Ariel Di Porto, su shalom.it di aprile
2003 (note a cura di LnR)
(*)
L'anno ebraico è scandito da varie
ricorrenze che ricordano gli eventi succedutisi dalla creazione e
che ricordano la storia degli ebrei. Le principali feste ebraiche sono legate alle stagioni e ad
antiche tradizioni agricole pastorali.
Il calendario ebraico comprende cinque feste maggiori di origine
biblica.
:: Shavuot e Pentecoste
Il periodo che va da Pesach a Shavuot
è
caratterizzato dalla mitzwà della sefirath ha-'omer =
conta dell'Omer [1] (in
questa circostanza dell'orzo),
che è basata sulla considerazione che il fondamento dell'esistenza del
popolo d'Israele risiede nella Torà. L'uscita dall'Egitto, che viene
celebrata attraverso la festa di Pesach, chiamata nella Tefillà zeman
cherutenu (tempo della nostra libertà), acquisisce significato
solamente in relazione alla ricezione della Torà, che ricordiamo con la
festa di Shavuot, zeman matan toratenu (tempo del dono della nostra
Torà). [2] Nel libro di Shemot (3,12) troviamo un accenno a tale idea: "Io sarò
con te, e la riprova che Io ti ho dato l'incarico, sarà che una volta
avvenuta l'uscita del popolo dall'Egitto, questi adorerà il Signore su
questo monte".
L'uscita dall'Egitto, e tutti i miracoli che il Signore ha compiuto per
liberare i figli d'Israele, non sono altro che un segno che deve portare
al servizio del Signore. D.o mostra ai figli d'Israele lo scopo della
redenzione dalla schiavitù egiziana prima ancora di liberarli.
Contiamo i giorni dell'Omer poiché da sola la liberazione dalla
schiavitù ha un valore relativo, ed acquisisce veramente senso
solamente se sfocia nell'accettazione della Torà, che costituisce il
suo scopo reale. Il legame tra Pesach e Shavuot è talmente tanto
stretto che la Torà, a differenza delle altre festività, non indica
una data specifica per la festa di Shavout, che cade nel cinquantesimo
giorno dall'inizio della conta dell'Omer.
Nel linguaggio dei maestri la festa di Shavuot è chiamata 'atzeret
(chiusura), termine che richiama immediatamente Sheminì 'atzeret, il
giorno successivo a quelli di mezza festa di Sukkot. Anche per questa
festività la Torà non ci fornisce una data, ma la lega a Sukkot;
Shavuot è per Pesach ciò che Sheminì 'atzeret è per Sukkot, e tutti
i giorni dell'Omer sono paragonabili ai giorni di mezza festa di Sukkot.
La stessa idea del contare richiede una spiegazione: alcuni hanno
sostenuto che si dovevano contare i giorni che vanno da Pesach a
Shavuot
poiché le persone erano occupate nel lavoro nei campi, e forse non
sarebbe arrivata loro notizia dell'imminenza di Shavuot.
Se così fosse, la Torà avrebbe potuto ordinarci di comprarci un
calendario e tenerlo con noi, e non sarebbe servito contare. In realtà
la conta ha un significato diverso, e mostra la nostra insoddisfazione
nei confronti della situazione attuale, ed in generale la precarietà
del presente. Il conteggio dei giorni che separano un evento dall'altro
è simile a quello dello schiavo che deve essere liberato.
Secondo un'altra bellissima immagine è come se si dicesse ad un
carcerato che sarà liberato e sposerà la figlia del re. Il carcerato
inizialmente è incredulo, ma quando vede che la prima insperata cosa si
avvera, inizia a credere che si verificherà anche la seconda, e conta
il tempo che lo separa dalla sua realizzazione. Quando viene detto ai
figli di Israele che usciranno dall'Egitto e riceveranno la Torà, non
ci credono; quando vedono realizzata la prima cosa, attendono con
fervore anche la seconda, contando il tempo che li separa dal suo
ottenimento. Troviamo un accenno a ciò proprio nel verso di Shemot
citato sopra: la parola ta'avdun (adorerete) ha una nun di troppo. Il
valore numerico di questa lettera è proprio 50, quanti sono i giorni
che separano l'uscita dall'Egitto dal matan Torà.
Perché dal secondo giorno e non dal primo? Se la conta dell'Omer unisce
concettualmente Pesach e Shavuot bisogna spiegare un'altra apparente
stranezza: perchè si inizia a contare dal secondo giorno di Pesach e
non dal primo? In base ad un principio generale, che a volte s'incontra
nella Halachà, non si mescolano delle gioie fra loro.
Il primo giorno di Pesach è legato ad un certo tipo di gioia, quella
dell'uscita dall'Egitto, che costituisce una prova "forte"
della creazione del mondo da parte di D.o e della provvidenza che
esercita nei confronti degli uomini. Avvenimenti come le dieci piaghe,
l'apertura del Mar Rosso, la caduta della manna sono eventi che
sconvolgono profondamente le leggi naturali. I figli di Israele che
hanno assistito all'uscita dall'Egitto sono arrivati ad una fede
completa nel Signore (prestò piena fede al Signore e a Mosè suo
servo), determinata proprio da tali eventi miracolosi. Questo caposaldo
della fede ebraica, che D.o abbia creato il mondo ed eserciti la propria
provvidenza sulle creature, non può essere mescolato con nessun'altra
cosa. Per questo la conta dell'Omer non inizia dal primo giorno di
Pesach, ma dal secondo, che, quando c'era il Bet ha-Miqdash, era
caratterizzato da una particolare offerta, chiamata appunto 'Omer. [3]
Il midrash percepisce dietro quest'offerta un messaggio diverso da
quello che ci viene dato dal primo giorno di Pesach, un altro tipo di
fede: la mano di D.o è presente anche negli eventi che a noi sembrano
perfettamente naturali.
Quando un uomo prepara una qualsiasi pietanza deve compiere diverse
operazioni che gli comportano fatica. Se al contrario si tratta di
operazioni agricole non è proprio così: anche quando il contadino sta
a letto, D.o in qualche modo lavora per lui, facendo splendere il sole,
scendere la pioggia, soffiare il vento, ecc.
Attraverso l'offerta dell'Omer gli uomini riconoscono questa
"collaborazione" divina, e mostrano di avere una fede basata
non solo sugli interventi divini più manifesti, ma anche su quelli
apparentemente nascosti.
Nachmanide sostiene persino che un tipo di miracolo sia funzionale
all'altro: lo scopo dei miracoli manifesti è mostrare che ci sono
miracoli nascosti, ed il fondamento della fede è nei miracoli nascosti.
Nella penultima berachà della 'amidà (modim anachnu) parliamo dei
miracoli che il Signore quotidianamente compie per noi, in ogni momento
della giornata. In questo caso non si tratta dei miracoli manifesti, dei
quali molti di noi probabilmente non sono stati testimoni, ma di quelli
nascosti, che dobbiamo scovare continuamente. Questa continua ricerca
del nascosto costituisce una grossa prova per la nostra fede: tante e
tante cose ci sussurrano continuamente che tutto quello che ci succede
è completamente naturale, tutti gli eventi della nostra vita sembrano
essere determinati dal caso, ogni nostro risultato sembra essere solo
farina del nostro sacco. Non sempre è così. Basta solamente guardare
le cose con un occhio diverso e cercare come si manifesta il continuo
intervento di D.o nella natura, nella storia, nella nostra vita.
Shavuot e
Pentecoste
torna su
Le radici ebraiche del
cristianesimo sono riconoscibili anche nella strettissima corrispondenza
tra la festa di Pentecoste ebraica (Shavuot), dove si
ricorda il dono della Legge, e la Pentecoste cristiana, in cui -
cinquanta giorni dopo la Pasqua - celebriamo la discesa dello Spirito Santo sulla Chiesa radunata
nel cenacolo. Sì, perché possiamo dire che nella Pentecoste gli
apostoli salgono con Maria al piano superiore, come Mosè sale
sulle pendici del Sinai; Dio effonde lo Spirito sulla Chiesa,
nuova Legge, lo Spirito del Signore Risorto, iscritta nei cuori dei
credenti;
così Mosè sulla cima del monte riceve le mizwot Adonai, i
precetti della Torah. Lo Spirito con i suoi doni porta la
Chiesa alla missione ed all’evangelizzazione, la voce di Dio
sull’Horeb rinvigorisce la missione del profeta Elia e gli dona
quello slancio definitivo contro l’idolatria dei falsi profeti.
Mosè parla faccia a faccia con Dio, lo Spirito ci permette di
invocare Dio nei nostri cuori con l’appellativo di Abbà,
l’affettuoso “Papà” del fanciullo che si rivolge al proprio
padre, perché l'incarnazione, passione, morte e risurrezione del nostro
Signore, Gesù, ci ha introdotti nella "famiglia" del Padre.
Abramo non merita Eretz
Israel fino a che non mette in pratica la mizvà dell’Omer; gli ebrei
non entrano nella Terra Promessa se non nel momento in cui sostituiscono
l’Omer di Manna con l’Omer del frumento di Eretz Israel. Noi non
entriamo nella vita nuova della Risurrezione se non partecipiamo
all'Eucaristia, che è il nuovo Pane disceso dal cielo... e se non ci
lasciamo purificare e vivificare dal fuoco dello Spirito che ha
raggiunto gli Apostoli nel Cenacolo il giorno di Pentecoste. Come gli
Ebrei si riconoscono Popolo al momento dell'accoglimento della Torah,
così i Cristiani divengono anch'essi Popolo dell'Alleanza e si
riconoscono Chiesa proprio a partire da quella Pentecoste che si rinnova
per ogni credente.
Anche noi quindi in
questo periodo dell'anno contiamo i giorni della nostra gioia,
perché ""il periodo dell’Omer ha delle diverse e ben più
profonde implicazioni. Si tratta del periodo che intercorre tra la festa
di Pesach e quella che nella Torah si chiama Azeret, ossia
conclusione (stupenda l'idea di compimento), che
prende poi il nome di Shavuot o Settimane. Tale definizione è però
parziale. Sarebbe corretta se la data di Shavuot fosse esplicitamente
fissata. In realtà non è così. Il periodo dell’Omer non è un
riempitivo per lo spazio che intercorre tra le due feste, ma è
piuttosto una scala che piantata sulla festa di Pesach sale fino a
Shavuot. La Torah non dà la data di Shavuot, la festa che commemora
il dono della Torah perchè essa è subordinata al conteggio dei
giorni/scalini che abbiamo effettuato in direzione della Torah.
Ed in effetti il percorso
Pesach-Omer-Shavuot è un
percorso che serve a rieducare sia sotto
l’aspetto materiale sia sotto quello spirituale. Se è vero che gli
ebrei erano prossimi ad oltrepassare la cinquantesima definitiva porta
dell’impurità allorché Iddio li trasse fuori dall’Egitto, il
periodo del conteggio dell’Omer deve far loro risalire queste cinquanta
tappe fino a giungere alla Torah. La Torah non si riceve in eredità, ma
la si conquista giorno per giorno. La festa del dono della Torah è
quindi senza data, accessibile a coloro che quotidianamente contano i
propri successi in direzione della Legge.""
[Tratto dalla Parashat Emor]
Così è anche per noi, che viviamo il "già e
non ancora" del Regno e, ogni giorno, compiamo un passo verso la
Risurrezione definitiva, il "mondo a venire" ('olam ha-ba),
che inizia già in questo mondo, per poi sfociare nella pienezza della gloria futura.
Anche la Pentecoste cristiana è connessa strettamente
con la Rivelazione di Dio sul Sinai. La omonima festa ebraica, infatti,
ricorda la teofania mosaica di
nel
roveto che arde senza bruciare. Esattamente come arde senza bruciare lo
Spirito Santo, in forma di lingue di fuoco, disceso su Maria e gli
Apostoli: lo stesso Spirito che feconda e edifica la Chiesa. Noi vediamo
dunque il Sinai come evento storico tipologico dell’effusione dello
Spirito dopo l’Ascensione.
Allora è possibile comprendere che la Promessa di Dio rimane
immutata nel corso della Storia della Salvezza, perché la Sua
Alleanza è irrevocabile: ciò vale ora per noi cristiani che ci diciamo figli della Nuova Alleanza, che
porta a compimento e sostituisce la precedente.
(M.G.)
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L'anno ebraico è scandito da varie
ricorrenze che ricordano gli eventi succedutisi dalla creazione e
che ricordano la storia degli ebrei.
Le principali feste ebraiche sono legate alle stagioni e ad
antiche tradizioni agricole pastorali.
Il calendario ebraico comprende cinque feste maggiori di origine
biblica. Le tre feste "del pellegrinaggio" o "feste
del raccolto" (Pesach, Shavuot e Sukkoth) associate all'esodo
dell'Egitto e le due "feste penitenziali" (Rosh HaShanan
e Yom Kippur). Pesach (Pasqua) è la festa più importante del
calendario ebraico. Si celebra tra marzo e aprile e ricorda la
liberazione dalla schiavitù egiziana.
Shavuot (pentecoste) si celebra nel periodo della mietitura,
cinquanta giorni dopo la Pasqua. Ricorda il dono della legge (Torah)
sul monte Sinai, che trasformò gli schiavi fuggiti dall'Egitto in
un vero "popolo".
Altre occasioni come il Purim sono invece feste minori e non hanno
una diretta origine biblica.
Lo scopo di un Yom Tov, cioè di un giorno buono è quello di
gioire dei piaceri del mondo dati da Dio e di concentrarsi della
preghiera e nello studio.
[1]
L' 'omer è una unità di misura che, nella toràh e nel
talmùd,
viene utilizzata per quantità alimentari. Come primo significato
indica un manipolo di spighe; come secondo significato indica una
quantità di grano o cereali e, indirettamente, la farina che se ne
può ricavare. In ogni caso è una misura di volume e non di peso.
Tra queste diverse definizioni esiste una certa incoerenza: non
tutte le spighe hanno lo stesso numero di chicchi; non tutti i
chicchi hanno la stessa grandezza; la stessa quantità di farina può
derivare da un diverso numero di spighe e di chicchi (cfr. M.Peàh
6:6). Vale a dire: l' 'omer è una unità di misura
discontinua; inevitabilmente dalle spighe al grano, dal grano alla
farina e dalla farina al pane esistono dei salti qualitativi e
quantitativi, tanto sicuri quanto imprevedibili. In altri termini: i
passaggi e le trasformazioni da frutto della terra a prodotto
agricolo ed a manufatto alimentare contrappongono la qualità e la
quantità; il lavoro umano modifica la sostanza e le misure del
prodotto naturale; molte spighe immangiabili diventano poco pane
mangiabile.
[2]
La seconda sera di Pesach, la pasqua
ebraica, secondo il dettato della Torah, si doveva fare un’offerta
delle primizie del raccolto; offerta che doveva essere ripetuta
sette settimane dopo, in relazione alla festa di Shavuot.
I grani di orzo del nuovo raccolto, fino a che esisteva il
Santuario, non potevano essere consumati se non dopo l’offerta;
dopo la distruzione del Santuario è rimasto il precetto di contare
i giorni che separano Pesach da Shavuot. Tale periodo si chiama “periodo
dell’Omer”. È un periodo che viene considerato di lutto,
durante il quale non si celebrano matrimoni. In origine la parola Omer
indicava un covone, ma viene inteso come unità di misura.
Il trentatreesimo giorno del periodo viene festeggiato Lag Ba-Omer,
una festa allegra, che spezza il lutto. Secondo un’interpretazione
segna l’inizio in cui la manna iniziò a cadere nel deserto,
secondo altri la fine di una epidemia che aveva colpito i discepoli
di Rabbì Akiva o un successo durante la rivolta in epoca romana. A
Lag Ba-Omer viene venerata la tomba di Shimon Bar Yochai, a cui fu
attribuito lo Zohar, il più importante testo di mistica
ebraica.
Il 5 del mese di Iyar, durante il
periodo dell’Omer, si celebra la ricorrenza della fondazione dello
Stato di Israele, in ebraico Yom Ha’hazmaut. In questo
giorno nel 1948 fu firmata la dichiarazione d’Indipendenza. Dopo
duemila anni di esilio, si è realizzata l’aspirazione degli ebrei
di avere uno Stato proprio.
È
giorno di festa sia in Israele che
nella Diaspora.
[3] Il
testo dice semplicemente che all’indomani del primo giorno di
Pesach (dal testo indicato come "Sabato") va eseguito un
sacrificio denominato "omer" (misura che equivale a
circa 43,2 uova medie di farina di orzo),
si devono poi contare sette settimane (49 giorni) ed il
cinquantesimo si deve presentare l’offerta di due pani (fatti di
farina di grano). Quel giorno è la festa di Shavuot. Fino
all’offerta dell’omer è proibito usare il nuovo prodotto
di uno dei cinque cereali. Nonostante ciò la prima offerta di
farina di grano del nuovo prodotto sono i due pani di Shavuot.
Risulta quindi che la seconda delle Tre Feste di pellegrinaggio
viene fissata secondo l’offerta di due sacrifici farinacei.
Esiste una differenza sostanziale tra le due offerte:
l’omer è un offerta di orzo laddove i due pani di Shavuot sono di
grano. Il Talmud (TB Pesachim 3b) asserisce che l’orzo è per
eccellenza il cibo degli animali mentre il grano è il cibo dell’uomo.
L’offerta dell’omer, appena successiva all’uscita
dall’Egitto sembrerebbe quindi legata ad un livello
"animale" mentre il grano dei due pani di Shavuot andrebbe
legato ad un livello umano.
Ed ecco che la differenza sostanziale tra l’uomo e
l’animale è la capacità di parlare (cfr. Targum Onkelos su Genesi II,7).
Questa capacità, dibbur in ebraico, è talmente caratteristica
dell’uomo che soffre con esso per le sue esperienze. Lo Zoar (Parashat
Bo 125b) sostiene che il dibbur, la capacità di parlare, in
Egitto si trovava in esilio. In effetti fino a che Israele non raggiunge
il Sinai e riceve la Torà Mosè stesso è balbuziente, quasi a
testimoniare la precaria condizione della umana capacità di parlare in
assoluto. La redenzione del "parlare" avviene quando il
Signore dona la Torà ad Israele (il decalogo è preceduto da un verso
introduttivo nel quale si dice che D-o "parlò tutte queste
parole") Da lì in poi anche Mosè impara a parlare. Rabbi
Izchak sostiene nel Talmud (TB Chulin 89a) che il compito dell’uomo in
questo mondo è di imparare ad essere muto. L’unica cosa di cui
dovrebbe parlare sono "divrè Torah", parole di Torah.