Ebraismo e spiritualità cristiana
Il testo seguente è tratto dal volume: Sofia Cavalletti, «Ebraismo e spiritualità cristiana», Roma, Editrice STUDIUM, 1966
Il sabato e la domenica torna
su
È noto che il giorno consacrato al Signore è presso i cristiani la domenica e presso gli ebrei
il sabato. Sembra quindi a prima vista che si abbia qui una netta divergenza di prassi liturgica; tuttavia se
osserviamo le cose con cura troviamo degli elementi che sembrerebbero indicare il contrario. Alcuni dei più antichi Padri
della Chiesa, come per esempio Ignazio d' Antiochia, accennano - anche se per riprovarlo - al costume diffuso fra i
cristiani di osservare il sabato. Sappiamo inoltre che nelle chiese orientali, ad eccezione di Alessandria, il sabato si
teneva riunione liturgica; e, mentre in alcune chiese occidentali si usava digiunare il sabato, l'oriente era tanto severo
al riguardo fino al punto da comminare la scomunica a chi lo avesse fatto, così come la Sinagoga proibiva agli ebrei di
profanare il giorno del Signore con una simile dimostrazione di penitenza. Secondo le «Costituzioni Apostoliche» (VII
23, 3, 4), il sabato era giorno festivo come la domenica; il primo era considerato commemorazione della creazione, il
secondo della risurrezione; solo il sabato santo non era
considerato festivo, perché non conveniva far letizia per la creazione, quando il Figlio del Creatore era disceso negli
inferi. Tutti elementi questi che distinguono comunque il sabato dagli altri giorni della settimana, e fanno quindi pensare
a influssi giudaici (1).
È indubbio - e risulta da testi assai antichi - che i cristiani solennizzavano la domenica come una
specie di «pasqua ebdomadaria», cioè come il giorno della risurrezione di Cristo. Ciò non toglie tuttavia che insigni
liturgisti (come il Duchesne, il Cabrol e altri) affermino che il culto cristiano domenicale costituisse il seguito e la
conclusione del culto sinagogale sabatico; i fedeli cioè, finito a sera il culto sinagogale - quando anche chi si trovava
lontano poteva spostarsi senza timore di infrangere le regole del riposo - si sarebbero riuniti per celebrare il Sacrificio.
Si ammette cioè una continuità di vita liturgica tra Sinagoga e Chiesa, così che la celebrazione del Sacrificio,
attraverso il quale la salvezza si compie, veniva a costituire il completamento di quella liturgia in cui la salvezza veniva
annunciata.
Si spiega così come nei testi più antichi si dica che i cristiani usavano «spezzare il pane»
durante la notte. Così avvenne ad es. a Troade, dove Paolo protrasse fino a tardi nella notte il suo parlare con i
discepoli, tanto che un giovanetto che si trovava fra loro, di nome Eutichio, fu preso dal sonno e poiché si era seduto
sulla finestra, cadde dal terzo piano e morì. L' Apostolo si gettò su di lui e lo riportò in vita e poi, risalito, Paolo
«spezzò il pane» e quando fu l'alba partì (At. 20, 7ss.). Solo in un secondo momento ci si sarebbe resi conto della
coincidenza tra la celebrazione liturgica domenicale e il giorno della risurrezione del Signore.
Il significato stesso che, in ambiente ebraico, si attribuiva al sabato doveva indurre a
restare fedeli a questo giorno; il sabato è figura del mondo futuro, esso è quindi legato al tempo messianico, quando «tutto sarà sabato e riposo per la vita eterna» (2). Concezioni queste che dovevano essere correnti al tempo di Gesù, e
che spiegano la frequenza con cui egli compie miracoli in giorno di sabato. Quello che alcuni considerano quasi una sfida
alla prassi religiosa del tempo è invece l'affermazione implicita che l'era messianica è giunta: le guarigioni
straordinarie sono un segno messianico, già predetto dai profeti (Is. 29, 19ss.; 35, 5ss. ecc.) e si addicono quindi in
modo particolare al sabato, figura del tempo messianico. Il Figlio dell'uomo è «padrone anche del sabato» appunto perché
è il Messia, e le guarigioni da lui operate, realizzano in un certo senso il sabato nel suo pieno significato, perché sono
la vittoria su quegli elementi negativi, che nel tempo avvenire dovranno sparire del tutto. Anche nella Epistola agli Ebrei
del resto si parla del settimo giorno come del riposo riservato al popolo di Dio ( 4, 9). Solo più tardi si elabora in seno
alla Chiesa la simbologia dell'ogdoade, simbologia che, venuta dall'oriente, viene applicata alla domenica. Nell'epistola
del pseudo Barnaba (II sec.) si dice infatti che il tempo in cui il Signore darà riposo a ogni cosa sarà l'«ottavo
giorno», quel giorno che sarà « l'inizio di un nuovo mondo ».
Le festività autunnali e il ciclo di Natale-Epifania torna
su
Se per il cristiano la domenica è - come abbiamo detto - «una pasqua ebdomadaria», nella quale cioè si vive in
modo particolare il grande mistero cristiano, è anche vero che tale mistero, data la sua ricchezza e complessità, viene
presentato ai fedeli nei suoi vari aspetti, in occasione delle feste che si susseguono nell'anno liturgico. Quello che serve
a mettere in risalto il diverso carattere dei tempi che lo costituiscono sono in particolare le letture scritturistiche, che
variano di giorno in giorno. Ma a questo proposito dobbiamo ricordare che anche la Sinagoga ha un suo anno liturgico, e che
fra esso e quello cristiano esistono punti di contatto e assomiglianze notevoli.
Attualmente l'inizio dell'anno nella Chiesa ricorre nel tardo autunno, cioè la prima domenica di
avvento, il periodo che prepara al natale, perché, come diceva il Cabrol « con la venuta di Cristo tutto comincia nella
Chiesa ». Non fu però sempre così, e restano ancora chiare tracce di un altro inizio dell'anno, legato invece al ciclo
pasquale; il più antico lezionario della Chiesa romana suppone un ciclo di letture che cominci la notte di pasqua e si
concluda il sabato santo, e anche Ambrogio parla della pasqua come del principio dell'anno. Ancor oggi del resto l'Ufficio
divino comincia a leggere il primo libro biblico, la Genesi, all'inizio del periodo preparatorio alla pasqua, e cioè a
settuagesima.
Questa duplicità d'inizio dell'anno affonda le sue radici non solo nel mondo ebraico, ma
addirittura in quello semitico in genere. Sembra che gli antichi popoli semiti come i fenici, i moabiti egli edomiti,
iniziassero l'anno in autunno, mentre presso i babilonesi e assiri pare che il capo d'anno autunnale sia stato messo
nell'ombra - forse al tempo di Hammurabi - da una festa simile in primavera. Parecchi fatti fanno pensare che in una certa
misura anche nella Bibbia abbiano coesistito due inizi di anno: uno in autunno nel mese di tishrì (settembre-ottobre),
e uno in primavera nel mese di nisan (marzo-aprile). Nei testi rabbinici post-biblici si parla addirittura di quattro
inizi dell'anno, di cui due però sono di maggior importanza, e cioè quello primaverile nel mese di nisan, in base
al quale si computano le feste religiose, e quello autunnale nel mese di tishrì, in base al quale si calcola il
numero degli anni.
Nella tradizione giudaica, l'inizio dell'anno è collegato alla creazione del mondo, quasi ne fosse
una ripetizione, e fra gli antichi Rabbini c'era chi diceva che il mondo era stato creato a primavera, nel mese di nisan (Rabbi
Giosuè, I sec.), e chi sosteneva invece una creazione in autunno, nel mese di tishrì (Rabbi Eliezer, I sec.).
Comunque stessero le cose, sia l'anno liturgico ebraico che quello cristiano comprendono due grandi
cicli festivi, uno autunnale e uno primaverile quello ebraico, e uno legato alla festa di natale e uno alla festa di pasqua
quello cristiano.
Il ciclo autunnale ebraico è assai complesso e comprende tre festività:
il capo d'anno, il giorno
d'espiazione, la festa delle capanne. Pur formando un ciclo unico, ciascuna di queste feste presenta un carattere
particolare. A capo d'anno si ritiene che il Signore giudichi gli uomini e ne fissi i destini per l'anno che comincia; è il
giorno in cui - secondo alcuni - il mondo è stato concepito e nel quale si attende la venuta del Messia, mentre al suono
della «grande buccina» tutti i dispersi d'Israele si raduneranno e verranno a prostrarsi sul Monte santo di Gerusalemme.
Ma già il giorno d'espiazione, e quindi la consapevolezza della peccaminosità umana, proietta la sua ombra, e alla vigilia
di capo d'anno, prima dell'alba, Israele comincia a invocare da Dio il perdono dei peccati. Capo d'anno è quindi
essenzialmente la festa del rinnovamento: tra i due grandi momenti della storia del mondo, quello primordiale e quello che
si attende alla fine dei tempi, si pone il rinnovamento morale attraverso il perdono dei peccati. Ma anche il natale segna
un nuovo principio per il mondo, e già Girolamo lo accosta al capo d'anno ebraico, perché ambedue feste del rinnovamento.
Anche i periodi di preparazione al capo d'anno e al natale presentano delle assomiglianze. Presso
gli ebrei, dopo il giorno 9 del mese di av (luglio-agosto) nel quale si ricorda la distruzione del Tempio, seguono i
così detti sette «sabati di consolazione». Gli studiosi ritengono però che in origine si dovesse piuttosto parlare di
un sabato di consolazione che seguiva il 9 di av - come un sabato di lutto lo precede - e di sei sabati di
preparazione al capo d'anno; in quest' ultimo caso troveremmo una coincidenza con l'antica prassi della Chiesa, perché da
documenti anteriori a Gregorio Magno risulta che il periodo di preparazione al natale, l'avvento, durava sei settimane (com'è
tutt'ora nel rito ambrosiano).
Già nei « sabati di consolazione » possiamo riscontrare il duplice carattere, penitenziale e
messianico nello stesso tempo, che informa il ciclo autunnale nel suo assieme. Per quattro settimane - numero che
corrisponde alla durata odierna dell'avvento romano - sono prescritte speciali preghiere, dette «Perdoni», che si
intrecciano con le letture tutte pervase di speranza messianica. Fra esse ricordiamo Isaia (40, 1-26): «Consolate,
consolate il mio popolo», il testo in cui il profeta invita ad appianare e a raddrizzare le strade per facilitare l'
avvento del Messia; e Isaia (60, 1-22): «Sorgi e risplendi Gerusalemme», passo in cui il profeta vede già brillare lo
splendore del Signore sopra la Città santa.
Nella Chiesa, il solo nome di « avvento » aveva un particolare significato messianico; infatti in
origine non significava un periodo di preparazione alla nascita di Gesù sulla terra, ma l'attesa della sua parusìa alla
fine dei tempi. Tale carattere si riscontra in alcune letture, letture che corrispondono a quelle sinagogali a cui abbiamo
accennato. Il sabato della III settimana di avvento si legge ad esempio Isaia, che dice:
« Su un alto monte sali, annunciatrice di Sion;
alza potentemente la tua voce, annunciatrice di Gerusalemme...
dì alle città di Giuda: 'Ecco il vostro Dio' » ecc. (Is. 40, 9ss.).
E il giorno dell'epifania si legge lo stesso capitolo e gli stessi versetti del profeta Isaia (60, 1-6), che gli ebrei hanno
ascoltato nel penultimo «sabato di consolazione» prima di capo d'anno.
Il carattere penitenziale è diffuso in tutto il tempo di avvento; precisi elementi liturgici
sinagogali di questo carattere non si ritrovano però esattamente in avvento, quanto piuttosto nelle «tempora»
di
settembre o addirittura spostati in quaresima; e ciò probabilmente in conseguenza del fatto che l'avvento non ebbe
carattere penitenziale fin dal principio. Tuttavia il Salmo 85 (84) ad esempio, di contenuto penitenziale, viene recitato sette
volte in avvento, tanto che può essere definito il salmo proprio di questo tempo, perché ne interpreta assai bene lo
spirito:
« Sei stato benevolo, o Signore, con la Tua terra,
hai fatto tornare i prigionieri di Giacobbe.
Hai cancellato il peccato del Tuo popolo,
hai coperto ogni loro mancanza ».
Dalle antiche omelie ebraiche risulta che esso faceva parte della liturgia del sabato shuba, cioè del sabato che
segue immediatamente il capo d'anno e precede il giorno di espiazione, ed è quindi il sabato della penitenza (come è
indicato dal nome: shubh, tornare, pentirsi, convertirsi). Altri elementi della liturgia dello stesso sabato - e
precisamente le letture profetiche di Osea (14, 2-10) e Michea (7, 18-20) - si ritrovano invece nel venerdì e nel sabato
delle «tempora» di settembre.
Notiamo infine un ultimo elemento comune: la Chiesa, il giorno dopo natale, celebra la morte
del primo martire, Stefano; gli ebrei, il giorno dopo capo d'anno, digiunano a ricordo dell'uccisione di Gedaljah, che la
Sinagoga venera come uno dei suoi principali martiri, perché, lasciato in Giudea da Nabucodonosor in qualità di
governatore, fu vittima del re ammonita, Baalis.
Abbiamo quindi, nel natale e nel capo d'anno, tutto un complesso di elementi comuni, che
difficilmente può essere fortuito, e ancora meno ci sembrerà tale quando vedremo che esistono punti di contatto anche fra
le altre due festività dello stesso ciclo: epifania e festa delle capanne. I farisei avevano dato grandissima importanza a
questa festa, introducendovi - come abbiamo accennato - degli elementi a carattere popolare, severamente criticati dai
sadducei. Essa aveva carattere spettacolare e festoso: si facevano processioni, agitando rami di palma e di salice; si
suonavano i flauti; si accendevano nel Cortile delle Donne nel Tempio giganteschi candelabri, e tanta era la luce che essi
spandevano che - dice la Mishnah (3) - non c'era cortile nella città che non ne venisse illuminato. Gli uomini più
autorevoli danzavano intorno ai candelabri, mentre i leviti suonavano le cetre e le trombe. Un elemento importantissimo di
questa festa era inoltre la libazione d'acqua, che si faceva sull'altare per propiziare la pioggia. Era quindi
sostanzialmente una festa dell'acqua e della luce, elementi che ritroviamo nella tradizione liturgica
dell'epifania in oriente.
Si usava colà chiamare l' epifania « giorno delle luci » e la pellegrina Egeria (IV sec.), che ci
ha lasciato il più antico itinerario di pellegrinaggio in Palestina, ci racconta come si usasse, almeno a Gerusalemme,
solennizzare la festa con grande abbondanza di luci; la pellegrina descrive ammirata lo splendore degli arredi e in genere
della decorazione delle grandi basiliche costantiniane in quell'occasione, emette in particolare risalto i «luminari»
che splendevano oltre misura nella rotonda della Basilica della Resurrezione, dove i pellegrini, provenienti da Betlemme si
recavano prima che facesse giorno. Il fulgore delle luci di epifania ha affascinato anche i Padri e ne troviamo il riflesso
nelle loro omelie. Gregorio di Nazianzo ad esempio, parlando in questa occasione sul battesimo, traccia una specie di «storia sacra» della luce: comincia dal primo bagliore di essa alla creazione, e menziona poi, lungo il cammino dei secoli,
la luce che apparve a Mosè nel roveto, quella che guidava Israele nel deserto, e via via fino ad arrivare a quella
fiaccola, che i battezzati recheranno in mano alla fine del rito, e che prefigura «quella processione celeste delle luci,
con cui lassù noi andremo incontro allo Sposo».
Oltre l'elemento luce, ritroviamo, nell'epifania in oriente, anche l'elemento acqua. Si usava
infatti in questa occasione benedire l'acqua, cerimonia che aveva un'origine palestinese: i cristiani in Palestina si
recavano al Giordano, nel luogo tradizionale del battesimo di Gesù, e versati nell'acqua vasi pieni di balsamo, veniva
conferito il battesimo ai catecumeni. L' epifania era quindi legata al battesimo; ciò si spiega con il fatto che in tale
festività convergono le celebrazioni di varie manifestazioni di Gesù: l'occidente com-memora soprattutto la visita dei
Magi, e quindi la manifestazione di Cristo come Signore e Re di tutte le nazioni; l'oriente invece celebrò soprattutto in
questa occasione il battesimo di Gesù al Giordano, cioè l'avvenimento in cui si era manifestata la sua divinità,
attraverso la testimonianza solenne del Padre. Dalla commemorazione del battesimo di Gesù era facile passare alla
celebrazione di quello dei catecumeni, passaggio forse facilitato dall'abitudine dei « luminaria » che induceva ad un
accostamento tra la festa detta « giorno delle luci » con il battesimo, che già Paolo chiamava «illuminazione».
È significativo che gli elementi acqua e luce - che convergono ambedue nella
simbologia battesimale - si trovino nella liturgia orientale dell'epifania, mentre in occidente viene addirittura riprovata
l'usanza di conferire il battesimo in questa occasione. È evidente che in oriente l'influsso dei costumi giudaici era più
sentito, e forse in quelle luci che Eteria ammirava stupita c'era ancora il ricordo di quella luminaria nel Tempio, che i
Rabbini chiamano «la grande innovazione» dei farisei.
Le festività primaverili e il ciclo di Pasqua-Pentecoste torna
su
Anche la festività primaverile ebraica si articola in due solennità: pasqua e pentecoste,
nelle quali a un primitivo sostrato naturistico si è sovrapposto il carattere storico, prettamente israelitico. La pasqua
è la festa della liberazione dall'Egitto, la pentecoste commemora il dono della Legge al Monte Sinai. I testi a carattere
mistico parlano di «fidanzamento» tra il Signore e Israele a pasqua, e di «nozze» a pentecoste.
La pentecoste ebraica ha, nella Bibbia, un carattere di festa di ringraziamento per il raccolto,
che, a quel momento dell'anno, sta per terminare, carattere che risulta ancora chiaro dalla liturgia dell'antica Sinagoga,
mentre si è andato poi attenuando, poiché si è venuto a sovrapporre ad esso la commemorazione del dono della Legge. La
liberazione o la «redenzione» d'Israele, che ha avuto inizio con l'esodo, - e che si commemora a pasqua - si completa
solo quando Dio dà la Legge al Suo popolo, perché è la Legge che fa d'Israele il vero popolo di Dio. Non possiamo
stabilire la data in cui si è verificato questo cambiamento, ma lo troviamo già documentato in epoca assai antica,
pre-talmudica, perché già un testo (4) che risale ai due primi secoli dopo Cristo, riferisce una tradizione, secondo cui
si leggeva in questa occasione il brano scritturistico, che racconta il dono della Legge sul Monte Sinai (Es. 19). È una
tradizione che coesiste accanto ad un'altra, secondo cui si legge invece: «Conterai sette settimane dal giorno (di pasqua)
nel quale avrai messo la falce nel grano e celebrerai la festa delle settimane (pentecoste) al Signore Dio tuo» (Dt. 16,
9ss.), testo cioè in cui è messo in evidenza il carattere agricolo della festa. Gli studiosi ritengono che questo
cambiamento si sia verificato sotto l'influsso della Chiesa, che commemora a pentecoste l'effusione prodigiosa dello Spirito
Santo - prova evidente dell'avvento dell'era messianica - che viene a suggellare .la nascita della Chiesa di Cristo e quindi
la promulgazione al mondo intero della Legge rinnovata. Nella stessa occasione anche la Sinagoga avrebbe voluto affermare
che il Signore si è manifestato a Israele, e le letture profetiche sarebbero state scelte per sottolineare il carattere
teofanico della festa. Si legge infatti « la visione del carro » in Ezechiele (1, 1ss.), dove egli descrive come gli
apparve la «Gloria del Signore»: «...vi era qualcosa come pietra di zaffiro in forma di trono e su questa specie di
trono, su, in alto, una figura in sembianze umane. Da ciò che sembravano i suoi lombi in giù mi apparve come fuoco. Era
circondato da uno splendore, il cui aspetto era simile a quello dell' arcobaleno che sta nelle nubi in un giorno di pioggia». Anche Abakuk (3, 3ss) parla del Signore che «viene», la cui maestà riempie i cieli e delle cui lodi è ripiena la
terra.
Risale a epoca remota d'altra parte la prescrizione di leggere a pentecoste il Libro di Ruth,
evidentemente perché si vedeva una relazione tra il carattere della festa e lo sfondo agricolo della storia dell'ava di
David; un tardo midrash tuttavia cerca di mettere nell'ombra tale aspetto, e dice che si ricordano in quell' occasione le
sofferenze di Ruth, per insegnare che la sofferenza è stata necessaria a Israele per ottenere il dono della Legge. Si cerca
cioè di mettere in evidenza un elemento che non è primario nel Libro di Ruth, pur di riuscire a collegarlo con una
pentecoste, nella quale prevalga il carattere di festa della Legge e non di festa naturistica.
Nella Chiesa invece si sono conservate varie letture che rispecchiano il carattere agricolo della
pentecoste, carattere che non rispecchia in alcun modo quello della festa cristiana; esse sono: ...«quando sarete entrati
nella terra che vi darò e farete la mietitura ecc. (Lv. 23, 9-22);... «Parla ai figli d'Israele e
dì loro: se
camminerete secondo i miei precetti, se osserverete i miei comandamenti e li metterete in pratica, io vi manderò le piogge
a tempo giusto, la terra darà il suo prodotto, le piante saranno cariche di frutti» (Lv. 26,3-12);... «quando sarai
entrato nella terra che il Signore Dio tuo sta per darti... prenderai le primizie di tutto il tuo raccolto, le metterai in
una cesta e andrai al luogo scelto dal Signore Dio tuo, perché vi sia invocato il Suo Nome»... (Dt. 26, 1-11 ). Si tratta
di letture che non fanno più parte della liturgia sinagogale odierna, e in questo caso è proprio la Chiesa ad aver
conservato intatta la più genuina tradizione liturgica ebraica. Abbiamo quindi qui un interessante caso di scambio tra
Sinagoga e Chiesa, in cui ciascuna di esse ha ricevuto qualcosa dall'altra e nello stesso tempo ha dato.
Di carattere un po' diverso sono le relazioni che uniscono invece la liturgia cristiana ed ebraica
di pasqua. I punti di contatto sono qui tanti che possiamo accennare solo ai principali. Come per gli ebrei, anche per i
cristiani la pasqua è la festa della liberazione, e il rapporto tipologico tra essa e l'esodo dall'Egitto è uno dei temi
più diffusi nelle omelie dei Padri. Abbiamo già accennato al fatto che in occidente si conferiva il battesimo ai
catecumeni all'inizio della veglia pasquale, a significare che, come Cristo in quella notte era passato dalla morte alla
vita, così il neofita nasceva a vita nuova. E i Padri dicevano che come Israele era diventato il libero popolo di Dio,
passando prodigiosamente attraverso le acque del Mar Rosso, così il catecumeno, passando attraverso le acque battesimali,
si liberava anch'egli da una schiavitù, quella del peccato, ed entrava nel rinnovato popolo di Dio. Come gli ebrei erano
stati liberati dalla morte in Egitto per mezzo dell'agnello, il cui sangue aveva allontanato dalle loro case l'angelo
sterminatore, così i cristiani ricevono la vita eterna in grazia del sangue dell'Agnello di Dio. Tradizioni queste costanti
nella Chiesa, e che sono ancora evidenti nell'odierna liturgia pasquale.
I punti di contatto tra la festività pasquale ebraica e quella cristiana non si limitano alla
sola festa, ma si ritrovano lungo tutto il tempo di preparazione, durante il quale accade talvolta che ancora adesso Chiesa
e Sinagoga leggano ritualmente gli stessi passi scritturistici. Possiamo quindi constatare l'esistenza di assomiglianze nel
carattere delle feste e nei dettagli liturgici di esse.
Nel 3° sabato di preparazione alla pasqua si legge ad esempio nella Sinagoga il testo di Numeri
(19, 1-22), che contiene le prescrizioni per la preparazione di quell'acqua, che doveva servire per la purificazione dei
figli d'Israele, che avessero contratto qualche impurità; la lettura profetica che segue è tratta da Ezechiele (36, 18-38)
che parla «dell'acqua pura», che il Signore verserà sopra il Suo popolo nell'era messianica, e che lo purificherà da
ogni sozzura. Il tema del sabato è quindi l'acqua, partendo dalla purificazione presente d'Israele e arrivando a quella
escatologica.
Nella Chiesa, in molte delle letture della 3° settimana di quaresima, ricorre il tema dell'acqua,
cominciando dal lunedì in cui si legge la guarigione di Naamano Siro, operata nelle acque del Giordano; il venerdì è
riservato al racconto dell'acqua che Mosè fece scaturire dalla roccia nel deserto, lettura che è seguita da quella
concernente la conversazione di Gesù con la samaritana al pozzo, durante la quale Gesù dice alla donna di poterle dare «
acqua viva ». Il Vangelo del mercoledì comincia con la domanda: « Perché i tuoi discepoli trasgrediscono le tradizioni
degli antichi? Infatti non si lavano le mani, quando mangiano il pane ». Il carattere polemico della domanda prende maggior
risalto, se si tiene presente che forse la Chiesa leggeva questo testo a titolo di risposta alla lettura sinagogale, che
parlava di purificazione a carattere legale. Altrettanto polemico è forse il Vangelo del martedì della stessa settimana,
che riporta le parole con cui Gesù conferisce agli apostoli il potere di perdonare i peccati; si vuole forse con esso
affermare che non l'acqua rituale rimette i peccati, ma il perdono che Dio concede attraverso il ministero dei Suoi
sacerdoti. In questo caso cioè non avremmo una corrispondenza diretta fra le letture, ma quella sinagogale avrebbe
costituito lo spunto polemico di quelle della Chiesa. Ritroviamo invece nel lezionario cristiano la lettura profetica
d'Ezechiele (36), concernente « l'acqua pura » della purificazione escatologica, ma spostata al mercoledì della settimana
seguente.
Qualcosa di simile può dirsi della liturgia del 2° sabato di preparazione alla pasqua, che è
chiamato dagli ebrei il sabato « Ricordati » e ha per tema principale il ricordo di Amaleq, che assalì proditoriamente gli
ebrei nel deserto. La Messa della 2° domenica di quaresima comincia con il salmo: « Ricordati, o Signore, delle Tue
misericordie » e invece di far menzione di Mosè che, sul monte, con le mani levate, ottiene la vittoria sugli
amaleciti, si legge nel Vangelo il racconto della Trasfigurazione di Gesù sul monte. Con lo stesso salmo: «
Ricordati, o Signore, delle tue misericordie » comincia anche la Messa del mercoledì delle quattro tempora di quaresima,
durante la quale si legge anche di Mosè che sale sul Monte Sinai e di Elia che si dirige al Monte di Dio, il
Monte Horeb.
Il 4° sabato di preparazione alla pasqua ebraica viene detto « Il mese » dal testo di Esodo (12,
1-20), che ne costituisce la lettura e che comincia appunto con le parole: «Questo mese sarà per voi il principio dei
mesi, il primo dei mesi dell'anno»; il passo contiene le prescrizioni per l'immolazione dell'agnello pasquale e viene letto
dalla Chiesa il venerdì santo. La lettura ha qui un chiaro carattere tipologico: quell'agnello che con il suo sangue salva
gli ebrei dalla morte è «tipo», cioè «figura», preannuncio, dell'Agnello di Dio, che con il suo sangue toglie i
peccati del mondo e salva quindi dalla morte eterna.
L 'ultima riforma liturgica della Chiesa, riducendo il numero delle letture durante la veglia
pasquale, ha tolto quella di Ezechiele 37, cioè quella della visione delle «ossa aride» che si rivestono di carne, alle
quali il Signore ridà il Suo spirito e tornano a vivere; il profeta assiste al prodigio e vede quelle che non erano che
ossa prive di vita rizzarsi in piedi al soffio dello spirito e diventare un esercito grande oltre misura: è il popolo del
Signore, che viene ricondotto nella terra d'Israele. Lo stesso testo viene letto nella Sinagoga in occasione della pasqua.
Alcuni elementi del ciclo autunnale ebraico sono confluiti invece - come abbiamo accennato - nella
pasqua cristiana, perché quel perdono che gli ebrei invocano nel gran giorno d'espiazione viene ottenuto per i cristiani
attraverso il sacrificio di Cristo.
La Sinagoga nel giorno di espiazione riascolta l'ordine ricevuto dal profeta Isaia:
« Grida a gran voce, senza posa;
come una buccina alza la voce
e annuncia al mio popolo le sue scelleratezze
e alla Casa di Giacobbe il suo peccato »
e nella stessa occasione le viene presentato un programma di rinnovamento di vita: non si
dovrà più digiunare e vestirsi di sacco, «piegare come un giunco la testa» in falso atteggiamento penitenziale,
serbando nello stesso tempo in cuore malevolenza contro il prossimo, e conservando vivo l'interesse per loschi guadagni; non
è questo il digiuno che possa apprezzare il Signore, ma piuttosto:
« Rompete i legami della malvagità,
sciogliete i vincoli del giogo,
rimandate liberi gli oppressi,
e infrangete ogni giogo.
Spezza il tuo pane all'affamato
e il povero ramingo conduci a casa tua.
Quando vedi un ignudo rivestilo
e non ritrarti da chi è carne tua.
Allora eromperà come alba la tua luce
e la tua guarigione sollecita verrà;
camminerà davanti a te la tua giustizia
e la gloria del Signore ti raggiungerà.
Tu chiamerai e il Signore ti risponderà,
tu griderai ed Egli ti dirà: 'eccomi'! » (Is. 58, lss.).
Lo stesso monito e lo stesso programma la Chiesa propone ai suoi
fedeli il venerdì dopo le Ceneri.
Se la Sinagoga a capo d'anno rievoca il Sacrificio di Isacco, per merito del quale tanti benefici
sono venuti a Israele, la Chiesa, prima dell'ultima riforma liturgica, ricordava a pasqua la grande prova del patriarca
Abramo, e in quel sacrificio non compiuto vedeva la prefigurazione di un altro Sacrificio, nel quale il sangue sarebbe stato
realmente sparso a redenzione del genere umano.
Recenti studi (5) d'altra parte hanno fatto sorgere il dubbio che, in epoca assai remota, il
sacrificio d'Isacco avesse una parte nella liturgia sinagogale di pasqua; solo quindi in un secondo momento la menzione di
esso si sarebbe spostata nel ciclo festivo autunnale. Se tali supposizioni fossero esatte, si avrebbe forse qui una
situazione simile a quella che abbiamo segnalato a proposito della pentecoste: la Chiesa cioè sarebbe stata più
conservatrice della Sinagoga, e forse la Sinagoga avrebbe modificato il suo rituale in polemica con la Chiesa.
Se ci soffermiamo quindi a considerare le letture liturgiche della Sinagoga e della Chiesa non
possiamo non accorgerci dell'esistenza di relazioni tra di esse. Talvolta pare sia la Sinagoga ad avere influito sulla
Chiesa, talvolta succede il contrario. Si può riscontrare in certe occasioni una vera e propria continuità di culto,
mentre altre volte abbiamo osservato una certa opposizione a carattere polemico.
Abbiamo accennato qui soltanto ad alcuni punti più evidenti è importanti, senza soffermarci sui
dettagli; tuttavia anche quanto è stato detto ci sembra sufficiente per constatare tutto un intrecciarsi di relazioni tra
Sinagoga e Chiesa, relazioni che mostrano l'esistenza di una certa comunità di vita tra di esse e indicano come, lungo i
secoli e fino ai nostri giorni, la liturgia cristiana della Parola non abbia dimenticato di essere nata in un lontano giorno
nella sinagoga di un villaggio di Galilea.
__________________
(1) RIGHETTI, II 18 55, 29 5.
(2) Tam., 7,4.
(3) Suk., 5, 3.
(4)Tos. Megil., 4.
(5) R. LE DEAUT, La nuit pascale, Rome 1963, 133 55.
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