Terra Santa lacerata. Un'esperienza di perdono:
il Parent's circle
In Medio Oriente i parenti delle vittime seminano il dialogo: Rami Elhanan ha perso la figlia
in un attentato: «Vendicarmi la farebbe tornare?». Adel Misk ha visto morire il padre colpito da un colono: «Il nostro
dolore è uguale»
Si può chiedere a chi ha perso in un conflitto un marito, un padre o
un fratello di convincere tutti gli altri a gettare ponti di riconciliazione con i propri nemici? Sembrerebbe una
domanda retorica. E invece si può. Nella Terra Santa di oggi, quella della spirale senza fine degli attentati suicidi
e delle esecuzioni «mirate», c'è già qualcuno che lo sta facendo.
È la verità sorprendente che in queste ore
hanno potuto ascoltare dalla viva voce di due protagonisti i 130 pellegrini milanesi che partecipano a Gerusalemme al
Cammino ecumenico di pace promosso dal Consiglio delle Chiese cristiane di Milano. «Dopo aver combattuto nella guerra
dello Yom Kippur e aver perso in battaglia alcuni dei miei amici più cari, mi ero ripromesso: d'ora in poi mi
occuperò solo dei fatti miei - racconta Rami Elhanan, un grafico israeliano di 54 anni -. Finché il 4 settembre 1997
due attentatori suicidi palestinesi non hanno rotto all'improvviso la bolla di sapone dentro cui mi ero rinchiuso.In
quell'esplosione, infatti, è rimasta uccisa mia figlia di quattordici anni, Madah». È la scena che abbiamo visto
tante volte nei notiziari: le ambulanze, la corsa disperata da un ospedale all'altro, fino alla conferma di una
notizia terribile che all'improvviso ti entra davvero nella carne. «Torni a casa - continua Rami - e vivi sette
giorni di lutto durante i quali migliaia e migliaia di persone vengono a casa tua per offrirti le loro condoglianze.
Ma l'ottavo giorno ti alzi e ti ritrovi solo. E a quel punto devi prendere una decisione. Devi decidere che cosa fai
di questa pena terribile che ti porti dentro, da che parte devi andare. E ci sono solo due strade: la prima è quella
più ovvia e naturale, la strada dell'odio, della vendetta. Perché quando ti uccidono una figlia di quattordici anni
davvero diventi molto pieno di rabbia. Ma siamo persone, non animali, e quindi possiamo anche intraprendere un nuovo
modo di pensare. Uccidere qualcun altro mi riporterebbe indietro la mia ragazzina? Aggiusterebbe un po' il mio dolore?
Con fatica, ma cominci a vedere che c'è anche un'altra strada. Quella di chi si domanda perché questa cosa terribile
è potuta succedere e, ancora più importante, cosa posso fare personalmente per far sì che ciò che è successo a me
non possa succedere anche ad altri». Per Rami la molla è stato l'incontro col Parent's Circle, il forum delle
famiglie ferite, nato per iniziativa di Yitzhak Frankenthal, un altro padre che nel 1994 ha perso in questo conflitto
il proprio figlio Arik, rapito e ucciso a 19 anni dagli uomini di Hamas. Attraverso di lui Rami ha potuto conoscere il
dolore anche di chi sta dall'altra parte.
Storie come quella del palestinese Adel Misk. «Sono un medico, un neurologo
- racconta - e ho avuto la fortuna rara in questa terra di poter lavorare in due ospedali, uno palestinese a Ramallah
e uno israeliano a Gerusalemme Ovest. Durante la prima Intifada ho curato come volontario migliaia di palestinesi
feriti negli scontri, ma anche degli israeliani colpiti dalle pietre». Poi, anche per lui all'improvviso, un dolore
immenso. «Era una sera del 1993 - continua Adel -, stavo tornando a casa a Gerusalemme Est, quando all'improvviso
vedo tanta gente proprio vicino a casa mia. Mi dicono che c'è qualcuno ferito, mi precipito per dare soccorso e mi
ritrovo davanti mio padre Juma col volto insanguinato e la testa fracassata da un colono israeliano. Provai per
quaranta minuti a rianimarlo, ma fu tutto inutile». Adel si rivolge alla polizia israeliana, l'omicida viene
arrestato, processato, condannato. Quattro anni di carcere, di cui due a piede libero. «La cosa non mi ha sorpreso -
commenta il medico -. È una cosa normale per un israeliano che uccide un palestinese prendere solo quattro anni di
galera. Se fosse stato viceversa il palestinese avrebbe preso l'ergastolo».
Nuovo dolore, dunque. E nuove domande.
«Ti chiedi: perché mio padre? Perché proprio a me che ho soccorso così tanta gente? Sono arrivato alla conclusione
che mio padre e migliaia e migliaia di palestinesi e di israeliani sono stati uccisi per il semplice motivo che non
c'è la pace. Noi non abbiamo mai avuto la pace nei Territori, perché c'è l'occupazione. E finché rimarrà non
potrà esserci pace. Con questo non voglio dire che noi abbiamo sofferto di più rispetto a loro: le statistiche
probabilmente direbbero che le vittime sono in maggioranza palestinesi, ma questa non è una gara.
Nel nostro gruppo
sappiamo che abbiamo pagato tutti un prezzo altissimo, vediamo che il nostro dolore è uguale». Sono circa
cinquecento le famiglie che oggi partecipano alle attività del Parent's Circle. Israeliane e palestinesi. Tutte
colpite dalla perdita di una persona cara a causa della violenza. Girano insieme nelle scuole, da entrambe le parti
della barricata, per dire una «semplice e banale verità: se noi, le persone che hanno pagato il prezzo più alto in
questo conflitto, possiamo parlarci l'un l'altro, allora chiunque può farlo. È il messaggio che mandiamo ai nostri
leader: se noi siamo in grado, anche voi potete farlo. E la nostra è una voce davvero unica.
È l'unica voce sensata
che si può ascoltare oggi in questa regione. Perché c'è un muro molto alto di odio e di paura che divide le due
nazioni oggi. Quello che noi stiamo facendo è mettere delle zeppe perché crolli definitivamente». È la voce di
gente per cui le ferite non sono ancora affatto chiuse. «Io non perdono chi ha ucciso mia figlia - spiega Rami -.
Però nello spettro di stati d'animo che va dall'odio al perdono, c'è una tappa intermedia che è quella della
riconciliazione.
Posso capire e simpatizzare per il dolore degli altri. Sapendo bene che anche le mie mani di
israeliano sono piene di sangue. E quindi l'unica strada è guardare avanti, non indietro». «Il nostro sogno è di
non avere altri iscritti al nostro gruppo - aggiunge Adel -. Vorrebbe dire che altri hanno sofferto come noi. Noi
invece ci diamo da fare per impedire qualsiasi altra violenza da tutte e due le parti, cercando di convincere tutti
che da qualche parte c'è un trattato che riconosce uno stato ai palestinesi accanto a quello di Israele e che aspetta
di essere firmato.
Prima o poi una soluzione a questo conflitto dovrà per forza esserci. Non siamo un partito
politico, siamo solo gente che sta cercando di far arrivare ai nostri leader un messaggio: bisogna fare presto,
perché altri non soffrano ancora quello che abbiamo sofferto noi».
Giorgio Bernardelli
____________
[Fonte: "Avvenire" del 22 giugno 2004]