È un luogo comune che l’arte figurativa occupi
tradizionalmente un posto del tutto secondarlo nella
cultura ebraica, a causa del secondo dei dieci
Comandamenti che proibisce l’uso di immagini. A
prescindere dal fatto che la proibizione della Torah
riguarda non solo le immagini di uomini o altri esseri
viventi ma di tutte le immagini di ciò che si trova
sotto al cielo, i fatti storici sembrano almeno in
parte contraddire la rigorosità assoluta di tale
interdizione.
Dobbiamo liberarci dalla concezione errata secondo
la quale l’artista si limiterebbe a rappresentare
quasi fotograficamente gli oggetti della realtà
mentre persino nelle raffigurazioni classiche, che
tutti si illudono di capire a prima vista, si tratta
in realtà di un linguaggio che va tradotto o
interpretato articolandolo in concetti accessibili
alla nostra coscienza.
Questa considerazione vale in modo particolare per
l'arte moderna che ha saputo sviluppare con simbolismi
propri un linguaggio che opera al tempo stesso sulla
emotività e sulla razionalità di colui che la
ammira.
Noi, che apparteniamo al pubblico, diventiamo così
una specie di collaboratori dell'artista perché
qualunque linguaggio implica un dialogo fra colui che
trasmette il messaggio e colui che lo recepisce. In
questa logica, nei lavori realizzati dal maestro
Bonaldi mi pare che venga affermata la necessità
capitale per l'uomo di non vivere a livello della
natura ma di superarla, necessità non di disprezzarla
ma di controllarla, di dominarla e di non
accontentarsi di imitarla. Se per esempio, il corpo
umano è supposto venire al mondo compiuto, perfetto,
al contrario per la Torah questo corpo è
incompleto.
La circoncisione o brit mila, alleanza della
carne, interviene a perfezionare scoprendo l'organo
della procreazione, ma non si perfeziona aggiungendo
bensì togliendo, privando, come nella scultura. Un
bambino diventa ebreo soltanto all'ottavo giorno di
vita, quando ha compiuto una settimana (quindi uno shabbat)
più un giorno, quando ha superato lo statuto naturale
del sette (la perfezione naturale: i sette giorni
della settimana o le sette note musicali
do-re-mi-fa-sol-la-si, per tutti i popoli, non
soltanto per il popolo ebreo) per elevarsi al
registro dell'otto, simbolo, nella tradizione ebraica,
del marchio umano sulla natura. Il segreto del popolo
ebraico è che non vive a livello del sette,
dell'istinto, ma a livello dell'istinto controllato
dalla ragione, dunque il livello dell'otto.
E' pure importante non dimenticare che il messaggio
dell'artista ebreo non invita mai al culto idolatrico,
la avodà zarà, ma è un'esortazione a
crescere nella comune espressione di un antico dolore
e di una nuova sofferenza che vogliamo però leggere
come l’inizio della nostra redenzione. In questa
direzione l'opera che ci presenta Giovanni Bonaldi è
una sollecitazione, un regalo, un passaggio dal lutto
alla speranza, dalla tenebra alla luce.
Amos Luzzatto
Presidente Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Roma, 20 maggio 2003