“Gli occhi di un bambino ebreo. 
Storia di Merzoug terrorista pentito”

Presentato in Campidoglio per la Giornata della memoria (27 gennaio 2006)
 
“Ho posato l’Uzi sul manubrio della bici, tolto la sicura. Davanti a me, a dieci metri, c’era la gente che dovevo colpire. Ma al momento di fare fuoco, gli occhi di alcuni bambini ebrei si sono voltati verso di me e mi hanno fissato con uno sguardo di purezza, di innocenza. Improvvisamente, qualcosa nel più profondo del mio cuore mi ha fatto cambiare parere”. Sono le parole di Merzoug Hamel, terrorista islamico ora rinchiuso in un carcere marocchino. Un giovane la cui storia è uguale a quella di tanti altri, figli di immigrati dall'Africa o dall'Asia musulmane nei paesi europei, fintamente "integrati" ma privi di identità. La sua testimonianaza - era stato mandato a sparare contro una sinagoga - è raccolta nel libro di Mario Giro “Gli occhi di un bambino ebreo. Storia di Merzoug terrorista pentito”(Ed. Guerini e associati), che verrà presentato giovedì 12 gennaio in Campidoglio, in vista della Giornata della memoria (27 gennaio). “La storia di Merzoug – scrive in una nota la Comunità di S. Egidio che promuove l’iniziativa – è simile a quella di tanti musulmani, figli d’immigrati in Europa, manipolati da gente senza scrupoli, che ne ha sfruttato la rabbia e il malessere per farne dei ‘soldati di Dio’”. Alla presentazione parteciperanno Andrea Riccardi, Savino Pezzotta e il sindaco di Roma Walter Veltroni.

Recensione di Antonio Salvati

Quella che Mario Giro narra nel suo "Gli occhi di un bambino ebreo. Storia di Merzoug terrorista pentito" (Guerini e Associati, pagine 130, euro 12,50) potrebbe essere definita la storia di uno sguardo, di uno sguardo fatto di occhi "puri e innocenti" capaci di trasmettere una luce in grado di trasfigurare e ravvedere anche l'anima di un uomo caduto nella trappola dell'estremismo e della violenza islamista.

«...davanti a me a dieci metri c'era la gente che dovevo colpire. Ma al momento di fare fuoco, gli occhi di alcuni bambini ebrei si sono voltati verso di me e mi hanno fissato, con uno sguardo di purezza, d'innocenza. Improvvisamente, qualcosa nel più profondo del mio cuore, che non so spiegarmi bene, mi ha fatto cambiare idea...»

Come anche ci insegnano le più laiche tra le scienze umane, è l'altro, è il suo sguardo, che ci definisce e ci forma. Noi (così come non riusciamo a vivere senza mangiare o senza dormire) non riusciamo a capire chi siamo senza lo sguardo e la risposta dell'altro. È un atteggiamento che è anche alla base del sentimento religioso.

La vicenda di Merzoug Hamel è quella di un ragazzo, algerino di nascita, cresciuto in una banlieue di Parigi, che ha sperimentato sulla propria pelle le difficoltà dello sradicamento, del non essere né arabo né francese, di un'integrazione mancata che si trasforma in piccola delinquenza, bullismo, prigione. Sembra essere la storia di uno dei tanti ragazzi che si sono rivoltati nelle scorse settimane nelle periferie parigine. È stato osservato che dietro i roghi parigini non si è vista l'ombra di rivendicazioni d'identità, di ideali di qualche tipo o di ideologie, ma piuttosto il deserto valoriale e spirituale di questi giovani. Quanto accaduto nelle periferie francesi è anche il sintomo di un male che avvolge più largamente le nostre società e che mina il futuro dell'Europa.

Merzoug Hamel crede di trovare una risposta alle sue debolezze e alle sue frustrazioni nell'islam radicale: gli fornisce un riferimento, valori cui appoggiarsi, una causa in cui credere e per cui combattere. Merzoug si converte, parte per il Pakistan, si esercita nei campi d'addestramento di quella che, da lì a poco, diverrà al-Qaeda. Nel 1994 gli viene chiesto di compiere un'azione terroristica: il suo obiettivo avrebbe dovuto essere la sinagoga di Casablanca (che sarà poi obiettivo degli attentati del 17 maggio 2003), ma difficoltà logistiche lo portano a preferire un bersaglio più semplice: il cimitero ebraico. Lì si apposta, prepara il fucile, inquadra il bersaglio.

Ma "gli occhi di un bambino ebreo" sono stati – improvvisamente – una sorta di ancora di salvezza: quello sguardo lo ha trattenuto e gli ha impedito di compiere l'irreparabile. La pietà umana riuscì all'ultimo momento a farsi strada nel suo animo, indurito dall'indottrinamento in cui non esistono più uomini, bambini, colpevoli, innocenti: l'umanità non è che «noi» e «loro», amici e nemici. L'odio acceca e uccidere diventa facile perché non si colpisce una persona, ma qualcosa di diverso, considerato non umano. Merzoug sparò in aria e fuggì, ma non riuscì a evitare né l'arresto, né la condanna a morte per la sua partecipazione agli attentati. Ora spera nella grazia, chiuso nel braccio della morte di un carcere di massima sicurezza presso Rabat.

L'autore sottolinea che Merzoug non ha meriti. Tuttavia, il suo ravvedimento è lì a dimostrare che è sempre possibile cambiare: «...Sono giunto alla conclusione che non si può essere un eroe o un buon soldato prendendosela con i civili innocenti e senza difesa. Credente e musulmano come sono, ho anche appreso che tutte le religioni divine spingono alla pace, all'amicizia tra i popoli e al rispetto della vita umana».

Questo bel libro suscita, infine, un'ultima riflessione relativa all'utilizzo della pena capitale. Le lettere di Merzoug evidenziano tanti spezzoni di un mosaico di un'umanità ravveduta, vissuta in quel ridotto e terribile spazio del braccio della morte. Il ravvedimento forse gli ha impedito di perdere lungo la strada il senso della propria dignità. È una vicenda che ancor di più insegna che cos'è la pena capitale: è qualcosa di profondamente paradossale, inumano, che esprime un potenziale di male, che si giustifica solo con la paura, con l'incultura, con un arretramento dell'umanità, e la consegna di altro odio. Ogni pena capitale distribuisce altro odio in un mondo già tanto violento. L'odio dal quale Merzoug all'ultimo istante ha potuto sottrarsi. 

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