Atti 2 - La Pentecoste Una premessa consuntiva Fino ad ora abbiamo condotto le nostre riflessioni sui vangeli. Abbiamo constatato come essi non possano essere compresi se non sullo sfondo dell’epoca nella quale sono vissuti Gesù e i primi discepoli. Anche chi per assurdo volesse conservare solo il Nuovo Testamento e ritenere inutile l’Antico, cadrebbe in una situazione grottesca: sarebbe come leggere un testo senza capirne la lingua. Ma quello che è ancora peggio, crederebbe di capire i vangeli e gli altri libri neotestamentari, solo perché sono stati tradotti nella propria lingua. Purtroppo questo è avvenuto in modo ricorrente nel passato; ma oggi gli strumenti critici che abbiamo, le maggiori conoscenze raggiunte e il rifiuto di una interpretazione faziosa e…ignorante, ci obbligano a leggere correttamente il vangelo. Il lungo cammino fatto dagli interpreti della Bibbia, le scoperte di sempre nuovi documenti dell’epoca, primi fra tutti, i testi delle grotte di Qumran, una località presso le rive del Mar Morto, dov’è vissuta per alcuni secoli una fiorente comunità giudaica in rotta col clero di Gerusalemme, tutto questo ci ha aperto gli occhi sull’epoca di Gesù, su come la pensavano, su quello che dicevano, su come vivevano. L’esperienza che i primi seguaci di Gesù hanno fatto è stata espressa non solo con la lingua corrente, l’aramaico, ma anche con i mezzi espressivi a disposizione per capire chi era Gesù, che cosa aveva fatto e che cosa voleva dai suoi seguaci. Gli esempi che abbiamo visto negli articoli precedenti fanno comprendere quello che sto dicendo. Una lingua non è un codice matematico, astratto e senza tempo, ma un codice vivo che riflette una visione della realtà: che cosa si crede, come si crede, che cosa si desidera. Il Nuovo Testamento è la risposta ebraica degli ebrei del I sec. d.C. a quello che storicamente è avvenuto e che li ha interpellati. Quello che abbiamo visto finora verrà confermato da un testo importante preso dal libro degli Atti degli Apostoli, scritto pure da Luca dopo il vangelo: l’episodio della Pentecoste al secondo capitolo. Dopo la Pasqua, ancora una festività ebraica
Sappiamo dai tre vangeli sinottici, Matteo, Marco e Luca, che Gesù istituì l’eucarestia nel quadro della celebrazione della pasqua ebraica. Il contenuto di quest’ultima, il ricordo della liberazione dalla schiavitù egiziana, non veniva eliminato dal Signore, ma inglobato in un nuovo e più ampio contenuto: la redenzione da lui apportata e resa accessibile sacramentalmente grazie all’eucarestia. Ora, secondo il calendario liturgico ebraico, sancito nella legge mosaica, dopo la festa della Pasqua nel primo mese, cioè a primavera, gli ebrei dovevano contare cinquanta giorni (“pentecoste” in greco, come greca è la parola “eucarestia”) e al cinquantesimo dovevano (e debbono) celebrare la “festa delle Settimane” (Lev 23,15-22). Tale avvenimento festivo si rifaceva ad un’antica festa agricola che cadeva nel terzo mese, quello delle messi. Israele, pur mantenendo questa antica cornice stagionale, aveva però sostituito al contenuto precedente uno nuovo, quello dell’alleanza al Sinai e del dono della Legge. Questa operazione, simile a quella fatta per la Pasqua, cioè la sostituzione di un rito antico con uno nuovo legato alla storia della salvezza d’Israele, è stata compiuta soprattutto a partire dall’epoca dopo l’esilio babilonese (VI-V sec. a.C), quando il popolo giudaico si è in qualche modo ri-fondato e ha aperto la strada a quella forma altissima di civiltà culturale e religiosa che sarebbe stato il giudaismo. Da allora in poi, la festa delle Settimane o di Shavuot era diventata per sempre la celebrazione del popolo liberato dalla schiavitù ed eletto da Dio ad essere il suo popolo mediante un’alleanza perenne, esplicitata e resa concreta dalla Legge di Mosé, da rinnovare annualmente nella liturgia, così come noi oggi rinnoviamo ogni anno le promesse battesimali. Negli ultimi secoli prima di Cristo, il rinnovo dell’alleanza tra Dio e il suo popolo è stato messo sempre più in relazione con lo Spirito Santo. Gli ebrei di quel tempo credevano fermamente che i profeti mandati in passato da Dio perché si convertissero dalla disobbedienza alla Legge all’obbedienza ad essa, fossero inviati e animati dallo Spirito di Dio. La parola con cui essi lo chiamavano, ruach, significava anche vento impetuoso, respiro, alito di vita. Lo Spirito richiamava quell’energia vitale presente quando Dio aveva creato il mondo (vedi Gen 1,2). Proprio quello Spirito era diventato la forza del carisma dei profeti (vedi Ez 2,2: “…uno Spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava…”). E tuttavia, la fallibilità della natura umana aveva prevalso e le disgrazie si erano abbattute su Israele: così dicevano i profeti. Ma essi amavano il proprio popolo e hanno prospettato ugualmente una salvezza futura, escatologica, una nuova alleanza animata dallo Spirito di Dio:
“Vi prenderò di tra le genti, vi radunerò da tutte le parti del mondo e vi condurrò al vostro paese. Vi aspergerò di acqua pura e sarete purificati da tutte le vostre impurità e da tutti gl' idoli con cui vi macchiaste. Vi darò un cuore nuovo e metterò dentro di voi uno spirito nuovo. Toglierò il cuore di pietra dal vostro corpo e vi metterò un cuore di carne. Metterò il mio spirito dentro di voi, farò sì che osserviate i miei decreti e seguiate le mie norme” (Ez 36,24-27; vedi anche Is 55,3). I profeti poi erano spariti e con loro, sembrava, anche lo Spirito divino. Il cielo non si apriva più e sembrava muto. Gli ebrei avevano però la parola divina pronunziata dai profeti e sapevano che un giorno si sarebbe avverata. Quel giorno, come aveva detto un altro profeta: “Ecco, tu (Gerusalemme) chiamerai gente che non conoscevi; accorreranno a te popoli che non ti conoscevano, a causa del Signore tuo Dio, del Santo d’Israele, perché egli ti ha onorato” (Is 55,5; leggi anche tutto il c. 60) . Questa è l’atmosfera e questa era la preparazione degli animi dei seguaci di Cristo il giorno della Pentecoste, così come ci riferiscono gli Atti degli Apostoli. Ancora una cornice liturgica ebraica (Atti 2,1), nella quale gli antichi contenuti si realizzano nelle forme e nelle espressioni che animavano le attese dei credenti ebrei. Lo Spirito di Dio, vento impetuoso, irrompe nell’assemblea di coloro (v. 2) che attendevano, secondo le istruzioni date da Gesù al momento dell’Ascensione (cf. Atti 1,4-7). È come se fosse avvenuta una nuova creazione. Lo Spirito Santo riempie i presenti e pone sulle loro lingue, come in passato per i profeti, un annuncio comprensibile a tutti i popoli della terra accorsi a Gerusalemme (vv. 4-11). La predicazione antica si fa realtà presente e realtà che anticipa il programma futuro della Chiesa: unificare in una comunicazione universalmente comprensibile, dopo che lo Spirito Santo ha abbattuto il muro d’incomprensione sorto in seguito al peccato della Torre di Babele (Gen 11,1-9), tutti i popoli della terra nella ricezione del messaggio di salvezza rivolto a tutta la famiglia umana. La promessa divina ad Abramo di divenire benedizione per tutte le genti della terra (Cf.Gen 12,3) era divenuta realtà. ____________________
La lunga citazione di quanto rimane del capitolo nel quale si parla dell’evento della Pentecoste è necessaria, perché sia davanti a noi il testo in tutta la sua pregnanza e il suo significato teologico. Come si diceva nella prima parte, la cornice di una festa ebraica, appunto la Pentecoste, offre ricetto al nuovo grande evento salvifico strettamente connesso con la Pasqua: la discesa dello Spirito Santo sulla prima comunità apostolica. Soffermarsi ad una comprensione piana e superficiale del testo biblico, quasi vi si leggesse una cronaca, non rende ragione della portata di quanto Luca vuole comunicarci. In realtà, egli usa un codice culturale, cioè lingua, immagini e concetti che devono significare questo: le attese ebraiche, i sogni, le figure che hanno nutrito generazioni di credenti fino a quel momento, con la morte e resurrezione di Gesù hanno raggiunto la loro piena realizzazione. La salvezza ultima e definitiva è descritta con le parole dei Profeti e dei Salmi, cioè con le Sacre Scritture (vedi la parabola del ricco Epulone in Lc 16,27-31, l’episodio dei discepoli di Emmaus in Lc 24,25-27); i particolari dell’episodio attingono all’interpretazione giudaica delle stesse Scritture, che si faceva in quel tempo. Pietro, capo della Chiesa nascente e primo interprete dei segni divini, cita dapprima Gioele 3,1-5 (Atti 2,17-21), il quale annunciava un futuro strepitoso caratterizzato da segni grandiosi: la capacità di ogni fedele, giovane o vecchio, uomo o donna, di vedere le prossime gesta salvifiche di Dio al suo arrivo nel grande “giorno di ”; la discesa su ciascuno dello Spirito Santo e la capacità di esser salvato dal tremendo giudizio divino, invocando il nome del Signore. Più avanti, Pietro cita il Sal 16,8-11 (Atti 2,25-28), che interpreta alla maniera giudaica, facendone cioè una profezia pronunziata da David, a quel tempo ritenuto anch’egli profeta, perché ispirato dallo Spirito divino (cf. 1 Sam 16,13) come tutti i profeti. Un’altra citazione dai Salmi si ha ai vv. 34s, dove è citato il Sal 110,1. Alla citazione dei Profeti e dei Salmi non si deve dimenticare di aggiungere quello che dicevamo nella prima parte di questo articolo e che ha a che fare con Genesi 11,1-9, la confusione delle lingue. L’evento di Pentecoste permette di abbattere il muro dell’incomprensione tra i popoli, facendo loro capire nella propria lingua l’annunzio evangelizzatore di Pietro (vedi al v. 6). Così, nella predicazione dell’Apostolo troviamo realizzato il principio interpretativo tanto caro a Luca e agli altri autori del Nuovo Testamento: l’evento di Gesù va interpretato e compreso sulla base della Legge (Genesi fa parte del Pentateuco, quindi della Legge), dei Profeti e dei Salmi (vedi ancora Lc 16,29; 24,27.44 e inoltre Mt 5,17-18). Ma, come si diceva sopra, non è semplicemente la Sacra Scrittura quella che illumina il senso di Atti 2, bensì anche le concezioni giudaiche diffuse in quel tempo e che venivano ormai via via trascritte in quelli che si chiamavano Midrashim, cioè traduzioni commentate dell’AT, e in quei testi che avrebbero costituito le tradizioni della successiva vasta letteratura rabbinica. Ad esempio, il Midrash del libro dell’Esodo racconta che al Sinai, allorché Dio si manifestò a Mosè per dargli la Legge (Es 19), i tuoni che si sentivano erano in realtà la voce di Dio che si suddivideva in settanta voci, cioè settanta lingue, tante quanti si credeva fossero i popoli della terra secondo Gen 10: il che voleva dire che la Legge vale per tutta l’umanità. Il filosofo ebreo Filone, contemporaneo di Gesù, commentando lo stesso brano afferma che la voce di Dio si articolava in parole rese visibili da forme di fiamma. Come si può notare, la somiglianza di tali immagini con quelle usate da Luca è sorprendente. Tutte queste immagini vanno poi inquadrate in quelle aspettative apocalittiche delle quali abbiamo già parlato. Il popolo d’Israele attendeva con ansia, immaginandoselo in modo fantasmagorico, il momento dell’avvento del Signore, con il quale egli avrebbe giudicato gli uomini e il mondo e avrebbe ripristinato per la seconda volta le istituzioni antiche, in maniera però definitiva e portentosa, perché opera dello Spirito creatore di Dio. Possiamo allora anche capire meglio il senso della conclusione dell’episodio di Pentecoste. Gli astanti chiedono compunti a Pietro che cosa debbano fare e Pietro risponde: «Pentitevi e fatevi battezzare nel nome di Gesù Cristo e riceverete il dono dello Spirito Santo» (vv. 37-39). Le parole di Gioele 3,5 trovavano finalmente il loro senso ultimo e la loro piena realizzazione: l’invocazione del nome di Gesù è la più bella affermazione del loro significato recondito. Si tratta dello stesso intendimento dell’inno cristologico che Paolo pronuncia in Fil 2,5-11: “… perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sottoterra e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre”. | indietro | | home | | inizio pagina | |