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Due interessantissimi testi, specchio del pensiero
ebraico moderno sulla donna:
[v. nel sito anche immahot:
donne]
Una
risposta di rav Riccardo Di Segni (rabbino capo di Roma)
Una lettrice si era rivolta a
Shalom chiedendo spiegazioni sulla benedizione "che non mi hai fatto
donna", protestando per il fatto che viene citata come esempio di
una condizione tradizionale femminile infelice. Questa la risposta:
La lettrice si è giustamente irritata per un atto disinvolto di
disinformazione. L'occasione è utile per dare qualche spiegazione in più su
una questione che è di grande attualità ed importanza e richiede
un'esposizione più allargata, per quanto possibile in questa sede.
Bisogna prima di tutto tener presente il contesto in cui è inserita la frase
"incriminata": le benedizioni del mattino, che si recitano al
risveglio (da molti secoli all'inizio della tefillà) e che in particolare
comprendono una serie di tre espressioni:
-
Benedetto tu o Signore Nostro
D. Re del mondo che non mi hai fatto non ebreo.
-
Benedetto tu o Signore Nostro
D. Re del mondo che non mi hai fatto schiavo.
-
Benedetto tu o Signore Nostro
D. Re del mondo che non mi hai fatto donna.
Al posto della terza espressione,
che solo gli uomini recitano, le donne ne recitano un'altra che dice:
"Benedetto tu (o Signore Nostro D. Re del mondo) che mi ha fatto secondo la
sua volontà". Un segmento di questa formula è tra parentesi perché
secondo alcuni decisori questa benedizione non fa parte del canone più antico e
quindi non autorizza la menzione del nome divino.
Questa è la formula del rito sefardita e ashkenazita.
Nel rito italiano ci sono due differenze significative. La prima è che invece
di usare una formula al negativo per la condizione di ebreo/non ebreo si dice:
"Benedetto tu o Signore Nostro D. Re del mondo che mi ha(i) fatto
Israel". La seconda è che l'ordine delle benedizioni è diverso, e la
benedizione che riguarda l'identità ebraica precede quella sullo schiavo.
Queste differenze, come vedremo più avanti, hanno la loro importanza.
Con lo scoppio della rivoluzione femminista anche l'ebraismo, in tutte le sue
istituzioni, è stato sottoposto a una critica molto forte. La prima critica è
stata fatta alla benedizione del mattino, nota a tutti in quanto ben visibile
nelle prime pagine dei libri di preghiera, e che potrebbe dimostrare come
nell'ebraismo tradizionale la posizione della donna sia considerata inferiore e
infelice. La critica a questa benedizione è così diventata una sorta di
riferimento costante, una bandiera, un simbolo della protesta femminista contro
la tradizione (o alcuni suoi aspetti). All'esterno dell'ebraismo poi c'è voluto
ben poco per usarla con grande semplicismo come dimostrazione eclatante
dell'antifemminismo ebraico. Il caso denunciato dalla nostra lettrice è un
esempio di quest'uso.
A parte l'uso diffamatorio esterno e anche interno all'ebraismo, qualche
ebreo(a) ha sfruttato questa storia come comoda scusa per liberarsi della
tradizione ebraica; molti altri hanno reagito in diverso modo chiedendo come è
giusto spiegazioni, e se possibile, abolizioni o variazioni. Nell'ambito
dell'ebraismo ortodosso, dove la fedeltà alla tradizione è massima ed è
difficile modificare cose consolidate da secoli, la riflessione su questo tema
comincia ad essere vivace; le risposte sono state varie e possiamo così
schematizzarle:
-
La risposta "conservatrice": Il motivo della benedizione è
di ringraziamento per una condizione migliore, in quanto si ritiene che essere
ebrei, maschi e liberi sia meglio dell'essere non ebrei, femmine e schiavi.
Pertanto non c'è niente da cambiare. Molti ebrei ortodossi (ma non solo loro,
perché l'antifemminismo non è patrimonio esclusivo dell'ortodossia e non tutti
gli ortodossi, uomini e donne, sono "antifemministi") resistono con
diffidenza alle pressioni dovute al cambio di mentalità, che in questo caso è
stato veloce e travolgente. Fino a 50 anni fa e anche meno, nessuno si
scandalizzava in tutta la società (ebraica e non) quando qualcuno diceva
"auguri e figli maschi". Prima di cambiare, si sostiene, ci vuole un
po’ di cautela.
-
La risposta esplicativa (o "apologetica"): il senso
dell'espressione non è necessariamente antifemminista.
Non si tratta di una
valutazione globale del ruolo uomo/donna, per cui uno è migliore dell'altro(a)
ma di una riflessione specifica sui doveri legati alle differenti posizioni: in
quanto liberi, ebrei e maschi si hanno rispetto agli altri, progressivamente,
molti più obblighi (mitzwoth), e diverse responsabilità familiari, per
cui il senso delle tre benedizioni è quello del ringraziamento per aver
ricevuto un carico di mitzwoth superiore.
È il carico che è superiore,
non l'essere maschio. Sono molte le donne ebree che anche in epoca femminista
non contestano questa divisione. È anche quanto sostiene la nostra lettrice
nella sua lettera, in cui difende uno schema nel quale la divisione di ruoli non
intende la superiorità ma solo la diversità e il carico di lavoro.
Che questo
sia il senso della benedizione lo dimostra anche - per molti interpreti - l'ordine
logico delle tre benedizioni (nei riti sefardita e ashkenazita) che sottolinea
la progressiva sottomissione al giogo delle mitzwoth.
Sempre in questa
chiave di lettura è stata proposta una spiegazione diversa della frase che le
donne recitano ("che mi ha fatto secondo la sua volontà"), di solito
intesa come l'accettazione di un decreto poco favorevole: quando venne creato
l'uomo, racconta il Bereshit (1:26), D. disse "facciamo l'uomo"
(na'asè adam), al plurale, e il midrash spiega che prima di creare
l'uomo D. si consultò con gli angeli.
Quando invece si racconta la
creazione della donna, tutti i verbi sono al singolare ("prese una delle
costole .." ecc. ibid. 2:21). Come a dire che per la creazione dell'uomo ci
fu un concorso di idee e di volontà, mentre per la donna ci fu l'unica volontà
divina; è per questo quindi che le donne dicono "che mi ha fatto secondo
la sua volontà".
-
La risposta "innovativa" , nel rispetto della
tradizione. Dato che queste spiegazioni non convincono i critici più accesi, si
tratta di vedere se si può mantenere qualcosa che irrita e offende una parte
del pubblico. A questo punto sono state discusse varie soluzioni:
Tra le nuove formule proposte c'è
quella in cui l'uomo e la donna benedicono in positivo "che mi ha fatto
maschio (o femmina)". Il problema "tecnico" è se sia legittimo
introdurre formule non contemplate dalla tradizione antica (forse sì), e
recitarle con il nome divino (probabilmente no).
Nelle varie soluzioni proposte il rito italiano, con le sue varianti, è tornato
alla ribalta. Perché, come si è visto prima, nel rito italiano si usa già una
formula al positivo, per quanto riguarda l'identità ebraica. Una lunga
tradizione discute la legittimità della formula italiana e molti critici
sostengono che non sia originale, ma sia stata introdotta per una forma di
censura, essendo la formula al negativo potenzialmente offensiva per i non ebrei
(come ora si offendono le donne).
Che questo sia il motivo è ancora da
dimostrare definitivamente, e gli ebrei italiani da secoli sono rimasti
gelosamente fedeli alla loro formula, malgrado le critiche, ma anche con molte
approvazioni. Su questi presupposti l'introduzione di una formula al positivo
anche sulla differenza uomo/donna non sarebbe fuori dalla tradizione.
L'altro
dato importante è l'osservazione fatta da alcuni critici della formula
italiana: se si dichiara subito di essere Israel (che può significare ebreo e
maschio), le altre benedizioni diventano inutili; ma allora, ragiona qualcuno
oggi, basta appunto dichiarare di essere Israel per non avere la necessità di
dire la benedizione sulla donna.
Bisogna però vedere se veramente Israel è
maschile o non comprenda invece anche la condizione femminile. Interessante, da
questo punto di vista, una variante del rito italiano presente nella tefillà di
rav Camerini, pubblicata nel 1916, dove l'uomo dice "Israel" e la
donna "Isreelit" (al femminile).
Tutte queste informazioni le diamo non come regola pratica da seguire, ma
semplicemente per aggiornare i lettori sul dibattito in corso. In particolare,
per tutto il terzo punto, bisogna precisare che si tratta di una riflessione che
nasce in alcuni ambienti ortodossi americani e israeliani ancora limitati dove
il problema si pone e c'è questo tipo di sensibilità. In altre parti del mondo
ebraico il problema non si pone o bastano le altre due risposte, o forse viene
semplicemente represso. Ogni modifica dovrebbe essere sostenuta con autorità e
fondamento halakhico, nonché condivisa ampiamente e per il momento c'è molta
discussione e poco consenso.
Comunque da tutto questo, per tornare alla domanda della nostra lettrice,
possiamo trarre queste conclusioni:
È possibile che la benedizione "che non mi ha fatto donna" nasca da
valutazioni negative del ruolo della donna, e sicuramente queste valutazioni
sono emerse nel corso della storia, ma è anche possibile che le motivazioni
siano differenti e sicuramente ci sono state e ci sono interpretazioni non
offensive. Anche l'ebraismo ortodosso reagisce e discute costruttivamente
intorno a questo tema. Con queste premesse, usare la benedizione come il simbolo
di una visione negativa della donna nell'ebraismo è una semplificazione falsa e
distorcente.
_________________________
[Tratto da Shalom e pervenuto attraverso la newsletter di Morasha.it, Kolòt-Voci]
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Rav Riccardo di Segni
1. Introduzione
I movimenti femminili di questo secolo, con le loro richieste di emancipazione e
di pari diritti per le donne hanno spesso coinvolto, scosso e lacerato il mondo
ebraico, nelle sue strutture sociali e giuridiche. Tra le numerose
rivendicazioni, è emersa quella del tutto particolare dell'ordinazione
rabbinica femminile. La comunità ebraica italiana, per diversi motivi, quali la
sua esiguità numerica e il suo tradizionale isolamento, ha avuto solo lontani
echi delle vivaci polemiche che hanno agitato altre parti del mondo ebraico; non
c'è mai stata una richiesta organizzata di donne ebree italiane in questo
senso; nelle scuole rabbiniche italiane esiste da molti anni una presenza
femminile, ma il programma di studi è differente da quello maschile, e i titoli
di studio finali, per quanto la materia non sia ancor bene definita, non sono
certamente comparabili ad una ordinazione rabbinica.
Lo scopo di questo articolo è di riassumere i termini essenziali del problema e
le sue soluzioni possibili nella prospettiva dell'ebraismo ortodosso.
2. Cenni storici
La questione del rabbinato femminile può sembrare antica, ma in realtà le
novità pratiche sono molto recenti, anche nell'ambito dei movimenti dì
riforma, che hanno accettato il principio solo con riluttanza. Si possono
riassumere alcuni dati essenziali1: La prima donna-rabbino sembra sia stata
un'ebrea tedesca, di nome Regina Jonas. La scuola rabbinica berlinese, di
ispirazione riformata moderata, dove la Jonas completò gli studi, rifiutò di
conferirle un titolo rabbinico, che la Jonas allora si fece dare privatamente da
un rabbino a Offenbach; dedicò la sua vita a servizi sociali, fino alla sua
deportazione e morte a Therezin.
Un tentativo analogo compiuto negli Stati Uniti da Helen Levinthal Lyons, figlia
di un rabbino conservativo, e che aveva studiato nell'istituto che poi sarebbe
diventato il seminario riformato di Cincinnati (Hebrew Union College), incontrò
l'opposizione, peraltro non unanime, del corpo accademico, per cui alla donna fu
conferito nel 1939 solo un titolo accademico. Soltanto nel 1972 lo stesso
Istituto conferì il primo titolo rabbinico ad una donna americana, Sally J.
Priesand.
Da allora le donne costituiscono un terzo degli studenti delle scuole
rabbiniche riformate e ricostruzioniste. Più lento e sofferto fu il cammino
dell'altro grande gruppo americano non Ortodosso, i Conservativi; nella loro
facoltà, il Jewish Theological Seminary, dal 1974 venne data una cattedra di
insegnamento di Talmud a una donna; ma la discussione sull'ordinazione rabbinica
femminile si protrasse a lungo, fino all'Ottobre del 1983, quando a larga
maggioranza il principio fu accettato.
L'ebraismo ortodosso dal canto suo sembra
rifiutare per il momento qualsiasi deroga alla posizione tradizionale, per la
quale l'ordinazione rabbinica è riservata agli uomini.
3. Le basi della richiesta femminile
La richiesta dei movimenti femministi di un'ordinazione rabbinica per le donne
parte da diverse considerazioni, che si possono così riassumere: La società
ebraica nel suo sviluppo tradizionale ha creato una divisione di ruoli tra uomo
e donna, che porrebbe la donna in posizione subordinata; in particolare
l'autorità e il potere religioso e sociale sono sottratti alle donne; la
funzione rabbinica, che più tipicamente rappresenta questi ruoli è
tradizionalmente riservata ai soli uomini.
Ora non sembra più giusto, né più
a lungo tollerabile. che una società moderna mantenga questa divisione
sessista. In una società egalitaria il potere va equamente ridistribuito tra i
sessi. D'altra parte si osserva che non è vero che nelle fonti tradizionali vi
sia una preclusione assoluta e insanabile all'esercizio femminile del rabbinato.
Bisogna distinguere i principi dai condizionamenti sociali. Bisogna riscoprire
anche le lontane radici bibliche dalle quali risulta un importante ruolo
giudiziario della donna, come nel caso della profetessa Deborah (Giud. 4:4).
Sull'intera questione gioca poi un altro fattore di tipo psicologico e sociale
determinante: è ben noto a tutti che l'ebraismo distingue tra sacerdozio e
rabbinato; il primo è una condizione che si acquisisce con la nascita, in via
patrilineare, riservata ai discendenti maschi di Aaron: la linea sacerdotale
continua fino ai nostri giorni, anche se l'esercizio dei sacerdozio è sospeso
nelle sue funzioni essenziali per l'assenza dei Santuario. Il rabbinato nasce
invece nell'ebraismo molto più tardi, come condizione intellettuale, senza
limitazione a condizioni di nascita, con ruoli distinti da quelli sacerdotali.
Ma la condizione ebraica di "orfani del sacerdozio", con tutta la
sacralità e l'aspetto cerimoniale che questo comportava, è stata solo in parte
sopportata, e molte attribuzioni dei ruolo sacerdotale sono state in qualche
modo riversate su quello rabbinico. Così il rabbino ha da secoli determinate
funzioni integrative, perché deve sostituire il sacerdote che non può
esercitarle.
Ora è ben chiaro che il sacerdozio era ed è, secondo
l'inequivocabile tradizione biblica e postbiblica, una funzione esclusivamente
maschile, e anche su questo c' è una protesta femminile ebraica, ma è chiara
l'impossibilità di trasformare questa situazione, se non al costo di creare una
nuova religione.
Ma il rabbinato, si ragiona, è cosa diversa dal sacerdozio, e
la preclusione femminile al rabbinato potrebbe essere solo secondaria e indotta,
non essenziale alle strutture religiose dell'ebraismo, e quindi essere abolita
senza compromettere la sacralità della tradizione; le donne non devono pagare
il prezzo del complesso meccanismo psicologico, che ha fatto del rabbino un
supplente del sacerdote.
Alcune di queste osservazioni hanno, rispetto alla struttura legale ebraica, un
approccio di tipo rivoluzionario, che non tiene conto del sistema di autorità
tradizionale, delle sue modalità di trasmissione e coerenza interna.
Altre
invece cercano, con diverse sfumature, di inserirsi nella struttura del
ragionamento halakhico, tentando di promuovere dal suo interno un cambiamento
anche radicale. Nell'ebraismo ortodosso tali cambiamenti sono teoricamente
possibili, purché si rispettino le regole della codificazione; il criterio
secondo il quale si stabilisce se si è all'interno o all'esterno del sistema
ortodosso non è tanto l'azione più o meno rivoluzionaria, quanto la validità
dei procedimento logico e giuridico che la consente.
Il problema è di capire
quali siano i limiti legittimi in cui il ragionamento è possibile, almeno
teoricamente, anche in una prospettiva ortodossa e rispettosa della tradizione.
4. Il ruolo del rabbino
Per comprendere le risposte a queste rivendicazioni, è necessaria una premessa
chiarificatrice sul ruolo dei rabbino. Genericamente definibile come un
"Maestro" nella società ebraica, il rabbino ha in realtà un nucleo
di funzioni essenziali e un insieme di funzioni accessorie che si riuniscono
variamente e con diversa presenza e intensità nelle varie comunità del mondo e
nel corso della storia ebraica.
Essenzialmente la funzione rabbinica dovrebbe
essere di duplice natura: horaàh e dajanùth. Il primo termine indica la
capacità e l'autorità di impartire istruzioni pratiche su come comportarsi in
questioni di halakhàh. Davanti a un caso dubbio, o che nei codici è
controverso, si rivolge un quesito "sheelàh" al rabbino, che è la
persona che ha ricevuto, con la sua ordinazione "semikhàh" il
permesso e l'autorità di istruire; e la risposta ricevuta diventa cogente per
il richiedente. Il secondo ruolo è la capacità di giudicare che si esercita
facendo parte di un beth din2, un tribunale rabbinico, composto, nella sua
struttura più elementare, da tre giudici, che possono essere tali appunto perché
hanno avuto l'apposita ordinazione. Se queste sono le due funzioni essenziali,
è a tutti noto che spesso molti rabbini non le esercitano affatto, o solo
parzialmente, mentre la comunità richiede loro altre funzioni (qui esposte in
ordine casuale, che non rispecchia valutazioni di importanza):
-
l'insegnamento della cultura ebraica tradizionale a vari livelli di
specializzazione, e nei contesti più vari, formali (istituzioni scolastiche,
sinagoghe) e informali, con la parola e con gli scritti;
-
l'esempio e la predicazione morale (che non è necessariamente la stessa cosa
dell'insegnamento); il rabbino viene visto come il custode
e il garante del corretto comportamento morale secondo la tradizione ebraica,
come colui che deve dare l'esempio personale e, in caso di necessità,
richiamare chi si comporta scorrettamente;
-
l'assistenza sociale, come consigliere, risolutore di controversie, aiuto in
casi sociali difficili, raccomandatario e garante presso terzi;
-
la raccolta e la distribuzione di fondi per l'assistenza ai bisognosi, per
l'onestà, l'autorità e la discrezione necessarie allo svolgimento di queste
attività;
-
la direzione delle funzioni religiose pubbliche, all'interno e all'esterno
delle sinagoghe, con l'assunzione, quando necessaria, del ruolo di conduttore di
determinate cerimonie: celebrazioni di matrimoni, miloth, bar mitzwà, funerali,
chiamate a Sefer speciali (i dieci comandamenti ecc.). In alcuni casi, come nel
matrimonio, la direzione della cerimonia da parte di un esperto è richiesta, o
auspicata, benché al limite non indispensabile; in altri casi il rabbino
assolve un ruolo più onorifico e rappresentativo che giuridico;
-
il controllo dei servizi rituali, con particolare riferimento alla kasheruth e
al miqweh;
-
la rappresentanza politica della comunità, come portavoce davanti alle
autorità esterne delle esigenze e dei valori morali della tradizione e della
comunità.
Sono distinti da quello dei rabbino, che dovrebbe solo esserne il controllore, i
ruoli di macellaio rituale e ispettore delle carni (shochet e bodeq)
circoncisore (mohel), scriba (sofer), cantore sinagogale (chazan)
e lettore del Sefer Toràh, ma molto spesso questi ruoli vengono, almeno in
parte, assunti direttamente dal rabbino. I motivi per i quali tutte queste
funzioni sono attribuite al rabbino sono diversi. Spesso si tratta di scelte
coerenti con la tradizione, e ampiamente documentate in fonti antiche autorevoli
e non sospette; determinati ruoli sono attribuiti per necessità logica al
rabbino (chi meglio di lui, con la sua dottrina e autorità potrebbe farlo), o
per rispetto alla Toràh che il rabbino rappresenta. Talora invece i ruoli sono
espressione di una carenza culturale e di osservanza della comunità, che invece
di partecipare attivamente e distribuire democraticamente certe funzioni,
preferisce delegarle a quei pochi che sono rimasti osservanti.
La carenza del sacerdozio, di cui si è sopra detto, ha avuto certamente un
ruolo nell'attribuzione di funzioni aggiuntive e "sacrali" al rabbino.
Un ruolo che era primariamente di magistero e di giurisdizione si è caricato
così inevitabilmente di altre attribuzioni, fino a diventare un riferimento
psicologico, con tutte le implicazioni tipiche della figura maschile e
"paterna".
5. I limiti del lecito per le donne
Dato che la funzione rabbinica è cosi complessa, non è possibile un'analisi
unitaria; i limiti del lecito per una possibile assunzione femminile dei ruolo
devono essere discussi separatamente per ogni diversa funzione. La questione
diventa complicata, perché per ognuno dei ruoli sovraesposti si può trovare
nella tradizione fino assoluto, il sì, o la liceità teorica che diventa no
nella pratica.
Nello spazio di questo articolo non è possibile un'analisi dettagliata; in ogni
caso sono possibili e necessari alcuni chiarimenti preliminari.
Secondo l'impostazione tradizionale, la posizione dell'uomo e della donna nei
confronti della legge ebraica è diversa. Per quanto riguarda i precetti,
questi, come è noto, sono classificati in due categorie, i divieti e le norme
positive. Per i divieti, donne e uomini hanno gli stessi doveri, mentre solo una
parte delle norme positive incombe sulle donne. Le fonti antiche (Mishnà
Qiddushin 1:7) hanno suggerito una regola generale per inquadrare
l'esenzione femminile, che riguarderebbe solo le norme la cui attuazione è
strettamente legata ad un tempo determinato.
La regola è solo generica, per cui
esistono norme legate al tempo che le donne sono tenute ad osservare, e altre
non legate al tempo dalle quali le donne sono esentate. Da questa distinzione
deriva il problema se sia lecito, od opportuno o persino auspicabile che le
donne osservino le regole dalle quali sono esentate; e se lo fanno, se possano
per questo recitare la benedizione relativa. Le risposte a questa domanda
variano a seconda del precetto considerato, e per ogni precetto si conoscono
opinioni differenti tra gli autori.
Un caso particolarmente complesso nell'ambito di questa discussione è quello
del diritto-dovere allo studio della Torà, precetto positivo non legato al
tempo dal quale le donne sono tradizionalmente escluse, e persino precluse
secondo alcune linee rigoristiche della tradizione dei tempi della Mishnà. Il
punto in questione è decisivo, perché non è concepibile un rabbino senza
cultura, che solo lo studio può dargli.
È un dato di fatto che l'istruzione religiosa delle donne sia sempre stata nel
corso della storia molto ridotta rispetto a quella degli uomini. Ma questa
regola ha conosciuto delle eccezioni, delle distinzioni e delle evoluzioni che,
nell'ultimo secolo, non sono state affatto indifferenti anche negli ambienti più
rigorosi.
Casi di donne che chiedevano il permesso di studiare se ne conoscono
in tutte le epoche, così come generalmente e sostanzialmente positiva, per
quanto perplessa, era la risposta che le autorità rabbiniche davano a queste
richieste. Inoltre si è sempre fatta una distinzione sugli argomenti e i testi
oggetto di studio, per cui il principio che fosse lecito, anzi opportuno che le
donne studiassero le norme che più specificamente le riguardano, è passato
senza gravi obiezioni.
E infine lo stesso mondo ortodosso ha riconosciuto la
necessità di un'istruzione religiosa femminile, legata al ruolo educativo che
la donna dovrebbe avere nell'ambito della famiglia o di determinate istituzioni
scolastiche.
Oggi è comune che le ragazze studino materie religiose, e per loro
esistono scuole separate anche negli ambienti più ortodossi. Il problema è che
malgrado queste evoluzioni i programmi di studio rimangono diversi, per cui
esiste una tradizionale riluttanza, che solo parzialmente viene meno,
all'inserimento delle donne in corsi su materie specificamente rabbiniche come Talmùd
e Poseqim, almeno ai livelli più alti, che sono la vera chiave per
l'esercizio dell'autorità rabbinica dì magistero e giudizio.
Bisogna tuttavia rilevare a questo punto un paradosso; la tradizione, piuttosto
riluttante sul diritto-dovere delle donne allo studio, lo è teoricamente molto
di meno sul diritto delle donne alla horaàh. Fonti classiche
insospettabili parlano di "donna sapiente idonea ad istruire" (ishà
chakhamà hareuià lehoròt)3 che dunque può esercitare tale funzione e che
è soggetta in questo agli stessi limiti degli uomini idonei. La possibilità
teorica dunque esiste, se ne conoscono esempi storici, sporadici ma neppure
troppo, ma resta aperto il problema di come arrivare all'esercizio di tale
funzione.
L'altro aspetto fondamentale della funzione rabbinica, l'esercizio della facoltà
giudiziaria, è oggetto di discussione da secoli per quanto riguarda le donne.
La questione si muove da due dati in opposizione. Il primo è il principio,
esplicito e consolidato nella legge rabbinica, dell'esclusione delle donne dalla
facoltà di essere testimoni, almeno in una parte considerevole del diritto. Vi
è poi il principio che "chiunque sia idoneo a giudicare, è idoneo a
testimoniare". Tutto questo va contro a un preciso dato biblico, a cui si
è accennato sopra: Debora, la profetessa, giudicava Israele (Giud. 4:4). Una
famosa nota delle Tosafòth (Niddàh 50a, s.v. "Kol") propone
diverse risposte a questa contraddizione:
-
La regola del «chiunque sia idoneo
a giudicare è idoneo a testimoniare" vale solo per gli uomini e non per le
donne.
-
Deborah giudicava "secondo la parola divina" (al pi
haddibbùr), vale a dire per una precisa e specifica istruzione divina.
-
Deborah non esercitava direttamente l'attività di giudizio, ma insegnava le
regole dei giudizio. Un altro Tosafòth (Shevu'oth b, s.v. "Shevu'ath")
aggiunge che
-
dato che Deborah era profetessa, il popolo aveva accettato la
sua autorità. Secondo la prima soluzione, l'attività del giudizio sarebbe
permessa alle donne, mentre non lo sarebbe secondo le altre soluzioni; la terza
lascia comunque. aperta la strada dell'insegnamento femminile, e la quarta
consente il giudizio femminile in condizioni particolari. La norma prevalente e
consolidata che esce da queste discussioni (qua semplificate al massimo) è che
la donna non esercita l'attività di giudice, e così è nella pratica, ma su
questo non esiste unanimità totale e una via di permesso potrebbe esistere
teoricamente.4
Se la questione dei giudizio è in qualche modo controversa, il problema della
carica pubblica viene invece espresso in termini apparentemente più netti e
negativi. Secondo Maimonide, come la regalità in Israele è attributo maschile,
così ogni altra carica nella comunità d'Israele deve essere maschile (Hilkhoth
Melakhim 1:5). C'è da dire che questa regola è stata codificata dal solo
Maimonide, e che per quanto riguarda il concetto di carica pubblica, anche nel
mondo più rigorosamente ortodosso si hanno frequenti esempi di
reinterpretazioni e aggiramenti di questa norma.
Un'altra grande questione che condiziona l'intero problema è il ruolo generale
che la tradizione attribuisce alla donna, contrapposto a quello dell'uomo.
Nell'inquadramento teorico, si distingue tra un ruolo maschile inserito
all'esterno, nella società e nei rapporti pubblici, e uno femminile
"interno" per il quale le mura domestiche sono "il regno"
dove la "figlia del re" (secondo l'espressione di Salmi 45:14:
"tutto il decoro della figlia dei re è all'interno") esercita la sua
autorità ed esprime se stessa.
La dedizione della donna alla casa e alla
famiglia spiegherebbe l'esenzione da un'estesa serie di norme positive, di cui
si è detto prima. Mentre questa distinzione è considerata intollerabile dalla
protesta femminile attuale, che rivendica uguali ruoli per uomo e donna nella
società esterna come nella famiglia, implicitamente attribuendo al ruolo
domestico una posizione subalterna e negativa, gli apologeti della concezione
tradizionale negano che diversità significhi subalternità; l'impegno nel
"privato" è altrettanto se non più nobile, meritorio e gratificante
di quello "pubblico", per cui non c'è degradazione, ma solo
differenziazione.
Sono in qualche modo collegati e correlati a questa distinzione i concetti
tradizionali che impongono un ruolo di "modestia» (tzeniùt) a
tutto ciò che è femminile, e che si associano a quelli precedenti nel limitare
le possibilità di un ruolo pubblico femminile. Fino a qual punto è lecito a
una donna mostrarsi in pubblico con un ruolo socialmente così determinante?
Fino a qual punto è lecito a un uomo, andare a consigliarsi privatamente con
una donna, nell'intimità e nella riservatezza che questioni delicate possono
richiedere? Si può rispondere a quest'ultima domanda che lo stesso problema si
pone quando è una donna a rivolgersi ad un uomo-rabbino; anzi l'esistenza di
consiglieri di sesso femminile consentirebbe un colloquio più confidenziale ed
aperto tra persone dello stesso sesso.
Ma rimane il problema della pubblicità e
del protagonismo pubblico femminile, che nelle fonti classiche è spesso
valutato negativamente, verosimilmente sulla base di un condizionamento sociale;
per limitare la presenza pubblica femminile si ricorre al concetto di
"decoro del pubblico". La donna ad esempio, teoricamente potrebbe
leggere pubblicamente la Torà, facendo parte dei sette "chiamati a Sefer"
che si dividono il brano da leggere; ma non le si concede questo compito
"per il decoro del pubblico" (mippenè kevòd hatzibbùr).
Molti Conservativi hanno già deciso che ciò che è decoroso per il pubblico
deve essere il pubblico oggi a deciderlo, per cui chiamano a Sefer le donne e
fanno loro leggere la Toràh. Ma nessuna Sinagoga ortodossa ha oltrepassato
questo limite, convinta che ciò che per una tradizione consolidata è stato
"indecoroso" per il pubblico non può essere d'un tratto capovolto.
Più in generale un ruolo femminile di rappresentanza pubblica, come in molte
situazioni si richiede a un rabbino di esercitare, verrebbe a mettere in crisi
un modello globale tradizionale di modestia e riservatezza. Probabilmente qui si
tratta più di una difficoltà sociologica che di una difficoltà giuridica. Ma
anche la sociologia ha la sua importanza, può diventare un simbolo, ancora più
difficile da modificare della halakhàh stessa.
Negli ultimi tempi
proprio questi aspetti sono stati sottolineati ed esaltati in una prospettiva
apologetica e di contrapposizione; in ogni caso non può essere valutato con
leggerezza l'argomento dei tradizionalisti che attribuiscono a questa divisione
di attribuzioni un ruolo fondamentale nella sopravvivenza dell'ebraismo. Si
tratta quindi di poter e dover distinguere, caso per caso, quale siano i vincoli
giuridici reali e concreti derivanti dalle norme di riservatezza, modestia, di
decoro pubblico, da quelli delle sovrapposizioni sociologiche, pure importanti,
ma non ineccepibili in mutate condizioni ambientali.
Alcuni aspetti rituali, strettamente legati alla condizione femminile, possono
ulteriormente giocare su certe prospettive. Ad esempio, le limitazioni imposte
dal ciclo mestruale. In realtà queste limitazioni sono essenzialmente
domestiche e riguardano i rapporti tra i coniugi; ma secondo molte tradizioni
locali le limitazioni riguardano anche certe manifestazioni pubbliche, come la
presenza stessa in Sinagoga nei giorni del ciclo mestruale, o l'esercizio nella
Sinagoga di certi atti (come salutare il Sefer aperto, o altri ruoli
tradizionalmente affidati alle donne come l'arrotolamento della fascia dei Sefer).5
Una donna rabbino potrebbe essere limitata, a seconda delle consuetudini locali,
nella sua frequentazione della Sinagoga, dovendo in tal modo rivelare
pubblicamente delle situazioni personali. Si può obiettare che il vincolo di
queste tradizioni locali è molto relativo e facilmente abrogabile, ma anche in
questo caso, come in tutti gli altri che consideriamo, il problema è quello di
poter avere nuovi Maestri (o meglio nuove Maestre) di Toràh in Israele, e non
delle creature che per la loro stessa presenza mettano in crisi comportamenti e
consuetudini consolidate da secoli.
Si noti poi come in questo aspetto dei
problema si ragiona chiedendo alla donna di fare quello che l'uomo-rabbino fa,
cioè stare in Sinagoga e dirigerne le funzioni. Il problema cioè si pone nei
termini di una imitazione globale del modello maschile. I limiti di questo
ragionamento sono evidenti.
Su tutti gli aspetti singoli della questione si è ormai sviluppata un'ampia
letteratura in cui si tende a dimostrare o meno la liceità dell'assunzione
femminile di determinati ruoli, che taluni considerano preclusi non tanto per un
principio giuridico, quanto per una tradizione comportamentale consolidata e
finora mai contestata.
Si è discusso ad esempio se una donna possa celebrare
un matrimonio, e fin qui si è rimasti nell'ambito di una argomentazione in
termini piuttosto tradizionali; ma di qui si è spesso passati a posizioni più
radicali, come nella discussione sulla partecipazione delle donne al minian, o
sulla facoltà di essere "shaliach tzibbur" o di testimoniare, e in
questi casi l'uso delle fonti tradizionali non è stato molto rigoroso, anzi
spesso molto disinvolto e capzioso.
6. Considerazioni conclusive
Il problema del rabbinato femminile è, come si è visto, estremamente complesso
e articolato. Ogni aspetto della questione va trattato separatamente, ed anche
in chiave ortodossa, per ogni singolo aspetto, sono possibili risposte diverse,
di apertura e chiusura.
Alcuni aspetti accessori attribuiti alla funzione rabbinica, come l'assistenza
sociale, morale ed economica, la rappresentanza pubblica di determinate istanze,
la funzione di riferimento morale possono entro certi limiti piuttosto ampi,
essere assolti da donne, e di fatto lo sono già in molti ambienti ortodossi. La
funzione rabbinica probabilmente avrebbe da guadagnare nella sua dignità ed
autenticità, se venisse spogliata di certi aspetti che la circondano, spesso
per delega di una comunità che cerca di scaricare su un'unica figura delle
responsabilità collettive.
Ben più difficile, e probabilmente non solubile in tempi brevi, è la questione
dei ruoli essenziali. Ma è comunque probabile che almeno il ruolo della donna
nell'insegnamento della Toràh e nella direzione della vita religiosa cresca
progressivamente anche nel mondo ortodosso.
La strana contraddizione, che in tutta la questione emerge dall'esame delle
fonti, tra determinate aperture teoriche e chiusure di fatto non va
sottovalutata. La richiesta del rabbinato femminile ha sorpreso gli stessi
movimenti riformistici; inoltre è stata ed è una richiesta essenzialmente
diasporica, si direbbe tipicamente americana, il che potrebbe indicare che si
tratta di una pulsione che nasce all'esterno dell'ebraismo, da un'esigenza di
conciliare differenti modelli culturali e religiosi.
Comunque proprio sulle
questioni femminili l'ebraismo tradizionale fin dalle origini ha saputo
rivoluzionare le sue strutture, dalla questione dell'eredità femminile (in Num.
27), all'istituzione della Ketubbàh, fino alla proibizione della poligamia.
Come a dire che, quando esistono richieste legittime da parte femminile,
l'ebraismo tradizionale vi si adegua.
È troppo presto per valutare se e fino a
qual punto la richiesta di un'ordinazione rabbinica femminile possa inquadrarsi
in una tradizione consacrata. Ma la novità della richiesta e la sua radicalità
rispetto a modelli sociologici consolidati impongono molta cautela.
Bisogna
risolvere la contraddizione che nasce dal fatto che il rabbino è colui che
difende e porta avanti la tradizione, mentre si vuole ora che questo ruolo sia
affidato a una nuova figura, proprio rompendo con la tradizione.
Il rischio
della pedissequa imitazione di modelli esterni è presente con evidenza; un
rabbinato femminile che si limitasse all'imitazione del ruolo maschile,
porterebbe con sé una carica di goffagine e di ridicolo, sarebbe
contraddittorio con se stesso e psicologicamente traumatico. Meglio cercare
delle strade alternative, che non siano pura imitazione di modelli esterni, e
che promuovano ulteriormente la condizione femminile, integrandola con la
conoscenza e la pratica della Toràh. Da questo tutta la comunità di Israele
non potrebbe che beneficiare.
Note
1. Cfr. Robert Gordis, "The Ordination of Women - a History of the
Question" Judaism 129, 1984, pp. 6-12. Lo stesso volume cit. di Judaism
contiene numerosi articoli sullo stesso problema, da diversi punti di vista.
2. Per un'esposizione sistematica cfr. le voci "horaàh" e
"beth-din" in Talmudic Enciclopeedia (TE).
3. Cfr. ad es. Sefer haChinuch, 158; altre fonti sono indicate in TE,
"horaáh", col. 493-494, no. 109.
4. Cfr. in TE cit. alla voce "beth-din", la pag. 167, e alla voce
"ishà" le col. 253-254, con note relative.
5. Cfr. Rema, in Sh. Ar., Orach Ch. 88.
__________________
[Pubblicato in “Scritti sull’ebraismo” in memoria di Emanuele Menachem
Artom, Gerusalemme 1996 - Fonte: La newsletter di Morasha.it, Kolòt-Voci]
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