa mercede a tutti i lavoranti, agli ultimi come ai primi chiamati. Se da un lato questo va contro la comune logica umana, come dimostrano le lamentele dei primi assunti, dall’altro rivela la logica di Dio, la quale, però, non offende la giustizia umana ma piuttosto ne discopre una certa ipocrisia: «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?» (vv. 13-15). È evidente che la giustizia non può essere mai offesa, neanche da un atto di generosità, ma è il concetto umano di giustizia che si rivela intimamente fragile: chi riceve per un contratto giusto e accettato, pretende ancora di più per invidia dell’altro, in nome di una giustizia che al fondo è solo, come diremmo oggi, “consumistica” ed egoistica. Trasferita su un piano più prettamente ecclesiologico, la parabola può fare riferimento alla capacità da Dio donata agli ultimi arrivati, i pagani, di entrare a far parte del suo regno. Ogni invidia va eliminata, perché senza fondamento, o meglio si scontra con la bontà misericordiosa di Dio, che sopravanza la “giustizia” retributiva di chi pensa di aver diritto naturale alla grazia di Dio, perché da più tempo con lui. Certamente, la parabola fa riferimento ai rapporti tesi tra i due gruppi religiosi, quello giudaico e quello cristiano; ma chi volesse vedervi sancita la sconfitta dell’ebraismo, non solo va al di là del testo in maniera anacronistica, ma tradisce il testo stesso. Difatti, se il racconto di Gesù ci rivela qualcosa dell’atteggiamento buono di Dio ed è un invito agli operai della prima ora (gli ebrei o i giudeo-cristiani) a non aver invidia dei nuovi arrivati (i pagani), è anche vero che esso trascende la contingenza storica per divenire, questo sì, un insegnamento di vita. Anche all’interno della comunità cristiana vi possono essere i primi e gli ultimi: ebbene, chi è dalla parte di Dio non può assolutamente nutrire invidia, perché tutto è gratuito, anche quello che “appartiene” ai primi. Come si può notare, con questa spiegazione siamo lontani da una interpretazione antigiudaica della parabola, che sarebbe per giunta errata. La parabola di Mt 21, 33-44 è invece più violenta e ancora più orientata della precedente in senso ecclesiologico. Si tratta della famosa parabola dei vignaioli omicidi. Il racconto è noto. Un padrone pianta una vigna per farla fruttare; alla vendemmia invia varie serie di servi per ritirare il raccolto, ma inutilmente, finché egli non decide di inviare lo stesso suo figlio, che invece verrà ucciso. Il giudizio finale è terribile: «Perciò vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato ad un popolo che lo farà fruttificare». Il riferimento alla storia della salvezza fino a Cristo, così come la presentava il kerygma (= predicazione) primitivo (cf. At 2, 14-36; 7) è evidente. Dietro queste parole vi sono le sofferenze di un gruppo che ha subito anche persecuzioni da parte di un altro gruppo di fede affine, quella giudaica, e che si è visto uccidere il proprio leader, il rabbi di Nazaret Gesù. Eppure, neanche questa così sofferta presentazione delle cose può legittimare una lettura semplicisticamente antigiudaica. In primo luogo, perché nella prima ora entrambi i gruppi condividevano la comune fede giudaica, anzi era in base ad essa che si giudicavano e condannavano a vicenda. In secondo luogo, perché bisogna storicizzare il racconto e non vi si può sovrapporre il susseguente atteggiamento più decisamente antigiudaico verso cui la Chiesa scivolerà, quando diventerà una potenza sociale e politica. In terzo luogo, infine, perché, la parabola, in quanto parola di Gesù, non può ricevere solo una lettura legata ad una contingenza storica, bensì deve elevarsi ad insegnamento teologico che ci dà in mano la chiave per interpretare la storia umana come una serie di vicende nelle quali, a prescindere dalla nazionalità o dalla stessa religione, l’uomo si mostra ricorrentemente avversario di quella grazia che Dio periodicamente gli invia. Un duro monito per tutti, per ebrei e per cristiani, anzi per gli uomini tout court. | indietro | | home | | inizio pagina | |