"Io sono il Signore Dio
tuo"
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alla
predicazione di Gesù |
alla Croce
Gloriosa |
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Resurrezione / Pentecoste |
all'Evangelo |
Gli Ebrei nella Chiesa
nascente
Lo spettacolo di
Gesù circondato da ebrei, che ne ascoltano la parola, molti
dei quali - una volta conosciutolo - sono incapaci di
staccarsi da lui, perché egli solo ha « parole di vita eterna
», quello stesso spettacolo si ripete in un certo modo nella
Chiesa ai suoi primi inizi. Una volta salito Gesù in cielo,
chi si stringe intorno ai suoi apostoli, chi si stringe
intorno al suo Corpo glorioso, adorandone la presenza nella
sua Chiesa, sono ancora ebrei, anzi - e sia pure per un breve
periodo - sono soltanto
ebrei.
Da chi sarà stato
formato quel piccolo gruppo che, dopo l'ascensione di Gesù,
prima della discesa dello Spirito Santo, si radunava insieme
con gli apostoli a Gerusalemme, nella « stanza superiore », in
cui Gesù aveva celebrato l'Ultima Cena? Sono circa centoventi
persone, vero seme di senapa, che « è il più piccolo di tutti
i semi », tanto piccolo che è difficile quasi distinguerlo,
così come sarà passata inosservata a Gerusalemme la presenza
di quel primo gruppo di fedeli di Cristo. Se poi consideriamo
tale gruppo sullo sfondo del mondo, che quegli uomini erano
chiamati a vivificare, che cosa potremmo dire?
Chi conosceva quegli oscuri ebrei, che il timore delle
autorità teneva prudentemente chiusi in una casa di
Gerusalemme? Ma il seme di senapa, una volta seminato in
terra, cresce e diventa un albero e « gli uccelli del cielo
vengono a posarsi sui rami ». Così fu di quegli uomini; essi
possono essere veramente considerati il seme della Chiesa, che
una volta cresciuta e sviluppatasi, offre i suoi rami come
dimora e riparo a fedeli di ogni provenienza. Il primo seme
della Chiesa lo dobbiamo cercare in Palestina, a Gerusalemme,
nella « stanza superiore dove (gli apostoli) solevano
radunarsi ». (At. 1, 13 ). Lì il seme viene vivificato dallo
Spirito Santo, il giorno di Pentecoste, e lì si udì la prima
predicazione cristiana, quando Pietro cominciò ad ammaestrare
la folla.
Ci è dato cogliere in quel
momento il primo spuntare del seme dalla terra, il primo
affiorare del filo d'erba nel sole: alle parole di Pietro, la
folla variopinta che le ha ascoltate - erano presenti Parti,
Medi, Elamiti, uomini provenienti dalla Mesopotamia, dalla
Giudea, dalla Cappadocia, dal Ponto, dall'Asia, dalla Frigia,
dalla Pamfilia, dall'Egitto, dalle parti della Libia
Cirenaica, pellegrini romani e proseliti giudei, cretesi e
arabi - si presenta a Pietro e agli apostoli, domandando
ansiosa: « Fratelli, che cosa dobbiamo fare? E accolta
l'esortazione a pentirsi e a farsi battezzare, il numero dei
fedeli aumentò di circa tremila anime ». (At. 3, 4). Nulla più
avrebbe arrestato lo sviluppo di quel fragile stelo, e poco
dopo, Pietro parla ancora a una gran folla accorsa al Tempio,
dove egli nel nome di Gesù aveva guarito uno storpio; « e il
numero dei fedeli aumentò a circa cinquemila ». (At. 4,
4).
Come il seme nascosto della
Chiesa, così il primo stelo di quello che diventerà il grande
albero della Chiesa è costituito da ebrei; basta leggere le
parole che Pietro rivolse alla folla in quelle due occasioni:
soltanto a degli ebrei sarebbe stato possibile presentare la
figura di Gesù come Colui nel quale si adempivano le parole
dei profeti; come avrebbe potuto un non ebreo comprendere il
prodigio della Pentecoste alla luce delle parole del profeta
Gioele, che prometteva per il tempo messianico l'effondersi
dello spirito di Dio sopra gli uomini?
A
chi se non a degli ebrei sarebbe stato possibile dire che
David parlava di Gesù e della sua resurrezione, quando nel
salmo diceva: « Tu non lascerai l'anima mia nel soggiorno dei
morti e non permetterai che il Tuo santo veda la corruzione »
(At. 2, 14ss.)? Solo a un ebreo si poteva dire che Gesù era
stato glorificato dal « Dio di Abramo, d'Isacco e di Giacobbe,
dal Dio dei padri nostri », perché in lui si erano compiute le
promesse fatte ai patriarchi e in lui si avveravano le parole
dello stesso Mosè (At. 3,
12ss.).
Fatto tanto nuovo e
direi inaspettato è l'ingresso dei Gentili nella Chiesa, che è
necessaria una visione e una voce venuta dal cielo, perché
Pietro si lasci indurre a battezzare il primo pagano,
Cornelio, il centurione di Cesarea. Nella visione, Pietro vide
degli animali che la Legge proibisce di mangiare, perché
ritenuti impuri, e udì una voce che lo invitava a cibarsene,
perché « non si può chiamare impuro, ciò che Dio ha purificato
».
Quella visione significava il cadere di barriere divisorie, e
proprio in quel momento sopraggiungono gli inviati del
centurione che chiedono una visita di Pietro a Cesarea. Come
non applicare agli uomini quel principio enunciato dalla voce
celeste nella visione? Se non esistevano più barriere che
dividessero gli animali puri ed impuri, potevano esistere dei
confini, di là dai quali gli uomini potessero essere
considerati profani? Pietro ne ebbe la prova manifesta, perché
udì Cornelio e i suoi parlare in altre lingue e magnificare
Dio; ma quando tornò a Gerusalemme dovette spiegare la ragione
del suo operato, e soltanto dopo la sua spiegazione i
giudeo-cristiani, cioè i cristiani provenienti dalla Sinagoga,
glorificarono il Signore, dicendo: « Dio ha concesso ai
gentili la penitenza che conduce alla vita! » (At. Il,
13).
S'inizia cosi l'ingresso
dei gentili nella Chiesa, ma non per questo la Chiesa cessa di
essere ancora, in grandissima parte, giudeo-cristiana. Paolo,
benché fariseo e cresciuto alla scuola di Gamaliele, è
conosciuto come « l'apostolo delle genti », epiteto che fa
dimenticare o per lo meno mette in ombra la missione da lui
svolta anche in mezzo agli ebrei.
Missione che ebbe senza dubbio momenti di contrasti
drammatici, come per es. a Corinto, dove Paolo si allontanò da
loro, « scotendo le vesti » e facendo ricadere su di loro la
responsabilità del suo atto; tuttavia nella stessa Corinto,
Crispo, il capo della sinagoga, e tutta la sua famiglia
credettero in Cristo (At. 18, 8). Paolo, dovunque andasse,
cominciava la sua predicazione in mezzo agli ebrei ; cosi fece
ad Antiochia di Pisidia, a Iconio, Filippi, Tessalonica,
Berea, Corinto, Efeso e anche a Roma; si può dire che Paolo
riserva ovunque le primizie della sua predicazione ai suoi «
fratelli e parenti secondo la carne », orgoglioso com'è di
essere anch'egli israelita, del seme di Abramo, della tribù di
Beniamino (Rom. 11, 1).
Si
ebbero conversioni in massa di giudei di origine come a Iconio
e a Berea e di proseliti come a Tessalonica; ovunque
l'interesse degli ebrei alla parola di Paolo era grande: a
Roma per es. molti di loro accorsero al suo invito, ed egli «
da mattina a sera » li ammaestrava; a Efeso gli ebrei lo
pregarono insistentemente di fermarsi più a lungo, e non
potendo accontentarli per il momento, l'apostolo promise
un'altra visita, che durò infatti tre
mesi.
Gli ebrei che ascoltano
la predicazione di Paolo sono ebrei della diaspora, che,
vivendo in mezzo ai gentili, dovevano già aver assorbito usi,
costumi e mentalità dell'ambiente, pur serbando intatto il
sacro deposito della religione dei padri. Una volta
convertiti, essi entrarono quindi facilmente nella vasta marea
della Chiesa ex gentibus, confondendosi con i
convertiti dal paganesimo.
La
Chiesa giudeo-cristiana (1)
Accanto ad essi tuttavia
sussiste per qualche tempo un ramo della Chiesa con fisionomia
propria, chiaramente individuata: la Chiesa giudeo-cristiana o
della circoncisione. Fino a pochi anni fa se ne ignorava del
tutto l'esistenza, sicuri come si era che il bando dato da
Adriano agli ebrei nel 135 d.c. avesse, con questi, eliminato
dalla Palestina anche quegli ebrei che avevano accettato il
messaggio cristiano; il cristianesimo quindi sarebbe rinato in
Palestina - dopo un periodo di interruzione totale, che lo
separava dalle origini - con l'arrivo nel paese degli
etnico-cristiani, cioè dei cristiani provenienti dal
paganesimo. La comunità palestinese non si sarebbe
differenziata in nulla dalle comunità di origine gentile, e le
prime tracce di essa sarebbero state rinvenute nei resti di
chiese bizantine, che gli scavi avevano messo in luce qua e là
nel paese.
Il primo
indizio in contrario risale al 1873, quando in occasione di
uno scavo praticato sul Monte degli Olivi, vicino a
Gerusalemme, il Clermont-Ganneau individuò sugli ossuari, ivi
rinvenuti, dei nomi di sapore neo-testamentario e anche
qualche croce.
La cosa
tuttavia non ebbe seguito, ed era del resto troppo isolata,
per poter avere un reale valore documentario, relativo alla
presenza di giudeo-cristiani nella regione di Gerusalemme in
periodo pre-costantiniano. Fu solo nel 1934 che il Bagatti,
esaminati alcuni reperti della regione della Shefela, affermò
potersi trarne la conclusione « che probabilmente anche in
Palestina noi abbiamo del materiale cristiano
pre-costantiniano ». Quanto il Bagatti presentava allora
ancora come una probabilità, diventò certezza quando gli scavi
da lui condotti al Monte degli Olivi, nella località detta del
« Dominus flevit », gli fornirono un abbondantissimo materiale
con iscrizioni di nomi neo-testamentari, monogrammi e graffiti
simbolici di vario genere.
Si
aveva ormai la prova evidente dell'esistenza di una comunità
cristiana formata da ebrei battezzati, fin dai primi inizi
dell'era cristiana. Il nucleo primitivo di essa, va ricercato
in quella comunità, detta dei « nazzareni » o degli « ebrei
credenti », che si era venuta formando intorno alla venerata
figura di Giacomo, detto il Giusto, «cugino del Signore », che
ne fu capo per circa un ventennio, designato a tale ufficio -
secondo Eusebio - dal Salvatore stesso. Uomo di grande virtù e
di molta preghiera, Giacomo fu condotto al martirio dal suo
zelo per Cristo, e contribuì con la sua persona a conferire
autorità e importanza a quella che era la Chiesa Madre. Morto
lui, non se ne cancellò per questo la fisionomia propria,
perché dopo di lui infatti quindici vescovi giudeo-cristiani -
di cui Eusebio ci conserva i nomi - si susseguirono sulla
cattedra di Gerusalemme, sostituiti da vescovi provenienti
dalla gentilità solo nel 135 d.
C.
Centro della vita religiosa
di quella comunità è il Monte Sion, il luogo cioè dell'Ultima
Cena e della discesa dello Spirito Santo; vi si vedono ancora
i resti di un grande edificio absidato, nel quale si deve
ravvisare quella « piccola chiesa cristiana costruita sul
luogo nel quale i discepoli si erano riuniti dopo l'ascensione
del Signore »; essa, secondo Epifanio, sarebbe stata l'unico
edificio di culto risparmiato dall'imperatore Adriano nel 135
d. C.
Se il centro della
comunità giudeo-cristiana è costituito dalla cattedra di
Giacomo, non per questo la presenza e l'attività dei
giudeo-cristiani è limitata alla sola Gerusalemme; attraverso
i resti archeologici e le testimonianze degli antichi
autori, se ne può ricostruire la presenza in molte altre
località della Giudea e della Galilea, in particolare a
Nazareth; lì nel III sec. vivevano ancora i parenti del
Signore e lì i rinvenimenti archeologici attestano l'esistenza
di grotte e di edifici cultuali, che conservano il ricordo di
un'antichissima devozione mariana, in quel luogo che ancora
oggi veneriamo come la grotta
dell'Annunciazione.
Le fonti
giudaiche hanno conservato memoria di alcune figure
particolari di giudeo-cristiani, come il patriarca Giuda (che
Epifanio chiama erroneamente Hillel), che conservava presso di
sé il Vangelo di Matteo e di Giovanni e il Libro degli Atti
scritti in ebraico, e che fu battezzato sul letto di morte;
più viva ancora ci appare la figura di quel Giacobbe, che
vediamo più volte discutere con gli ebrei e - come avevano
fatto i discepoli durante la vita terrena di Gesù - operava
guarigioni in nome del
Salvatore.
Troviamo ancora
tracce giudeo-cristiane in Transgiordania e in Siria, e fino
nell'Asia Minore, regione che deve forse il suo carattere
giudeo-cristiano alla presenza in essa dell'apostolo
Giovanni.
Anche a Roma alcune iscrizioni ebraiche trascritte in lettere
latine nelle catacombe di S. Sebastiano, la raffigurazione di
alcuni simboli caratteristici dei giudeo-cristiani
testimoniano dell'esistenza di un gruppo cristiano di origine
ebraica fin nel cuore dell'impero.
Se
l'evangelista Marco fosse stato realmente - come vuole Eusebio
- il primo ad evangelizzare l'Egitto, non potremmo non trovare
colà tracce di giudeo-cristianesimo, e difatti i monaci della
Tebaide, e in particolare lo stesso Pacomio, avevano subito
forti influssi di idee e di costumi giudeo-cristiani; influssi
del genere si sono continuati in Egitto fino al V -VI
sec.
Se la presenza del testo
ebraico del Vangelo di Matteo può essere considerata come un
indizio di giudeo-cristianesimo, allora esso sarebbe stato
presente a Cipro e fino nella lontana
India.
Questa rapida rassegna
dei luoghi di diffusione di un cristianesimo di carattere
ebraico vuoI essere un documento della vitalità di quella
comunità, che aveva il suo cuore a Gerusalemme, vitalità così
grande che è stato affermato che nei primi secoli, il
cristianesimo nel bacino del Mediterraneo resta di struttura
giudaica; anche se si passa dalla lingua ebraica al greco, la
mentalità di fatto non si ellenizza, ma si continua a pensare
in categorie giudaiche (2). Ne sono documento libri
ispirati come l'Apocalisse, le Epistole di Giacomo e di Giuda,
opere apocrife come il Testamento dei Dodici Patriarchi, il IV
Libro di Ezra, il Pastore di Erma, le Odi di Salomone, gli
Oracoli Sibillini, il III Libro di Henoch ecc., libri
liturgici come la Didachè o Dottrina dei Dodici
Apostoli.
Gli studiosi
discutono ancora se le caratteristiche del
giudeo-cristianesimo siano di ordine dottrinale (come
sostiene Jean Danielou) o se vadano ricercate soprattutto
nell'osservanza religiosa (opinione sostenuta invece da
Marcel Simon). Le prime divergenze che affiorano tra la Chiesa
di Giacomo e la corrente di cui è esponente Paolo, in quanto
apostolo dei gentili - e che riscontriamo dal Libro degli Atti
- sembrano riguardare innanzi tutto la prassi: i
giudeo-cristiani intendevano restare fedeli in tutto alle
prescrizioni della Legge mosaica, e la cosa viene giudicata
lecita per loro, purché non volessero imporre una simile
osservanza anche ai cristiani provenienti dal
paganesimo.
Si
tratta cioè di ebrei che accettano in pieno il messaggio
cristiano: riconoscono in Gesù il Messia, Figlio di Dio,
vedono in lui il compimento della loro attesa millenaria, ma
senza trovare in ciò una ragione per scorporarsi dal loro
popolo. Continuano a frequentare le sinagoghe e le scuole
degli ebrei, portano i fìlatteri, celebrano la pasqua il 14 di
nisan, perché non trovano tra ebraismo e cristianesimo
alcuna contraddizione, alcuna soluzione di continuità, ma solo
il completamento del primo nel secondo.
Tuttavia nel gran mare
del giudeo-cristianesimo si formarono presto varie correnti,
fra le quali molte si allontanarono dall'ortodossia. È con
queste correnti che spesso si scontra Paolo, nel suo lavoro
apostolico, e contro di esse si scaglia spesso con
violenza.
Quello che segnò la
fine del giudeo-cristianesimo non furono le controversie
interne, ma l'arrivo trionfale della Chiesa ex gentibus.
Essa si installa nella terra dei patriarchi e di Gesù, e «
jussu Constantini » prende possesso dei luoghi di
culto, trasformandone l'aspetto esteriore e la natura
religiosa: in quei luoghi dove i giudeo-cristiani avevano
celebrato i loro riti a carattere misterico (in particolare a
Gerusalemme e a Betlemme), gli etnico-cristiani innalzano le
grandi basiliche e celebrano una liturgia legata a ricordi
storico-topografici della vita di Gesù; quella liturgia cioè
che per i giudeo-cristiani era innanzi tutto un'intima
esperienza religiosa trasformante prende l'aspetto, presso i
nuovi arrivati, più che altro di
commemorazione.
L
'aspetto modesto e mistico di quei luoghi, che Girolamo voleva fossero onorati più dal silenzio che dalla parola degli
uomini, viene trasformato con abbellimenti sfarzosi, non senza
però strappare un sospiro di rimpianto allo stesso Girolamo,
che della grotta di Betlemme dice: « Abbiamo tolto il fango e
vi abbiamo messo l'argento; ma per me era più prezioso quello
che è stato tolto ». Queste parole sono l'elegia sulla Chiesa
giudeo-cristiana e quella particolare religiosità che era ad
essa legata. Chiesa giudeo-cristiana che alla fine del VI sec.
sparisce dalla storia, senza lasciare traccia di sé, fino a
che gli studi più recenti e in particolare gli scavi e le
opere di Bagatti e Testa non ce l'hanno riportata alla luce in
tutta la sua vitalità e la sua
ricchezza.
Si resta sempre
perplessi quando si vede riapparire un mondo che l'oblio e la
terra hanno tenuto celato per secoli, e ci si domanda a quale
strano gioco della sorte siano dovuti simili fatti, o
piuttosto quale arcana provvidenza ci faccia dono, a un
determinato momento, di conoscenze precluse a chi ha vissuto
prima di noi.
Nel nostro caso
ci domandiamo se non sia stato provvidenziale che oggi, e non
prima, il mondo giudeo-cristiano sia riapparso alla luce. È
oggi infatti, nella spiritualità dell'uomo moderno, che il
mondo giudeo-cristiano può trovare rispondenza. Il mondo
positivista che ci ha preceduto, ad es., si sarebbe contentato
di sorridere davanti a delle manifestazioni, che avrebbe
definito per lo meno ingenue. Ma oggi che l'uomo moderno è
stanco dell'impronta troppo greca e troppo latina che ha preso
la nostra civiltà, oggi che l'uomo moderno rifugge dalle
astrazioni metafisiche e cerca con avidità una concretezza a
cui ancorare il suo pensiero, oggi il riapparire della Chiesa
giudeo-cristiana ci si presenta veramente come un dono di
Dio.
La
mentalità giudeo-cristiana è tale che non si esprime in
formule teologiche o metafisiche, ma si colora di figure e di
simboli, prendendo corpo in un sistema di segni, che più che
spiegare il mistero, lo contengono racchiuso in sé, invitando
alla ricerca di esso (3).
La
metodologia della Chiesa giudeo-cristiana
Il segno è una
cosa che ne indica una diversa dal segno stesso; nel nostro
caso, esso indica, sotto forma di immagini percepibili dai
sensi, il mistero soprasensibile; il mistero è contenuto nel «
segno » e quindi esso serve a svelarlo ma non lo esprime
tuttavia nella sua interezza, e quindi nello stesso tempo lo
vela. Il mistero trascende ogni limitazione; il segno è sempre
qualcosa di sensibile e come tale non può contenere in se
stesso il mistero.
Ne
rappresenta per così dire il rivestimento corporeo, e il corpo
ci è necessario per individuare uno spirito, ma non possiamo
dire che, una volta visto il corpo, conosciamo anche a pieno
lo spirito che lo anima. Il segno può essere considerato
piuttosto una sollecitazione, un punto di partenza per la
ricerca del mistero, ricerca che, per la natura stessa del «
segno » e del suo contenuto, si presenterà come mai finita
ricerca che vedrà sempre più lontana quella realtà che
vorrebbe raggiungere.
Una metodologia basata sull'uso dei « segni » presuppone
quindi un atteggiamento profondamente religioso, una
confessione implicita dell'incapacità dell'uomo di raggiungere
in pieno il mistero. Il segno è sempre un'approssimazione, un
tentativo mai del tutto riuscito di attingere il mistero; il
mistero è più grande dell'uomo e, in se stesso gli sfuggirà
sempre. La ricerca di esso quindi non potrà che essere
condotta con profonda venerazione.
L
'uso dei « segni » è quindi cosa del massimo interesse dal
punto di vista religioso e anche dal punto di vista
metodologico; un tale sistema non presenta i problemi già
belli e risolti, ma offre piuttosto uno spunto perché lo
spirito dell'uomo sia sollecitato a riflettere sopra di essi.
L 'uomo dovrà quindi svolgere un lavorio su quanto il «
segno » offre, e attraverso quel lavorio, lentamente, scenderà
sempre più a fondo nella comprensione e nel possesso di quella
realtà che egli va
cercando.
Una simile
metodologia si riallaccia alla metodologia stessa del Vangelo,
anzi possiamo dire che essa è la metodologia della
Bibbia, cioè di Dio stesso. Che cosa fa Gesù quando parla in
parabole? Presenta un fatto, un fatto semplice che certe volte
sembrerebbe addirittura banale; per es. una donna impasta tre
misure di fior di farina con il lievito e poi tutta la massa
lievita; ma con poche parole invita alla meditazione su quel
fatto, perché - egli dice - c'è n qualche cosa che è simile al
Regno dei Cieli.
Quel semplice lavoro che si svolge giornalmente in tante case
diventerà spunto di meditazione e « segno » di una realtà
diversa. La saggezza dell'insegnamento di Gesù sta proprio nel
prendere lo spunto da fatti che si svolgono frequentemente
sotto gli occhi di chi lo ascolta (o lo legge), perché così il
richiamo alla meditazione sarà ripetuto, e pian piano il punto
che egli vuole insegnare prenderà luce in chi lo
medita.
Che cosa ha fatto Dio
durante tutto l'Antico Testamento se non servirsi di dati
sensibili per far conoscere il Suo grande mistero? Già il
mondo creato è « segno » rivelatore della potenza e della
bontà dell'inconoscibile Dio; Egli legherà poi la rivelazione
alla storia di un popolo, e infine nell'umanità del Figlio gli
uomini « conosceranno » il Padre, Lo « conosceranno » nel
senso biblico, di una
conoscenza cioè
che è amore e unione, e nell'umanità del Figlio raggiungeranno
la salvezza.
Una metodologia
basata sull'uso dei « segni » si rivolge ai sensi dell'uomo
che il « segno », in quanto oggetto sensibile, colpisce; ma
attraverso essi raggiunge l'intelletto, e sarà l'intelletto
che dovrà lavorare su quei dati che ha ricevuto attraverso i
sensi.
Profondamente religiosa dunque la metodologia basata sui
segni, non è tuttavia fideistica, ma rende omaggio alle
facoltà dell'uomo e si appoggia su di esse. Nello stesso tempo
essa è tale però che abbassa la hybris dell'uomo e lo
induce all'umiltà, perché gli rende evidente la presenza di
una realtà più grande di lui, il cui possesso pieno gli sfugge
sempre, e quando crede di averla raggiunta, si accorge che sta
ancora più in là. Il cammino così non si arresta mai; e il
movimento in avanti è continuo, attratto da qualche cosa che
sta sempre più lontano, simile al movimento di una marea che
non conosca riflussi.
È una
metodologia siffatta che distingue la Chiesa giudeo-cristiana,
metodologia che si esplica in una tecnica particolare, basata
soprattutto sul significato e il valore delle lettere e dei
numeri. Diamo solo qualche esempio, fra i moltissimi che si
potrebbero addurre: il numero 5 indica Gesù in quanto
salvatore, perché la parola greca corrispondente (soter)
ha cinque lettere; un profano che avesse scorto invece il
numero 6 su un monumento, l'avrebbe considerato nel suo puro
valore numerico, ma un cristiano vi avrebbe visto un'allusione
a Gesù, nome composto di sei
lettere.
Anche il numero 8 è messo
in relazione a Cristo, come Colui che inizia il nuovo tempo,
quel tempo che si inaugura dopo il settimo giorno della
creazione, costituendone l'ottavo giorno, primo della nuova
creazione. Il numero 99 - numero cioè a cui manca uno per
arrivare a 100 - indica l' Amen della liturgia
terrestre, e quindi la aspirazione alla partecipazione
alla perfetta liturgia del cielo.
Lo
stesso scopo di accennare al mysterium absconditum si
raggiungeva attraverso le lettere, che venivano messe in
evidenza nelle iscrizioni, sia deformandole leggermente o
scrivendole più in alto delle altre della stessa parola,
oppure usando caratteri arcaici o aggiungendole ai nomi, o
attraverso altri espedienti del genere. Spesso alla simbologia
delle lettere si aggiungeva quella dei numeri, come nello
esempio famoso della P (ro) greca, che ha il valore
numerico di 100, e, come tale, è considerata simbolo
messianico, con riferimento ad Isacco, figura di Cristo, che
Abramo generò a 100 anni.
È
questo significato che sta a base di quel segno,
frequentissimo nei nostri antichi monumenti, ed erroneamente
conosciuto come « monogramma costantiniano » : segno con cui
si indicava la persona di Gesù come Messia, senza tuttavia
scriverne il nome in modo manifesto. Fa parte infatti
dell'eredità ebraica dei giudeo- cristiani una venerazione
massima per il Nome di Dio, che li induceva a non
pronunciarlo.
Come gli ebrei adombravano il Nome ineffabile sotto varie
locuzioni (il « Nome », la « Potenza » ecc.), così i
giudeo-cristiani nascondevano sotto numerosi segni quello di
Cristo, che è uguale al Padre: Cristo, mediatore tra gli
uomini e il Padre, viene indicato da una scala, che unisce la
terra al cielo, a somiglianza di quella vista da Giacobbe nel
suo sogno a Bethel; Cristo ci dà la vita, e vediamo talvolta
due rivi d'acqua - l'acqua è principio di vita - scendere dai
due bracci corti della Croce; simbolo di vita è anche la
pianta e spesso alla raffigurazione della palmetta si unisce
quella della Croce, oppure la P di cui abbiamo già detto, e
così via.
Non è possibile fare
qui nemmeno una rapida rassegna dei punti principali che i
giudeo-cristiani adombravano sotto il loro particolare
simbolismo. Bisogna per questo rifarsi alle opere degli
insigni specialisti che abbiamo citato nel corso di queste
pagine. Vorremmo qui soltanto riferirci ad alcuni punti che
hanno lasciato la loro impronta nei nostri monumenti e
talvolta anche nella nostra quotidiana vita religiosa; di essi
tuttavia abbiamo per lo più dimenticato il significato
nascosto, così che essi restano nel nostro patrimonio più come
una morta spoglia che come un elemento
vivo.
Chi vede ad es., fra i
mosaici di S. Maria Maggiore a Roma, il Bambino Gesù in trono,
con una stella al centro della sua aureola, difficilmente
penserà che questo ultimo elemento sia qualcosa di più di un
semplice ornamento; non credo che molto diversa sarebbe la
reazione di chi osservasse nella Cappella Palatina a Palermo
una stella riversare dall'alto la sua luce direttamente sul
Bambino Gesù, nella mangiatoia. Si penserebbe forse in questi
casi tutto al più alla stella dei magi, senza andare più
indietro.
Ma
la presenza così frequente della stella, anche a sé stante, su
monumenti e oggetti dei giudeo-cristiani ha indotto a
ricercarne il significato nei testi; si è visto in tal modo
come fosse corrente in quegli ambienti riferirsi a Gesù come a
una stella, rifacendosi alla profezia pronunciata da Balaam,
prima che Israele entrasse nella terra promessa: « Brillerà
una stella da Giacobbe, sorgerà una cometa da Israele » (Num.
24, 17); e Giustino commenta: « Quella stella luminosa (....)
che si alza è il Cristo ».
La
stella quindi è indice del carattere messianico di Gesù, e
addita in lui l'atteso da lunghi secoli: quella stella che Dio
promette per bocca di Balaam resta come sospesa fino a che non
si posa sul capo di Cristo. Quello che ci era apparso un
semplice motivo ornamentale si carica così di pregnante
significato teologico, e ci fa intravedere dietro la persona
di Cristo la millenaria preparazione alla sua
venuta.
La stessa figura della croce,
familiare a ogni cristiano, si arricchisce di contenuto, se
considerata sullo sfondo delle raffigurazioni giudeo-cristiane
e del loto significato. La croce è per noi adesso innanzi
tutto il ricordo della passione e della morte di Gesù, cioè
del suo Sacrificio nella sua prima fase e nell'aspetto
negativo; difficilmente vediamo in essa anche il simbolo della
risurrezione, cioè il simbolo del sacrificio di Cristo nella
sua interezza: sofferenza e morte e conseguente
glorificazione.
Sui nostri altari contempliamo sempre un Cristo morto, in
contrasto con la realtà della presenza, sull'altare, del
Cristo glorioso. Tale nostro modo di concepire la croce è
dovuta a una malintesa mentalità ascetica, e non è originaria.
Anche nelle nostre chiese vediamo talvolta la croce presentata
in modo diverso, ma non riusciamo più a coglierne il vero
significato. Che cosa significa infatti la croce iscritta in
un circolo o in quadrato, o la croce circondata nei quattro
angoli da altre quattro piccole croci ?
È
un segno frequentissimo nella iconografia giudeo-cristiana con
il quale si esprime l'estensione universale della potenza
salvifica della croce: essa tutto e tutti riunisce nell'unico
Dio; ha due bracci perché due sono i popoli - gli ebrei e i
gentili - che, disseminati fino agli estremi della terra,
riunisce tra loro; ha una sola testa perché c'è un solo Dio.
La potenza della croce raggiunge i cieli, e illumina il mondo
degli angeli, penetra nei luoghi inferi, abbraccia l'oriente e
l'occidente, raggiunge il settentrione e il meridione,
chiamando alla conoscenza del Padre gli uomini dispersi in
ogni luogo ».
Mentre noi ci stacchiamo con difficoltà dalla concezione della
croce come strumento di supplizio, e quindi in fondo dalla
materialità di essa, i giudeo-cristiani vi vedono piuttosto
una realtà spirituale, misteriosa, e le attribuiscono un
significato teologico.
Essa è talvolta considerata vivente, identificata con la
persona stessa di Cristo salvatore; simbolo della risurrezione
gloriosa, diventa anche segno profetico del suo ritorno alla
fine dei tempi: « la Croce luminosa che cammina davanti al Re
».
Essa non è
tanto ricordo di un evento storico, quanto espressione del «
mysterium crucis », mistero di
salvezza.
Grande e venerando è
il mistero della croce, indicato da un piccolo segno, e il
modo di impossessarsi di esso è la sphragis, il
segnarla in modo indelebile su se stesso. Noi parliamo a
questo proposito di « signatio » spirituale, per indicare
quella particolare cerimonia della liturgia battesimale, per
cui il battezzando viene contrassegnato con il segno della
croce, a indicare il suo rivestimento della dynamis di
Dio.
Il
giudeo-cristiano, più degli occidentali legato alla
concretezza, segna materialmente la croce dovunque: sui
sepolcri, perché la Croce di salvezza accompagni i morti nel
mondo dell'aldilà, e anche sui vestiti; ma soprattutto usa
segnarla a fuoco nella sua stessa carne, in segno di comunione
con l'energia salvifica di Cristo, quella energia salvifica
che raggiunge il mondo degli angeli, penetra negli inferi,
raggiunge l'oriente e l'occidente, il settentrione e il
mezzogiorno.
Ad un uso
del genere alludono le Odi di Salomone e più tardi Girolamo, e
forse vi accenna già Pietro nella sua prima lettera (4,
12-19). L'uso del resto trova forse la sua origine nell'Antico
Testamento, dove Ezechiele (9,4) parla di uomini che portano
sulla fronte una tav, il segno cioè dell'ultima lettera
dell'alfabeto ebraico, che nella scrittura arcaica aveva la
forma di una croce.
Si
può anche accostare alla prescrizione biblica, secondo cui
l'ebreo deve portare su se stesso il segno della sua
appartenenza al Signore (Dt. 6, 8; 11, 18; Es. 13; 9-16),
prescrizione a cui obbedisce ancora oggi l'ebreo, portando
sulla sua fronte e sul suo braccio alcuni brani della Torah,
racchiusi in capsule (filatteri), per mostrare in tal modo la
sua totale adesione alla Parola di Dio. Si è visto in tale
pratica un precedente del segno della croce, che il cristiano
segna su se stesso, per confessare pubblicamente la sua
interiore configurazione a
Cristo.
Lettere arcane, numeri sacri,
sphragis: tutti usi che tendono attraverso il « segno »
a rappresentare l'irrapresentabile, a impossessarsi di una
forza - la forza di Dio - che è a disposizione dell'uomo, ma
che supera l'uomo, senza che egli riesca mai a raggiungerla in
pieno. L 'uso dei segni è l'espressione di un'aspirazione che
non può saziarsi; di una religione profondamente « religiosa
», cioè non fatta a misura d'uomo, in cui Dio è
l'inconoscibile e il trascendente e tuttavia dà all'uomo un
mezzo perché Lo raggiunga: una religione in cui l'uomo è
grande, in quanto riflesso di
Dio.
Metodo caratteristico
della Chiesa giudeo-cristiana, quello dei « segni », ma il cui
uso non si è mai perso nella Chiesa, che - come abbiamo
accennato - vive, nella liturgia, le sue più grandi realtà in
un regime di « segni », che non soltanto indicano il mistero,
ma lo realizzano. Metodo tuttavia che la Chiesa sta oggi
riscoprendo in tutta la sua ricchezza, dopo un lungo periodo,
durante il quale il prevalere della mentalità occidentale di
marca greca, non ne aveva soppresso l'esistenza, ma ne aveva
fatto perdere un po' il gusto e il significato, con il rischio
che si perdesse nello stesso tempo il gusto e il significato
del mistero, che con il « segno » è strettamente
connesso.
La
mentalità moderna, assetata nello stesso tempo di spiritualità
e di concretezza, ha riscoperto con gioia il mondo dei « segni
», quel mondo così vivo e così ricco nella Chiesa
giudeo-cristiana, così che possiamo dire che ancora oggi, anzi
soprattutto oggi, è viva nella Chiesa quella tradizione,
tramandata da quegli uomini che, per primi, si sono stretti
intorno a Gesù e ai suoi apostoli.
(1) Su questo argomento è d'importanza
fondamentale: B. Bagatti, L'Église de la Circoncision,
Jérusalem 1965. (2) J. DANIÉLOU, La Théologie du
judéo-christianisme, Paris 1958. (3) E. TESTA, Il simbolismo dei
Giudeo-Cristiani, Jérusalem, 1962. |