“Ho
posato l’Uzi sul manubrio della
bici, tolto la sicura. Davanti a me, a
dieci metri, c’era la gente che
dovevo colpire. Ma al momento di fare
fuoco, gli occhi di alcuni bambini
ebrei si sono voltati verso di me e mi
hanno fissato con uno sguardo di
purezza, di innocenza.
Improvvisamente, qualcosa nel più
profondo del mio cuore mi ha fatto
cambiare parere”. Sono le parole di
Merzoug Hamel, terrorista islamico ora
rinchiuso in un carcere marocchino. Un
giovane la cui storia è uguale a
quella di tanti altri, figli di
immigrati dall'Africa o dall'Asia
musulmane nei paesi europei,
fintamente "integrati" ma
privi di identità. La sua
testimonianaza - era stato mandato a
sparare contro una sinagoga - è
raccolta nel libro di Mario Giro “Gli
occhi di un bambino ebreo. Storia di
Merzoug terrorista pentito”(Ed.
Guerini e associati), che verrà
presentato giovedì 12 gennaio in
Campidoglio, in vista della Giornata
della memoria (27 gennaio).
“La storia di Merzoug – scrive in
una nota la Comunità di S. Egidio che
promuove l’iniziativa – è simile
a quella di tanti musulmani, figli d’immigrati
in Europa, manipolati da gente senza
scrupoli, che ne ha sfruttato la
rabbia e il malessere per farne dei
‘soldati di Dio’”.
Alla presentazione parteciperanno
Andrea Riccardi, Savino Pezzotta e il
sindaco di Roma Walter Veltroni.
Recensione di Antonio Salvati
Quella che Mario Giro narra nel suo
"Gli occhi di un bambino ebreo.
Storia di Merzoug terrorista
pentito" (Guerini e Associati,
pagine 130, euro 12,50) potrebbe
essere definita la storia di uno
sguardo, di uno sguardo fatto di occhi
"puri e innocenti" capaci di
trasmettere una luce in grado di
trasfigurare e ravvedere anche l'anima
di un uomo caduto nella trappola
dell'estremismo e della violenza
islamista.
«...davanti a me a dieci metri c'era
la gente che dovevo colpire. Ma al
momento di fare fuoco, gli occhi di
alcuni bambini ebrei si sono voltati
verso di me e mi hanno fissato, con
uno sguardo di purezza, d'innocenza.
Improvvisamente, qualcosa nel più
profondo del mio cuore, che non so
spiegarmi bene, mi ha fatto cambiare
idea...»
Come anche ci insegnano le più laiche
tra le scienze umane, è l'altro, è
il suo sguardo, che ci definisce e ci
forma. Noi (così come non riusciamo a
vivere senza mangiare o senza dormire)
non riusciamo a capire chi siamo senza
lo sguardo e la risposta dell'altro.
È un atteggiamento che è anche alla
base del sentimento religioso.
La vicenda di Merzoug Hamel è quella
di un ragazzo, algerino di nascita,
cresciuto in una banlieue di Parigi,
che ha sperimentato sulla propria
pelle le difficoltà dello
sradicamento, del non essere né arabo
né francese, di un'integrazione
mancata che si trasforma in piccola
delinquenza, bullismo, prigione.
Sembra essere la storia di uno dei
tanti ragazzi che si sono rivoltati
nelle scorse settimane nelle periferie
parigine.
È stato osservato che dietro i roghi
parigini non si è vista l'ombra di
rivendicazioni d'identità, di ideali
di qualche tipo o di ideologie, ma
piuttosto il deserto valoriale e
spirituale di questi giovani. Quanto
accaduto nelle periferie francesi è
anche il sintomo di un male che
avvolge più largamente le nostre
società e che mina il futuro
dell'Europa.
Merzoug Hamel crede di
trovare una risposta alle sue
debolezze e alle sue frustrazioni
nell'islam radicale: gli fornisce un
riferimento, valori cui appoggiarsi,
una causa in cui credere e per cui
combattere. Merzoug si converte, parte
per il Pakistan, si esercita nei campi
d'addestramento di quella che, da lì
a poco, diverrà al-Qaeda. Nel 1994
gli viene chiesto di compiere
un'azione terroristica: il suo
obiettivo avrebbe dovuto essere la
sinagoga di Casablanca (che sarà poi
obiettivo degli attentati del 17
maggio 2003), ma difficoltà
logistiche lo portano a preferire un
bersaglio più semplice: il cimitero
ebraico. Lì si apposta, prepara il
fucile, inquadra il bersaglio.
Ma "gli occhi di un bambino
ebreo" sono stati –
improvvisamente – una sorta di
ancora di salvezza: quello sguardo lo
ha trattenuto e gli ha impedito di
compiere l'irreparabile. La pietà
umana riuscì all'ultimo momento a
farsi strada nel suo animo, indurito
dall'indottrinamento in cui non
esistono più uomini, bambini,
colpevoli, innocenti: l'umanità non
è che «noi» e «loro», amici e
nemici. L'odio acceca e uccidere
diventa facile perché non si colpisce
una persona, ma qualcosa di diverso,
considerato non umano. Merzoug sparò
in aria e fuggì, ma non riuscì a
evitare né l'arresto, né la condanna
a morte per la sua partecipazione agli
attentati. Ora spera nella grazia,
chiuso nel braccio della morte di un
carcere di massima sicurezza presso
Rabat.
L'autore sottolinea che Merzoug non ha
meriti. Tuttavia, il suo ravvedimento
è lì a dimostrare che è sempre
possibile cambiare: «...Sono giunto
alla conclusione che non si può
essere un eroe o un buon soldato
prendendosela con i civili innocenti e
senza difesa. Credente e musulmano
come sono, ho anche appreso che tutte
le religioni divine spingono alla
pace, all'amicizia tra i popoli e al
rispetto della vita umana».
Questo bel libro suscita, infine,
un'ultima riflessione relativa
all'utilizzo della pena capitale. Le
lettere di Merzoug evidenziano tanti
spezzoni di un mosaico di un'umanità
ravveduta, vissuta in quel ridotto e
terribile spazio del braccio della
morte. Il ravvedimento forse gli ha
impedito di perdere lungo la strada il
senso della propria dignità. È una
vicenda che ancor di più insegna che
cos'è la pena capitale: è qualcosa
di profondamente paradossale, inumano,
che esprime un potenziale di male, che
si giustifica solo con la paura, con
l'incultura, con un arretramento
dell'umanità, e la consegna di altro
odio. Ogni pena capitale distribuisce
altro odio in un mondo già tanto
violento. L'odio dal quale Merzoug
all'ultimo istante ha potuto
sottrarsi.