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Le quattro
matriarche (immahòt) del popolo ebraico sono Sara, Rebecca, Lea e
Rachele. A lungo trascurate dal linguaggio religioso dell’ebraismo,
orientato in maniera predominante in senso maschilista, le immahòt sono
state rivendicate come modelli di ruolo e figure simboliche dalle nuove
generazioni di donne ebree. Una grande varietà di qualità è stata loro
attribuita, attraverso letture attente e re-interpretazioni dei racconti
biblici in cui esse hanno un posto preminente. L’attaccamento
alle immahòt non
è, tuttavia, cosa totalmente nuova. Ci sono spesso riferimenti alle
quattro matriarche nella letteratura ebraica femminile come la Tzena
Urena, una parafrasi yiddish della Bibbia, popolare nell’Europa
orientale, e le Techinnòt (preghiere di supplica che invocano
direttamente l’intervento divino nella vita quotidiana: sono espressioni
appassionate e spontanee messe per iscritto che si contrappongono
spontaneamente alla solennità della liturgia). La tomba di
Rachele a Betlemme (Gn 35,19; le altre tre immahòt sono sepolte
nella grotta di Machpelàh, a Hebron, insieme ai loro mariti) è un luogo
di devozione speciale per le donne. Esse vanno spesso a pregare là, nel
caso di problemi di fertilità, identificandosi con la Madre Rachele, il
cui grembo fu serrato nei primi anni del suo matrimonio. Questi
pellegrinaggi costituiscono una parte importante della cultura religiosa
femminile in alcune comunità sefardite. La recente
indagine femminista ha cercato di aggiungere altre importanti figure
femminili, di antica memoria ebraica, alla lista delle immahòt.
Vengono immediatamente alla mente figure bibliche come Miriam, Debora, Rut
ed Ester. Alcuni circoli stanno tentando di riabilitare il ricordo di
donne che la Scrittura sembra trattare ingiustamente, perché i racconti
che li riguardano furono scritti da un punto di vista maschile. Eva, Hagàr
e Vashtì sono tra queste figure.
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