Vescovi europei e americani per un sostegno in Terra Santa

Preservare Gerusalemme, città una e trina
Intervista al Custode di Terra Santa, Padre Pizzaballa

“Un buon segnale di vicinanza ai fedeli di qui – dichiara p. Bouwen, missionario in Israele dal 1969 – e soprattutto un possibile aiuto economico per le scuole e le parrocchie cattoliche”.


“Non restare in silenzio davanti alla violenza e alla sopraffazione e promuovere la riconciliazione”. Con questo spirito partiranno i trenta vescovi della delegazione del Consiglio delle Conferenze episcopali europee (Ccee) e della Conferenza episcopale degli Stati Uniti d’America che da domani (fino al 19 gennaio) saranno in Terra Santa per una visita divenuta ormai una tradizione. A parlare è mons. Patrick Kelly, vicepresidente della Conferenza episcopale dell'Inghilterra e del Galles, cui spetta il coordinamento dei lavori della delegazione: “Le vicende della Terra Santa fanno parte integrante della nostra storia attuale. Stanno avvenendo grandi cambiamenti. 

Ariel Sharon potrebbe non far più parte della scena politica e ciò causerebbe grosse implicazioni, le incertezze intorno alle elezioni palestinesi sono fonte anch’esse di preoccupazione. Il modo in cui tutte queste vicende influenzano le sorti del medio Oriente ci spingerà, quest’anno, anche in Giordania. Raccomando la Terra Santa alle preghiere di tutti. Che a guidarci sia l’insegnamento di Gesù”.

La delegazione inizia il suo viaggio incontrando i giovani della Caritas di Ramallah. Nei giorni seguenti incontra le autorità palestinesi e israeliane, le popolazioni locali, giovani sacerdoti e seminaristi. Particolarmente significativa è la celebrazione pubblica della messa nella Basilica della natività a Betlemme, lunedì 16 gennaio. I vescovi si dirigono ad Amman dove la delegazione incontra per la prima volta il re di Giordania. Lì si discute della situazione del Paese e della situazione delle varie chiese cristiane presenti. [Importante dichiarazione del re di Giordania] La visita si conclude giovedì 19 gennaio a Gerusalemme con incontri con le autorità israeliane e palestinese, una conferenza stampa e con una celebrazione con la comunità melkita. [Comunicato emesso dai Vescovi]

“Rafforzare i legami che ci uniscono e mostrare concretamente che tutta la cristianità si interessa alla vita dei cristiani a Gerusalemme e in Terra Santa”. È questo, secondo padre Pierre Grech, segretario generale della Conferenza dei vescovi latini delle Regioni arabe (Celra), lo scopo della riunione della delegazione di vescovi rappresentanti il Consiglio delle Conferenze episcopali europee (Ccee) e degli Stati Uniti d’America in Terra Santa. La visita cade in “un momento delicato della vita politica israeliana e palestinese e sentire che come cristiani non siamo soli è importante. Non bisogna dimenticare Gerusalemme”.
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[Fonte: AsiaNews 13 gennaio 2006]

Sguardi nuovi sul destino della capitale.                        torna su
Preservare Gerusalemme città «una e trina»

Elio Maraone, su Avvenire del 20.1.2006

«Non bisogna svuotare Gerusalemme dei suoi abitanti arabi cristiani: occorre incoraggiarli a restare nella Città Santa perché essa mantenga la sua autenticità e identità». L’allarme e l’appello – legati al timore che l’impoverimento spirituale di Gerusalemme diventi irrimediabile – non sono nuovi, perché si ripetono dal 1948 (quando la città fu divisa in due) e si infittiscono dal 1967 (quando, con la guerra dei Sei Giorni, Israele si annesse anche la parte araba). Nuovo è invece il fatto che a lanciare allarme e appello sia re Abdallah II di Giordania, ossia il capo di un Paese moderato che sino al 1967 ha retto anche i Luoghi Santi, e che, soprattutto negli ultimi anni, ha caldeggiato una soluzione diplomatica del conflitto israelo-palestinese. Le parole di Abdallah II vanno riferite all’occasione (l’incontro del sovrano, martedì scorso, con 20 vescovi europei ed americani), ma nascono anche da un convincimento condiviso con esponenti dell’islam e dell’ebraismo, nonché, e in primo luogo, delle Chiese cristiane. Dal convincimento cioè che «la città della speranza e della pace» (per usare la vecchia e bella espressione ripresa martedì da Abdallah II), la città delle tre religioni monoteiste, va conservata nella sua identità insieme unitaria e trinitaria: è un’esigenza della verità e della giustizia, che sono fondamento della pace, e che dovrebbero esprimersi in tutta la regione, con conseguenze finalmente rasserenanti.

Quest’ultimo punto, in sostanza, hanno ricordato ieri a Gerusalemme, e cioè dopo aver incontrato Abdallah II, i pastori del coordinamento delle Conferenze europee e nordamericane a favore della Chiesa della Terra Santa; e tutto ciò nel rispetto del diritto alla piena sicurezza di Israele, che è legato ai diritti dei palestinesi. Tra questi diritti, aggiungono i vescovi, figura quello «della terra e dell’acqua», che si associa a quello della libertà di movimento e di intrapresa: condizioni per quello sviluppo economico che potrebbe arrestare la massi ccia, sconfortante emigrazione che affligge non soltanto il popolo cristiano, e non soltanto Gerusalemme. Di qui, e ancora da parte dei vescovi, l’appello a tutti i fedeli perché sostengano la Chiesa di Terra Santa in ogni modo e a tutti i governi perché si adoperino per una giusta pace.

Quella pace purtroppo tarda a venire, anche perché la «questione di Gerusalemme» continua a dividere. E se, per esempio, la città rimane per lo Stato di Israele capitale irrinunciabile e indivisibile, un’analoga rivendicazione viene avanzata dai palestinesi: con ciò respingendo tra l’altro, da entrambi i fronti, la saggia ipotesi di una garanzia internazionale per i Luoghi Santi, se non di una loro vera e propria internazionalizzazione. La situazione rimane difficile, aggravata (com’è stato ieri a Tel Aviv) dall’orribile ripresa dell’attività terroristica nell’imminenza delle elezioni palestinesi. Ma una soluzione va trovata e realizzata, se non si vuole che alla lunga, e tra l’altro, i Luoghi Santi diventino una sorta di grande museo, repertorio di vestigia antiche e non luogo di memoria ben viva e presente.

Tuttavia, qualcosa sta cambiando. Ieri, per esempio, è stato pubblicato dal giornale Haaretz un sondaggio secondo il quale oltre la metà degli israeliani, in cambio di un accordo di pace con i palestinesi, rinuncerebbe alla parte araba, e pure a qualcosa di più, di Gerusalemme (esclusa naturalmente la zona del Muro del pianto, sopra il quale si erge la Spianata delle moschee). Non è molto, ma è un segno di tempi che stanno cambiando. Anche in meglio.

Padre Pizzaballa: «Restare qui per dire no alla violenza»      torna su

«È un momento sicuramente difficile per i cristiani in Terra santa. Oggi rappresentiamo soltanto l'1,7% della popolazione. Chi resta, però, è motivato, e continuare a vivere qui, da cristiani, è anche una vocazione. Non diventeremo come la Turchia e il Nord Africa, dove la presenza cristiana è scomparsa. Ne sono convinto: anche se le difficoltà sono molte, abbiamo gli anticorpi».
Padre Pierbattista Pizzaballa è il giovane custode di Terra Santa. Bergamasco, quarant'anni, conosce molto bene le comunità cattoliche di lingua ebraica di Gerusalemme di cui ha avuto a lungo la cura pastorale. Grazie a lui, è stato fatto conoscere il cristianesimo anche all'interno dell'esercito israeliano.

Padre Pizzaballa, un nuovo attentato suicida ieri a Tel Aviv. È il sesto dallo scorso anno, quando è stato dichiarato il cessate il fuoco con le autorità palestinesi. Cosa possono fare i cristiani di fronte a questa violenza?
«L'unica testimonianza che noi cristiani possiamo dare in Terra Santa è il perdono. I nostri sforzi devono essere tutti rivolti a fare in modo che la logica della violenza non entri nelle nostre case».

Abdallah II, re di Giordania, ha lanciato un appello a non svuotare Gerusalemme di cristiani. Teme l'esodo e la scomparsa della comunità cristiana in Terra santa?
«La situazione è grave, ma non vedo un esodo che faccia temere la scomparsa dei cristiani. Attualmente siamo 175.000, un numero certamente ridotto, e con un basso tasso di natalità. Occorre aiutare economicamente e anche moralmente i cristiani di Terra Santa. I pellegrinaggi possono essere un sostegno in tale senso. E l'Italia ha un ruolo particolare, visto che il 70% dei pellegrini nei Luoghi Santi sono italiani».

Sono ripresi i pellegrinaggi, nonostante gli attentati?
«Grazie a Dio sono ripresi. Non siamo ai livelli del milione di italiani registrati nel 2000, ma comunque sono diverse centinaia di migliaia. Da una parte questo costituisce un importante aiuto economico per l'economia locale, dall'altra rafforzano la testimonianza cristiana in Terra Santa. Sono una espressione di solidarietà verso i cristiani che vivono lì. Ma la cosa più importante ancora è che i pellegrini diventano un modo per far conoscere la realtà locale. E oggi c'è un bisogno estremo di parlare di quanto accade. È un modo anche di far pressione sulle autorità locali, perché s'imbocchi una strada diversa».

Com'è oggi la situazione dei palestinesi?
«È drammatica. La tensione è molto alta. C'è il muro che divide e impedisce ogni normale attività, anche economica. A volte c'è la sensazione di sentirsi abbandonati. Perché ormai la situazione si può risolvere soltanto con un forte impegno internazionale».

Gli israeliani sostengono che il muro è richiesto da ragioni di sicurezza.
«Il muro è una sconfitta: il simbolo della situazione di incomunicabilità fra ebrei e palestinesi. Trasmette una tristezza infinita. Non si può giustificare per alcun motivo. Io capisco il bisogno di sicurezza di Israele, ma non posso accettare che la risposta sia una resa come il muro. Non posso condividerlo: invece che accettarlo dobbiamo lavorare per abbatterlo».

Da parte cristiana c'è grande interesse verso la cultura ebraica. In Israele che atteggiamento hanno gli ebrei verso i cristiani? C'è interesse a conoscere di più la cultura cristiana e a dialogare?
«La società israeliana è curiosissima nei confronti del cristianesimo ed è pronta al confronto e al dialogo con la Chiesa. Accade piuttosto che siamo noi cristiani non abituati a comunicare con gli ebrei. Per certi versi è più facile essere Chiesa in Palestina, dove hanno bisogno di tutto, di scuole, di ospedali. E noi siamo in grado di darglieli. Più difficile è in Israele dove non hanno bisogno delle nostre scuole e dei nostri ospedali: ne hanno loro di migliori. Il confronto avviene sul piano culturale, nelle università, nell'arte. E in questo non siamo molto pronti. Occorre attrezzarci per un confronto culturale alto».

Padre Pizzaballa, in Italia avete rilanciato la nuova sede delle Edizioni Terrasanta a Milano e avete rinnovato profondamente la rivista Terrasanta. Che cosa vi proponete?
«Il nostro obiettivo è quello di potenziare l'informazione sulla Terra Santa. Spesso se ne parla, ma solo per riferire di violenze e attentati. Occorre invece fare informazione sugli aspetti positivi e ce ne sono e sono molti. La Terra Santa è un patrimonio immenso di fede e di fedi. Vogliamo far conoscere che cosa fa la Chiesa. I cristiani non hanno solo la custodia dei Luoghi Santi. Vivono in questa terra martoriata, condividono il cammino con gli uni e con gli altri. Anche se siamo una minoranza, come cristiani vogliamo essere presenti e propositivi dentro la società israeliana e palestinese».

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