Le prime immagini
televisive di una guerra sono sempre le macerie. Case, tetti, vetri,
strade: tutti ridotti in mille pezzi dalle esplosioni. Ci sono però
anche macerie più nascoste, che difficilmente arriviamo a vedere. Sono
quelle di chi con fatica, anche nel cuore di un conflitto, non ha mai
smesso di costruire ponti di riconciliazione. E ora – sotto il fuoco
degli F16 israeliani come dei razzi palestinesi – vede anche tutto
questo andare in frantumi. Come vivono queste ore
terribili di guerra a Gaza tutte quelle associazioni che hanno fatto
dell’incontro tra israeliani e palestinesi la loro ragione di vita? Una
testimonianza molto significativa ci giunge dal
Parents Circle,
il gruppo che da oltre dieci anni vede insieme genitori israeliani e
palestinesi accomunati dal fatto di aver perso in questo conflitto un
proprio caro. Si incontrano, provano a capire ciascuno il dolore e
dell’altro e a dare una testimonianza forte: «Se noi, che abbiamo pagato
il prezzo più alto, riusciamo a parlarci – dicono con una semplicità
disarmante – perché in Israele e in Palestina non dovrebbero riuscirci
anche tutti gli altri?».
Lo hanno ripetuto anche in questi giorni con
una breve presa di posizione ufficiale in cui affermano che «la
soluzione del conflitto non può venire dalla violenza» e che «la
riconciliazione tra i due popoli è l’unica garanzia di una pace duratura
». Ma ancora più forte è la testimonianza personale che uno di questi
genitori (in tutto sono circa 500) ha proposto sul sito
www.theparentscircle.com. Il 1° gennaio Robi Damelin – la madre di
David, un soldato israeliano ucciso nel 2002 a un posto di blocco nei
pressi di Ofra, nei Territori palestinesi – ha messo per iscritto il
proprio stato d’animo rispetto alla nuova tragedia che si sta
consumando. «Piacerebbe anche a me vedere tutto bianco o tutto nero,
senza quelle tonalità di grigio che insistono a ricordarmi che non ho il
monopolio della verità – scrive Robi Damelin –. Come mi piacerebbe
affrontare la vita senza pormi troppe domande. Ma la sola cosa di cui
sono certa è che, quando i media se ne vanno, chi ha perso una persona
cara sperimenta nel cuore un dolore tanto grande che hai la sensazione
di bruciare. E questo dolore non ha colore: non è verde oppure azzurro e
bianco (i colori delle bandiere di Hamas e di Israele ndr).
Questo dolore non ha identità politica. E resta sempre con te,
indipendentemente da quale maschera tu scelga di indossare in un
determinato giorno».
A partire dalla sua tragedia Robi prova a immedesimarsi con altre donne.
«La madre di Gaza ha provato subito terrore quando – alcuni giorni fa –
ha visto sparare 80 razzi contro le città israeliane che si trovano poco
lontano. Sapeva certamente dall’inizio che sarebbe stata lei a pagarne
le conseguenze. Che avrebbe pagato cara la bravata dei suoi leader che
si rifiutavano di rinnovare un qualsiasi accordo. Ha avvertito che lei e
tutti i suoi vicini, ancora una volta, sarebbero stati le vittime di
politici che – da entrambe le parti – conoscono solo la violenza come
via per risolvere i conflitti, indipendentemente da quanto abbiano
ragione o meno. E questa madre, come quella di Sderot, non ha nessuna
risorsa a disposizione per proteggere i propri cari dalla violenza».
Per Robi Damelin è la logica del 'bianco o nero', l’incapacità di capire
che ci sono anche le ragioni dell’altro, la causa dei conflitti.
«Proviamo invece a guardare alla realtà – continua – con gli occhi dei
bambini da troppo tempo imprigionati in questa spirale di vendetta.
Loro gridano piangendo di smetterla di uccidere. Ma nessuno li sente.
Tutti sono impegnati a giustificare la loro causa, infiammati dai loro
sostenitori che vivono lontano, dove i bambini non vestono un’uniforme e
non soffrono la penosa vita quotidiana dei palestinesi. Ma – oserei dire
– non sono neanche i bambini che vivono nei kibbutz e nelle città
intorno a Gaza. È facile dire 'non bisogna scendere a compromessi'
quando si sta seduti in un posto sicuro e niente ti mette alla prova. È
facile non scendere a compromessi quando i tuoi bambini non hanno fame,
e possono andare a scuola, costruirsi un futuro».
Eppure i nemici del compromesso non abitano solo in Paesi lontani.
Ce ne sono tanti anche
sulla prima linea di questo dramma. «Quelli che rimangono imprigionati
nella logica del bianco o nero, quelli che vivono nelle città attorno a
Gaza sventolando le loro bandiere azzurre e bianche e hanno accolto con
un sospiro di sollievo la notizia di questa guerra – scrive Robi Damelin
–. In realtà non vedono il grigiore di un futuro riempito da altre
generazioni di odio da parte dei propri vicini e di razzi, possibilmente
più sofisticati, per distruggere la loro pace interiore e le loro case.
Non ci possono essere vincitori in questa guerra. Solo altri cuori
spezzati».
Che fare, allora? «Una cosa è certa – risponde la madre di David,
soldato israeliano ucciso dai palestinesi – dobbiamo parlarci, e
affrontare la verità. Quella che dice che nessuna delle nostre due
nazioni scomparirà in una scia di fumo. E dobbiamo anche imparare a
scendere a compromessi per il bene di quei bambini che implorano
salvezza.
Dobbiamo smetterla con il metodo della vendetta e cercare nuove strade
che non comportino l’uccisione di innocenti. Possiamo certamente trovare
una strada per vivere pacificamente in maniera dignitosa gli uni accanto
agli altri. Per conto mio – conclude Robi Damelin – continuerò il mio
lavoro con il Parents Circle. Non con i giudizi in bianco e nero,
ma sempre con una tinta di grigio e la convinzione che la violenza
genera solo altra violenza».
Da oltre dieci anni un’esperienza di riconciliazione fra 500 persone che
hanno avuto un lutto nel conflitto mediorientale
Giorgio Bernardelli
____________
[Fonte: "Avvenire" del
7 gennaio 2009]
vedi anche nel sito:
Terra Santa lacerata.
Un'esperienza di perdono: il Parents circle
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