Nella primavera
dell’anno 2000 Giovanni Paolo II compiva in Terra
Santa un viaggio personale, ma di forte valenza
ecclesiale, che egli stesso ha descritto come "il
cammino spirituale del vescovo di Roma verso le sorgenti
della nostra fede nel Dio di Abramo, di Isacco e di
Giacobbe". I gesti compiuti dal Papa sono stati più
eloquenti delle parole e delle dichiarazioni ufficiali,
come il pellegrinaggio alla collina della memoria della
Sho’ah. "Dopo la celebrazione a Yad waShem - ha
scritto un giornale israeliano - ci rendiamo conto di
quanto la presenza del Papa ci ha permesso di toccare i
nostri sentimenti più profondi. Le idee astratte erano
immerse nelle lacrime". Un viaggio dunque esemplare
per tutta la Chiesa.
Il fatto e il ricordo della Sho’ah ha indubbiamente
segnato nel dopoguerra una prima conversione
penitenziale dei cristiani nei confronti di Israele,
culminata nella domanda di perdono, che Giovanni Paolo
II ha portato da Roma al Kothel (il Muro occidentale)
dell’area del Tempio di Gerusalemme.
A una tale riconversione al popolo ebraico, tuttavia,
nelle Chiese di Occidente ha fatto seguito una seconda
conversione, molto più fondamentale, che ci ha condotti
a riscoprire le radici essenzialmente ebraiche della
fede cristiana, un movimento che ha prodotto, tra
l’altro, il convegno vaticano di studio sulle radici
dell’antigiudaismo teologico cristiano, celebrato in
Vaticano nell’autunno del 1997. Siamo ben lontani oggi
dal comprendere come sia stato possibile, chiedere agli
ebrei che si convertivano a Gesù di abiurare la
“perfidia ebraica” e la “superstizione
giudaica”, come prescriveva il Rituale Romano fino a
pochi decenni fa! Al contrario, abbiamo riscoperto la
fede cristiana non come una “religione nuova”, ma
come una trascendente fioritura messianica
dell’ebraismo del I° secolo.
Questa seconda conversione, però, non è stata
compresa, e non è condivisa dalle Chiese del Medio
Oriente. In esse se ne parla comunemente come
dell’espressione di un complesso di colpa da parte
degli occidentali, prodotto dalla Sho’ah, da cui i
cristiani di Oriente si sentono immuni. In realtà, una
“teologia della sostituzione”, che identifichi la
Chiesa come il superamento teologico d’Israele (il
“nuovo Israele”), e che è ancora radicata nelle
Chiese di Oriente - mentre in Occidente ha cominciato a
essere seriamente messa in questione, sia pur
timidamente -, spogliando di ogni significato teologico
la permanenza del primo Israele fino a oggi, equivale
praticamente anche in esse a una sorta di Sho’ah
culturale e spirituale, le cui conseguenze non sono
piccole.
In Oriente, e non solo in
Palestina, ci si imbatte molto spesso in una teologia e
in una prassi liturgica e pastorale fondate sulla
convinzione (“costantiniana”) che il cristianesimo
sia una religione nuova, che non ha nulla a che fare con
l’ebraismo, che gli si è sostituita e ne ha preso il
posto nel disegno divino di rivelazione e di salvezza.
La Chiesa sarebbe il “nuovo Israele”, nel senso che
si tratterebbe veramente di “un altro Israele”, che
non ha più alcuna vera relazione con il primo.
“Israele”, pertanto, diventa per i cristiani un nome
puramente simbolico, teologico e “spirituale”, che
non ha più alcun riferimento concreto nel campo
storico-socio-politico-culturale. La Gerusalemme
“celeste” non avrebbe alcuna relazione con la
Gerusalemme della terra e della storia. Poiché, poi,
anche il nostro linguaggio, in Occidente, è ancora
piuttosto ambiguo su questo punto, non c’è da
meravigliarsi che un penoso malinteso sorga tra noi e i
nostri fratelli di fede medio-orientali, nei riguardi
della posizione che le Chiese in Occidente hanno assunto
verso l’ebraismo, nel dopoguerra, e specialmente a
partire dal Concilio Vaticano II. Questo equivoco si
estende fino al giudizio sull’atteggiamento del Papa,
sulla sua domanda di perdono nei confronti del popolo
ebraico, e sui gesti da lui compiuti durante la visita
in Terra Santa.
C’è di più. Alla Sho’ah ha fatto seguito la
creazione di uno Stato d’Israele - e qui si è
trattato non di un “Israele simbolico-platonico”,
convertibile a piacimento con qualunque altra realtà,
bensì del primo Israele, di quello concreto,
storico-culturale - e i palestinesi, i quali si sentono
giustamente esenti dalle colpe del nazi-fascismo,
ritengono di essere i soli a pagarne le conseguenze
molto pesanti. Il “malinteso” tra cristiani
occidentali e cristiani orientali si colora, perciò,
anche di tonalità politiche. L’innamoramento e la
simpatia per il popolo ebraico, che per ragioni
puramente bibliche, teologiche e spirituali, si sono
riaccesi tra le Chiese di Occidente, viene risentito,
infatti, dai palestinesi come una parzialità e
un’ingenerosa insensibilità nostra nei confronti
della tragedia che, da più di cinquant’anni, si è
abbattuta sul loro paese e sulle loro popolazioni, a
causa della nascita dello Stato d’Israele e della
politica dei suoi governanti. E si sentono, in qualche
modo, lasciati soli da noi di fronte al loro destino.
In modo particolarissimo,
poi, i cristiani d’Oriente, solidali con i loro
fratelli islamici, rifiutano assolutamente di
riconoscere la minima relazione teologico-biblica tra
l’Israele odierno e il loro paese, la Terra Santa, che
per essi è solamente e tutta intera “Palestina”. La
promessa e il dono della Terra, che il Signore ha fatto
agli ebrei secondo le Scritture dell’Antico
Testamento, per essi è un argomento inaccettabile, e in
ogni caso del tutto e per sempre superato. Di
conseguenza, la creazione dello Stato d’Israele appare
loro unicamente come un’aggressione, un’invasione
straniera, o tutt’al più come un evento prodotto da
circostanze politiche puramente secolari, dei secoli XIX
e XX. C’è una canzone palestinese che dice più o
meno così: “Noi, cristiani e musulmani, vivevamo
felici e in pace su questa terra, ma è arrivato un
popolo estraneo, da fuori, che ci ha spogliati della
nostra patria”.
Si comprende, perciò, la difficoltà che i cristiani
palestinesi sperimentano nel leggere l’Antico
Testamento, non trovando apparentemente nella Bibbia
un’intelligenza accettabile di ciò che sta loro
succedendo oggi. Al contrario, essi temono a ogni passo
che la lettura integrale delle Scritture ebraiche, che
noi favoriamo nelle Chiese di Occidente, giustifichi e
favorisca l’interpretazione fondamentalistica e
nazionalistica, che ne fanno i coloni e i gruppi della
più estrema destra israeliana. Di nuovo, molti di loro
si meravigliano, e quasi si scandalizzano, dell’amore
e dell’entusiasmo con cui, invece, in Occidente, noi
riscopriamo la bellezza e la decisiva importanza delle
Scritture ebraiche per la nostra vita di fede cristiana.
L’ultimo documento della Pontificia Commissione
Biblica su "Il popolo ebraico e le sue sacre
Scritture nella Bibbia cristiana", pubblicato nella
Festa dell’Ascensione del 2001, afferma nella
conclusione che "le sacre Scritture del popolo
ebraico costituiscono una parte essenziale della Bibbia
cristiana e sono presenti, in molti modi, nell’altra
parte. Senza l’Antico Testamento, il Nuovo Testamento
sarebbe un libro indecifrabile, una pianta privata delle
sue radici e destinata a seccarsi" (n. 84): una
citazione che il card. Joseph Ratzinger evidenzia nella
prefazione che premette allo stesso documento.
Abbiamo ascoltato un vescovo palestinese (non cattolico)
interpretare e giustificare la lettura dell’Antico
Testamento da parte dei cristiani, nel senso che in
quelle pagine si tratterebbe di eventi e insegnamenti
ormai tutti compiuti e assorbiti da Gesù e in Gesù, e
dunque, per noi, privi in se stessi di ogni significato
proprio e di ogni valenza teologica. Un “compimento
cristologico” dell’Antico Testamento, inteso in un
modo così radicale che la realtà storica e teologica
dei suoi eventi e dei suoi personaggi venga tutta
assunta e dissolta direttamente ed esclusivamente in Gesù
Cristo, nasce da una tipologia ideologica, radicalmente
platonizzante e dualistica, che non riconosce altro
nella storia e nelle storie d’Israele, se non delle
ombre-prefiguranti altre verità-realtà appartenenti a
un ordine superiore, le quali rendono quelle
“figure” ormai completamente sorpassate, consumate e
svuotate di ogni loro portata intrinseca, e dunque oggi
completamente irrilevanti per la verità cristiana. E,
allora, come intendere le parole di Gesù in Mt 5,17-19:
"Non pensate che io sia venuto ad abolire la Torah
e i Profeti..."?
È questa la Sho’ah culturale, di cui parlavo sopra,
che - dobbiamo confessarlo dolorosamente - ha nutrito
per molti secoli anche buona parte della lettura
cristiana della Bibbia tra noi, in Occidente, divenendo,
senza volerlo, uno dei fattori (non certo l’unico)
dell’antisemitismo europeo, anche di quello che il
paganesimo nazista ha trovato disponibile per la
costruzione della sua folle mitologia ariana. Contro un
tale antisemitismo, fondato su di una teologia ed
esegesi “platonicamente ideologizzate”, Giovanni
Paolo II ha condotto forse la sua battaglia più bella
per la difesa della fede contro ogni forma di
gnosticismo.
Anche il viaggio giubilare del Papa è stata una tappa
importante di questa battaglia. Per chi ha bene
osservato e percepito il senso degli avvenimenti, è
stato chiaro che quella visita si è mossa su due piani
distinti, ma armonicamente collegati. C’è stata la
visita a Israele, “il fratello maggiore”, quale
segno di una diaconia dell’alleanza particolare di Dio
con Israele e con la Chiesa. A Yad waShem e al Muro
occidentale, Giovanni Paolo II ha benedetto il Dio dei
padri, Abramo, Isacco e Giacobbe. La visita ai
palestinesi, che pure è culminata in una solenne
celebrazione eucaristica per i cristiani sulla piazza di
Betlemme, è stata un segno forte soprattutto di una
diaconia della giustizia della creazione, che consiste
nel santificare il Nome del Dio-Uno, nell’accoglienza
dell’altro essere umano, rispettandone la differenza e
l’irriducibile identità: cf. la coppia uomo/donna,
Caino/Abele, Isacco/Ismaele, Israele e le genti, ecc.
L’Israele mediorientale di oggi - quello che coincide
visibilmente con lo Stato d’Israele - si sta, invece,
mostrando al mondo, chiuso e indurito in se stesso per
il timore di una nuova Sho’ah, di cui riconosce la
minaccia nelle metodologie terroristiche, di cui è
fatto oggetto dalla resistenza palestinese, appoggiata
da alcune potenze islamiche straniere. Così facendo,
esso corre un pericolo immensamente più grave, quello
di suicidarsi spiritualmente, oltre che politicamente,
in quella che è la vocazione propria di Israele, di
essere, ancora oggi, il tramite particolare della
benedizione di Abramo per tutte le nazioni della terra.
Se oggi, in Medio Oriente, non solamente per i
palestinesi, ma per tutte le nazioni del mondo - e
persino per le Chiese cristiane! - diventa
incomprensibile capire che, nel disegno divino sulla
storia umana, Israele è (con la Chiesa messianica di
Gesù) il “popolo sacramentale” della benedizione di
Dio per l’umanità intera, l’Israele mediorientale
rischia di perdere la sua anima, e ciò per esso è
molto più grave di quanto non sia il ritirarsi
volontariamente dalle colonie e dagli insediamenti
stabiliti entro i territori dell’Autonomia
Palestinese.
Dopo l’11 settembre 2001, la paura e l’indurimento
sono ulteriormente cresciuti, e la situazione delle
popolazioni palestinesi si è fatta scandalosamente
ancora più grave.
In questo contesto, a che punto sta oggi il dialogo
ecumenico tra cristianesimo ed ebraismo? Senza dubbio,
si registrano in esso alcuni progressi (interessante
l’esistenza di comunità giudeocristiane e
giudeomessianiche), ma anche dei regressi. Il dialogo
fraterno, però, tra Chiesa e Israele è ormai un
irreversibile segno di Dio nei nostri tempi di uomini di
oggi.
L’intifada palestinese,
una pietra sul dialogo ebraico-cristiano?
di Francesco Rossi de Gasperis S.J.
All’islam sfugge la singolarissima comunione di fede e
di cultura che esiste tra cristianesimo ed ebraismo, tra
Chiesa e Israele, tra Antico e Nuovo Testamento. Bisogna
tener presente anche questo per capire un certo
"terrorismo islamico": esso nasce da una
"teologia della sostituzione" ancor più
radicale di quella che conobbe in passato - e conosce
ancor’oggi, purtroppo - quella "teologia
cristiana antisemita", che Giovanni Paolo II vuole
combattere. Il "terzo monoteismo" ha superato
e sotto-messo i due precedenti, dei quali ha occupato il
posto. L’esempio architettonico più drammatico di
questa teologia sostitutiva è visibile nelle due
moschee erette sul Monte del Tempio ebraico, a
Gerusalemme. Si tratta di un’incomprensione islamica
della parentela ebraico-cristiana, in cui potremmo
riconoscere una forma di "gelosia", quella di
Ismaele per Isacco e i suoi discendenti.
Questo atteggiamento trova un’analoga corrispondenza
in un’altra forma di "gelosia", che avverto
in alcuni cristiani palestinesi nei confronti dei
cristiani occidentali. Come ho sopra accennato, anche i
cristiani palestinesi condividono, a loro modo e per
punti di vista propri, quella incomprensione islamica.
Ritenendo il compimento messianico della profezia
ebraica da parte di Gesù nei termini "dialettici e
sostitutivi", ai quali ho accennato, essi non
riconoscono a Israele alcuna significanza teologale, che
sentano rilevante per la loro fede, come invece avviene
a noi - almeno a molti di noi - in Occidente. Non
solamente le radici ebraiche della fede cristiana, ma il
fatto stesso che Gesù fosse, e rimanga ebreo per
sempre, non sembra comportare per loro alcuna risonanza
spirituale, occupati e preoccupati, come sono, dalla
tragedia del loro popolo e della loro patria. In essi,
al contrario, può far presa una certa ideologia, anche
teologica, dell’arabismo, derivante dalla loro
profonda e sincera inculturazione in esso.
Segnalo questa contestualizzazione teologica degli
eventi socio-politici della conflittuale situazione
israelo-palestinese, perché essa influenza il dialogo
ebraico-cristiano in loco, in modo nuovo e, a mio
giudizio, molto serio per tutte le Chiese dell’area
mediorientale.
Per non cadere in un banale e vieto "marcionismo",
infatti, che neghi ogni valore di "parola di
Dio" a tutto l’Antico Testamento, alcuni teologi
palestinesi sono generosamente impegnati in una
revisione dell’esegesi cristiana delle Scritture, che
scaturisce da una più ampia "teologia palestinese
della liberazione", che da anni viene proposta da
centri culturali cristiani, sia protestanti sia
cattolici.
In un recente articolo apparso in un fascicolo dedicato
al tema “The Gospel in Context” (cioè il Vangelo
contestualizzato): "Meeting Jesus Again in the
First Place. Palestinian Christians and the Bible"
(Interpretation. A Journal of Bible and Theology, 55,
2001, 400-412), Lance D. Laird descrive come alcuni
teologi cristiani dell’intifada (B. Sabella, M. Raheb,
N. S. Ateek, ecc.) cerchino di liberare il loro popolo
da una lettura della Bibbia che ancora ammetta le
interpretazioni storiche ed “esclusive”
dell’elezione divina e delle promesse divine a Israele
- specialmente la promessa della terra -, dell’esodo
egiziano, della conquista di Canaan, del ritorno
dall’esilio, ecc. Sostenendo, a ragione, una "inclusività"
dell’elezione d’Israele, essi sembrano annullarne di
fatto la portata storico-messianica, interpretandola
"storicamente" - insieme alla promessa della
terra - come una generica predilezione di Dio per i
deboli e gli oppressi.
Come è già avvenuto altrove ai nostri giorni, per
alcuni altri "teologi della liberazione", la
teologia dell’alleanza si ridurrebbe alla promozione
della giustizia della creazione, e la teologia
dell’esodo e della croce-risurrezione attualmente
concernerebbe specialmente la umiliata e crocefissa
popolazione palestinese, che resiste all’occupazione
israeliana e attende il riconoscimento e
l’affermazione dei propri diritti. L’esegesi della
Bibbia fatta dai cristiani occidentali, che a essi
appare elaborata in un vacuum, al di fuori del contesto
dell’attuale intifada palestinese, correrebbe il
pericolo di risultare "alienata e alienante",
facendo in realtà il gioco del fondamentalismo
"sionista", con profonde conseguenze negative
sia per gli ebrei sia per gli arabi.
Con l’immenso rispetto che nutro per la passione dei
cristiani palestinesi e per la sofferta ricerca di una
loro originale autenticità cristiana, a me sembra che
ogni cristiano legga nelle Scritture una parola di Dio
valida integralmente per tutti i tempi. Essa, per gli
occidentali come per gli orientali - ma prima di tutto
per gli orientali! - non si è incarnata affatto in un
vacuum - disponibile a tutte le interpretazioni di
convenienza -, ma nella storia e nella coscienza del
popolo di Israele e di Gesù, Messia di Israele, e poi
anche delle genti (Rm 15,7-13).
Mi sembra che la Bibbia, che per la fede
ebraico-cristiana è tutta parola di Dio, tenga già
conto in se stessa dei condizionamenti e delle
contestualizzazioni che ne impediscano una lettura
ideologizzata o ideologizzabile, sia da parte di
"esegeti fondamentalisti israeliani", sia da
parte di "esegeti contestuali palestinesi".
Essa resiste ai tentativi di coloro che pretendano
manometterla a loro piacimento per "liberarla"
da tutte quelle connotazioni storiche, che sembrino non
favorire, qui e adesso, degli interessi socio-politici,
anche legittimi; come pure essa resiste ai tentativi di
chi, altrettanto ingiustamente, pretenda interpretarla
fondamentalisticamente, come fanno quegli esegeti
israeliani, che presumono di dedurre oggi da essa un
diritto divino che li autorizzi a realizzare una
colonizzazione totale e incondizionata del loro paese,
indipendentemente dalla presenza plurisecolare in esso
delle popolazioni arabe palestinesi, cristiane e
musulmane.
Non spetta al contesto socio-politico dettare
ciò che vada ritenuto e ciò che vada lasciato cadere
nell’interpretazione della parola di Dio (“The
Gospel in context”), ma, al contrario, quel contesto,
lungo i secoli, andrà riletto e ricompreso ogni volta
dai credenti nella totalità delle Scritture (“The
context in the whole Bible”), alle quali nulla dovrà
essere aggiunto e dalle quali nulla dovrà essere tolto
(Dt 4,2; 5,32; 13,1; Gs 1,7; Mt 5,17-19). Da una tale
rilettura i credenti deriveranno, poi, un discernimento
per la loro condotta, senza rinunciare all’elezione,
alle promesse e alle alleanze del Signore con Israele,
alla conquista della terra di Canaan e al ritorno
dall’esilio, ecc., come pure tenendo ben conto di
tutti i contesti socio-politici, anche odierni, senza
cadere nelle strumentalizzazioni delle ideologie di
turno.
Personalmente, ho cercato di indicare alcuni criteri di
interpretazione che evitino simili strumentalizzazioni
di destra e di sinistra, nel mio Excursus:
"Creazione, alleanza, escatologia", in: F.
Rossi de Gasperis-A. Carfagna, “Prendi il Libro e
mangia!”, vol. I: “Dalla Creazione alla Terra
promessa” (Bibbia e spiritualità, 3), Edb, Bologna,
seconda ristampa 1999, 287-381, spec. 372-379. Si potrà
vedere anche il nostro secondo volume: “Prendi il
Libro e mangia!”, vol. II: “Dai Giudici alla fine
del Regno” (Bibbia e spiritualità, 7), Edb, Bologna
1999, 9-20.
Il dono della terra a un popolo particolare da parte
dell’unico Dio di tutti non crea in quel popolo alcun
"diritto esclusivo" di proprietà, quando la
vocazione divina designa lo stesso popolo a una funzione
sacerdotale a beneficio di tutti gli altri. Né
palestinesi né ebrei - e nemmeno italiani o
"extra-comunitari" - hanno diritto di
possedere esclusivamente un determinato paese. La terra
è di Dio e noi siamo presso di lui come forestieri e
inquilini (Lv 25,23). Il dono della terra a Israele è
sempre stato, attraverso i secoli, legato ai contesti e
ai condizionamenti socio-politici del momento. Oggi
queste condizioni si esprimono nelle dichiarazioni delle
Nazioni Unite, che impongono una convivenza ai due
popoli sull’unica terra Israele-Palestina. Si tratta
di un dono che non mette fuori “gli altri”, chiunque
essi siano. Detto questo, però, nessuno che legga la
Bibbia ebrea-cristiana come parola di Dio può negare
che Israele abbia una sua, essenziale, relazione con
questa terra e con Gerusalemme. Quando la radio e la Tv
italiane parlano dei "soldati di Tel Aviv" o
del "governo di Tel Aviv", esse offendono il
popolo israeliano, per il quale l’unica Città
capitale non può essere un’altra da Gerusalemme.
Tale simbolismo teologale dell’Israele attuale (non
necessariamente di uno "Stato o dell’attuale
Stato" d’Israele) non è accettata né dai
musulmani, i quali negano radicalmente che vi sia un
popolo particolare eletto da Dio (lo ha detto
chiaramente anche Bashar al-Assad, quando ha ricevuto il
Papa nell’aeroporto di Damasco), né, come si è
visto, da numerosi cristiani palestinesi. Questo invece
è quello che noi crediamo: la salvezza universale
dell’umanità è disegnata da Dio sull’unico Figlio,
Gesù Messia, profetato dal suo popolo ed evangelizzato
dalla sua Chiesa (cfr Rm 8, 29-30; 1Pt 1, 10-12).
L’esigenza universale della giustizia e dei diritti
dell’uomo, nonostante le apparenze, non può e non
deve essere conflittuale con il particolarismo
dell’alleanza, che congiunge le Chiese cristiane a
Israele. Secondo la Bibbia, certo, una tensione esiste
tra l’economia della giustizia della creazione e
l’economia storica dell’alleanza (cfr la gelosia
delle genti per Israele), una tensione che non è sempre
chiara nemmeno alla coscienza di molti cristiani
occidentali. Chi insiste di più sulla giustizia
universalistica della creazione sembra dimenticare e
trascurare la dimensione storica dell’elezione e
dell’alleanza (e parteggia per i palestinesi contro
gli israeliani), mentre chi tiene di più alla fede
biblica sembra privilegiare il particolarismo
dell’elezione e dell’alleanza di Israele (e
parteggia per gli israeliani a scapito dei palestinesi).
Un fenomeno molto interessante è, in Israele, quello
dei giudei credenti in Gesù: è un evento profetico,
che mostra con estrema chiarezza che Gesù appartiene al
popolo ebraico, al suo popolo, non alla Chiesa. Siamo
noi che apparteniamo a Gesù. Questi ebrei credenti in
Gesù si ricollegano al Gesù della Chiesa primitiva,
che era la Chiesa degli ebrei, e ciò è estremamente
liberante per noi. Non sono io che posseggo Gesù, ma è
lui che mi possiede, e che mi ha aggiunto a quella parte
del suo popolo, che ha creduto in lui fin dal principio
(Ef 1,8-12). Maria, Pietro e gli Undici, Marco, Marta e
Maria... non erano “cristiani”. Erano, come quelli
di oggi, "giudei discepoli di Jeshua". Essi
non vogliono più chiamarsi nemmeno "giudei
messianici", avendo questo termine assunto una
connotazione politica, collegata con alcuni gruppi
estremisti della destra israeliana.
Nel suo libro “Yom Kippur. Guerre et prière”
(Gerusalemme, 1975), A. Hazan, un rabbino cappellano
militare israeliano, si lamenta con Abramo: "Perché,
perché non hai atteso con fede che nascesse Isacco da
Sara, e prima di lui hai fatto nascere Ismaele da Agar?
Ormai, anche Ismaele è stato circonciso, ed è dunque
anche lui, in qualche modo, un partner
dell’alleanza". È questo un altro modo per
chiedersi dove collocare l’islam nel piano di Dio?
Poiché non c’è dubbio, esiste un "mistero
dell’islam", un mistero che Paolo non ha potuto
prendere in considerazione.
Dal punto di vista teologico e spirituale, bisognerebbe
integrare armoniosamente la fede nel Signore
dell’alleanza (il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, il
Dio d’Israele e della Chiesa, JHWH) con quella nel Dio
creatore (Elohim), e intendere le religioni come delle
elaborazioni (in parte umane) di quella fede divina nel
Dio unico. Difatti spesso molti che oggi si vogliono e
si dicono più intensamente religiosi, sembrano essere
in realtà - come i terroristi kamikaze, "martiri
ciechi" che uccidono in nome di Dio - meno credenti
di altri, i quali, invece, senza mostrarsi
eccessivamente religiosi, appaiono più credenti e
giungono a conoscere il "vero martirio della pace e
della riconciliazione", come Anwar as-Sadat e
Itzhaq Rabin, uccisi da religiosi islamici ed ebraici.
Una religiosità povera di fede diventa, infatti,
fatalmente integralismo fanatico. Chi non riconosce e
non esulta per la presenza davanti a lui dell’altro da
sé, come l’uomo di fronte alla donna (Gen 2, 23-25),
non santifica il Nome dell’unico Dio. Pensiamo ai
taleban e alla loro vergognosa cancellazione delle donne
dalla loro società!
Dal punto di vista politico, credo che niente sia stato
detto di più chiaro di quanto, tra altre cose, ha detto
il Papa Giovanni Paolo II, il 10 gennaio 2002, al Corpo
diplomatico accreditato presso la Santa Sede:
"Nessuno può rimanere insensibile
all’ingiustizia di cui il popolo palestinese è
vittima da più di cinquant’anni. Nessuno può
contestare il diritto del popolo israeliano a vivere
nella sicurezza. Ma nessuno può nemmeno dimenticare le
vittime innocenti che, da una parte e dall’altra,
cadono ogni giorno sotto i colpi e gli spari.
Le armi e
gli attentati cruenti non saranno mai strumenti adeguati
per far giungere messaggi politici agli interlocutori.
Neanche però la logica della legge del taglione è
adatta per preparare le vie della pace... Soltanto il
rispetto dell’altro e delle sue legittime aspirazioni,
l’applicazione del diritto internazionale,
l’evacuazione dei territori occupati e uno statuto
internazionalmente garantito per le parti più sacre di
Gerusalemme, sono in grado di avviare un processo di
pacificazione in questa parte del mondo, spezzando la
catena infernale dell’odio e della vendetta... Gli
israeliani e i palestinesi, gli uni contro gli altri,
non vinceranno la guerra. Gli uni insieme con gli altri,
possono vincere la pace".
Più modestamente, ma non meno esplicitamente, un
numeroso gruppo di ebrei italiani ha firmato una
lucidissima lettera aperta, pubblicata su La Repubblica
del 23 dicembre 2001: "Siamo solidali con il popolo
israeliano così duramente colpito dal terrorismo
palestinese, che punta all’eliminazione dello Stato
d’Israele. Siamo solidali con il popolo palestinese
che da decenni soffre sotto occupazione israeliana e
aspira al riconoscimento dei propri diritti,
all’indipendenza, alla terra, alla dignità. Noi
pensiamo che la dirigenza palestinese, rompendo le
trattative nell’inverno 2000-2001 e ricorrendo all’intifada,
abbia distrutto nella maggioranza degli israeliani la
speranza nel processo di pace, e abbia favorito
l’ascesa di Sharon, propenso a liquidare l’autonomia
palestinese.
Noi pensiamo che l’ininterrotta politica
israeliana di espansione degli insediamenti nei
territori occupati abbia minato tra i palestinesi la
speranza nel processo di pace come via per la propria
indipendenza territoriale e statuale. Le rappresaglie e
il blocco militare dei territori hanno, con alto prezzo
di vite umane, costretto Arafat a intervenire finalmente
contro il terrorismo. Ma questo risultato rischia di
vanificarsi senza una svolta da entrambi i lati: da
parte palestinese l’impegno nei fatti per sconfiggere
il terrorismo, da parte israeliana il blocco degli
insediamenti in vista della loro evacuazione ci sembrano
le condizioni per ricostruire la fiducia nel negoziato.
Ora le forze della pace in Israele e tra i palestinesi
sono in terribile difficoltà.
Tanto più riteniamo
necessario appoggiarle: non c’è alternativa a che due
popoli e due stati convivano nella sicurezza e nella
dignità. Ci riconosciamo nell’azione coraggiosa di
esponenti politici come Iossi Beilin, Iossi Sarid, Yael
Dayan da parte israeliana, Yasser Rabbo, Ziyad Abu Ziyad,
Hannan Ashrawi da parte palestinese, che hanno
riconfermato l’impegno per un’azione comune di pace.
Dopo l’11 settembre le ripercussioni globali del
conflitto israeliano-palestinese si sono moltiplicate.
Ci uniamo a quanti si appellano all’Ue, agli Usa, alla
Russia, perché intervengano con più decisione per
interporsi alla violenza e per spingere le due parti a
riprendere il negoziato".
Mi sembra questo uno splendido esempio di come
l’ebraismo della diaspora possa influire
sull’ebraismo della patria, in vista della
pacificazione del conflitto. Non potrebbe avvenire
altrettanto da parte dei palestinesi della diaspora più
illuminati, nei confronti del loro popolo in patria?
Infine, la vera soluzione, a lungo termine, starà in
un’educazione nuova che venga impartita nelle scuole,
sia palestinesi sia israeliane; un’educazione capace,
come a Newé
Shalom, di riconoscere e di far comprendere
all’uno, non tanto i diritti, quanto le ragioni
dell’altro. Insegnare che non si può pensare al
possesso o alla riconquista della terra con
l’esclusione o l’eliminazione dell’altro, ma al
contrario facendo apprezzare l’amicizia dell’altro e
la comunione con lui come un tesoro ben più prezioso di
un pezzo di terreno.
[1]
Mondo e Missione è la rivista del Pontificio
istituto missioni estere di Milano.
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