Francesco Rossi De Gasperis S.J.

Un insigne biblista, maestro del Cardinal Martini 
autore di "Cominciando da Gerusalemme

svela le radici teologiche dell’intifada dei cristiani palestinesi contro Israele. 


“Ma Cristo non ha cancellato Israele”. Le Chiese di Palestina e l’ebraismo
Articolo pubblicato su "Mondo e Missione" [1] - febbraio 2002 (prima parte)

La seconda parte è uscita sul numero di marzo 2002, con il titolo:
L’intifada palestinese, una pietra sul dialogo ebraico-cristiano?



Nella primavera dell’anno 2000 Giovanni Paolo II compiva in Terra Santa un viaggio personale, ma di forte valenza ecclesiale, che egli stesso ha descritto come "il cammino spirituale del vescovo di Roma verso le sorgenti della nostra fede nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe". I gesti compiuti dal Papa sono stati più eloquenti delle parole e delle dichiarazioni ufficiali, come il pellegrinaggio alla collina della memoria della Sho’ah. "Dopo la celebrazione a Yad waShem - ha scritto un giornale israeliano - ci rendiamo conto di quanto la presenza del Papa ci ha permesso di toccare i nostri sentimenti più profondi. Le idee astratte erano immerse nelle lacrime". Un viaggio dunque esemplare per tutta la Chiesa.

Il fatto e il ricordo della Sho’ah ha indubbiamente segnato nel dopoguerra una prima conversione penitenziale dei cristiani nei confronti di Israele, culminata nella domanda di perdono, che Giovanni Paolo II ha portato da Roma al Kothel (il Muro occidentale) dell’area del Tempio di Gerusalemme.

A una tale riconversione al popolo ebraico, tuttavia, nelle Chiese di Occidente ha fatto seguito una seconda conversione, molto più fondamentale, che ci ha condotti a riscoprire le radici essenzialmente ebraiche della fede cristiana, un movimento che ha prodotto, tra l’altro, il convegno vaticano di studio sulle radici dell’antigiudaismo teologico cristiano, celebrato in Vaticano nell’autunno del 1997. Siamo ben lontani oggi dal comprendere come sia stato possibile, chiedere agli ebrei che si convertivano a Gesù di abiurare la “perfidia ebraica” e la “superstizione giudaica”, come prescriveva il Rituale Romano fino a pochi decenni fa! Al contrario, abbiamo riscoperto la fede cristiana non come una “religione nuova”, ma come una trascendente fioritura messianica dell’ebraismo del I° secolo.

Questa seconda conversione, però, non è stata compresa, e non è condivisa dalle Chiese del Medio Oriente. In esse se ne parla comunemente come dell’espressione di un complesso di colpa da parte degli occidentali, prodotto dalla Sho’ah, da cui i cristiani di Oriente si sentono immuni. In realtà, una “teologia della sostituzione”, che identifichi la Chiesa come il superamento teologico d’Israele (il “nuovo Israele”), e che è ancora radicata nelle Chiese di Oriente - mentre in Occidente ha cominciato a essere seriamente messa in questione, sia pur timidamente -, spogliando di ogni significato teologico la permanenza del primo Israele fino a oggi, equivale praticamente anche in esse a una sorta di Sho’ah culturale e spirituale, le cui conseguenze non sono piccole. 

In Oriente, e non solo in Palestina, ci si imbatte molto spesso in una teologia e in una prassi liturgica e pastorale fondate sulla convinzione (“costantiniana”) che il cristianesimo sia una religione nuova, che non ha nulla a che fare con l’ebraismo, che gli si è sostituita e ne ha preso il posto nel disegno divino di rivelazione e di salvezza. La Chiesa sarebbe il “nuovo Israele”, nel senso che si tratterebbe veramente di “un altro Israele”, che non ha più alcuna vera relazione con il primo. “Israele”, pertanto, diventa per i cristiani un nome puramente simbolico, teologico e “spirituale”, che non ha più alcun riferimento concreto nel campo storico-socio-politico-culturale. La Gerusalemme “celeste” non avrebbe alcuna relazione con la Gerusalemme della terra e della storia. Poiché, poi, anche il nostro linguaggio, in Occidente, è ancora piuttosto ambiguo su questo punto, non c’è da meravigliarsi che un penoso malinteso sorga tra noi e i nostri fratelli di fede medio-orientali, nei riguardi della posizione che le Chiese in Occidente hanno assunto verso l’ebraismo, nel dopoguerra, e specialmente a partire dal Concilio Vaticano II. Questo equivoco si estende fino al giudizio sull’atteggiamento del Papa, sulla sua domanda di perdono nei confronti del popolo ebraico, e sui gesti da lui compiuti durante la visita in Terra Santa.

C’è di più. Alla Sho’ah ha fatto seguito la creazione di uno Stato d’Israele - e qui si è trattato non di un “Israele simbolico-platonico”, convertibile a piacimento con qualunque altra realtà, bensì del primo Israele, di quello concreto, storico-culturale - e i palestinesi, i quali si sentono giustamente esenti dalle colpe del nazi-fascismo, ritengono di essere i soli a pagarne le conseguenze molto pesanti. Il “malinteso” tra cristiani occidentali e cristiani orientali si colora, perciò, anche di tonalità politiche. L’innamoramento e la simpatia per il popolo ebraico, che per ragioni puramente bibliche, teologiche e spirituali, si sono riaccesi tra le Chiese di Occidente, viene risentito, infatti, dai palestinesi come una parzialità e un’ingenerosa insensibilità nostra nei confronti della tragedia che, da più di cinquant’anni, si è abbattuta sul loro paese e sulle loro popolazioni, a causa della nascita dello Stato d’Israele e della politica dei suoi governanti. E si sentono, in qualche modo, lasciati soli da noi di fronte al loro destino.

In modo particolarissimo, poi, i cristiani d’Oriente, solidali con i loro fratelli islamici, rifiutano assolutamente di riconoscere la minima relazione teologico-biblica tra l’Israele odierno e il loro paese, la Terra Santa, che per essi è solamente e tutta intera “Palestina”. La promessa e il dono della Terra, che il Signore ha fatto agli ebrei secondo le Scritture dell’Antico Testamento, per essi è un argomento inaccettabile, e in ogni caso del tutto e per sempre superato. Di conseguenza, la creazione dello Stato d’Israele appare loro unicamente come un’aggressione, un’invasione straniera, o tutt’al più come un evento prodotto da circostanze politiche puramente secolari, dei secoli XIX e XX. C’è una canzone palestinese che dice più o meno così: “Noi, cristiani e musulmani, vivevamo felici e in pace su questa terra, ma è arrivato un popolo estraneo, da fuori, che ci ha spogliati della nostra patria”.

Si comprende, perciò, la difficoltà che i cristiani palestinesi sperimentano nel leggere l’Antico Testamento, non trovando apparentemente nella Bibbia un’intelligenza accettabile di ciò che sta loro succedendo oggi. Al contrario, essi temono a ogni passo che la lettura integrale delle Scritture ebraiche, che noi favoriamo nelle Chiese di Occidente, giustifichi e favorisca l’interpretazione fondamentalistica e nazionalistica, che ne fanno i coloni e i gruppi della più estrema destra israeliana. Di nuovo, molti di loro si meravigliano, e quasi si scandalizzano, dell’amore e dell’entusiasmo con cui, invece, in Occidente, noi riscopriamo la bellezza e la decisiva importanza delle Scritture ebraiche per la nostra vita di fede cristiana.

L’ultimo documento della Pontificia Commissione Biblica su "Il popolo ebraico e le sue sacre Scritture nella Bibbia cristiana", pubblicato nella Festa dell’Ascensione del 2001, afferma nella conclusione che "le sacre Scritture del popolo ebraico costituiscono una parte essenziale della Bibbia cristiana e sono presenti, in molti modi, nell’altra parte. Senza l’Antico Testamento, il Nuovo Testamento sarebbe un libro indecifrabile, una pianta privata delle sue radici e destinata a seccarsi" (n. 84): una citazione che il card. Joseph Ratzinger evidenzia nella prefazione che premette allo stesso documento.

Abbiamo ascoltato un vescovo palestinese (non cattolico) interpretare e giustificare la lettura dell’Antico Testamento da parte dei cristiani, nel senso che in quelle pagine si tratterebbe di eventi e insegnamenti ormai tutti compiuti e assorbiti da Gesù e in Gesù, e dunque, per noi, privi in se stessi di ogni significato proprio e di ogni valenza teologica. Un “compimento cristologico” dell’Antico Testamento, inteso in un modo così radicale che la realtà storica e teologica dei suoi eventi e dei suoi personaggi venga tutta assunta e dissolta direttamente ed esclusivamente in Gesù Cristo, nasce da una tipologia ideologica, radicalmente platonizzante e dualistica, che non riconosce altro nella storia e nelle storie d’Israele, se non delle ombre-prefiguranti altre verità-realtà appartenenti a un ordine superiore, le quali rendono quelle “figure” ormai completamente sorpassate, consumate e svuotate di ogni loro portata intrinseca, e dunque oggi completamente irrilevanti per la verità cristiana. E, allora, come intendere le parole di Gesù in Mt 5,17-19: "Non pensate che io sia venuto ad abolire la Torah e i Profeti..."?

È questa la Sho’ah culturale, di cui parlavo sopra, che - dobbiamo confessarlo dolorosamente - ha nutrito per molti secoli anche buona parte della lettura cristiana della Bibbia tra noi, in Occidente, divenendo, senza volerlo, uno dei fattori (non certo l’unico) dell’antisemitismo europeo, anche di quello che il paganesimo nazista ha trovato disponibile per la costruzione della sua folle mitologia ariana. Contro un tale antisemitismo, fondato su di una teologia ed esegesi “platonicamente ideologizzate”, Giovanni Paolo II ha condotto forse la sua battaglia più bella per la difesa della fede contro ogni forma di gnosticismo.

Anche il viaggio giubilare del Papa è stata una tappa importante di questa battaglia. Per chi ha bene osservato e percepito il senso degli avvenimenti, è stato chiaro che quella visita si è mossa su due piani distinti, ma armonicamente collegati. C’è stata la visita a Israele, “il fratello maggiore”, quale segno di una diaconia dell’alleanza particolare di Dio con Israele e con la Chiesa. A Yad waShem e al Muro occidentale, Giovanni Paolo II ha benedetto il Dio dei padri, Abramo, Isacco e Giacobbe. La visita ai palestinesi, che pure è culminata in una solenne celebrazione eucaristica per i cristiani sulla piazza di Betlemme, è stata un segno forte soprattutto di una diaconia della giustizia della creazione, che consiste nel santificare il Nome del Dio-Uno, nell’accoglienza dell’altro essere umano, rispettandone la differenza e l’irriducibile identità: cf. la coppia uomo/donna, Caino/Abele, Isacco/Ismaele, Israele e le genti, ecc.

L’Israele mediorientale di oggi - quello che coincide visibilmente con lo Stato d’Israele - si sta, invece, mostrando al mondo, chiuso e indurito in se stesso per il timore di una nuova Sho’ah, di cui riconosce la minaccia nelle metodologie terroristiche, di cui è fatto oggetto dalla resistenza palestinese, appoggiata da alcune potenze islamiche straniere. Così facendo, esso corre un pericolo immensamente più grave, quello di suicidarsi spiritualmente, oltre che politicamente, in quella che è la vocazione propria di Israele, di essere, ancora oggi, il tramite particolare della benedizione di Abramo per tutte le nazioni della terra. Se oggi, in Medio Oriente, non solamente per i palestinesi, ma per tutte le nazioni del mondo - e persino per le Chiese cristiane! - diventa incomprensibile capire che, nel disegno divino sulla storia umana, Israele è (con la Chiesa messianica di Gesù) il “popolo sacramentale” della benedizione di Dio per l’umanità intera, l’Israele mediorientale rischia di perdere la sua anima, e ciò per esso è molto più grave di quanto non sia il ritirarsi volontariamente dalle colonie e dagli insediamenti stabiliti entro i territori dell’Autonomia Palestinese.

Dopo l’11 settembre 2001, la paura e l’indurimento sono ulteriormente cresciuti, e la situazione delle popolazioni palestinesi si è fatta scandalosamente ancora più grave.

In questo contesto, a che punto sta oggi il dialogo ecumenico tra cristianesimo ed ebraismo? Senza dubbio, si registrano in esso alcuni progressi (interessante l’esistenza di comunità giudeocristiane e giudeomessianiche), ma anche dei regressi. Il dialogo fraterno, però, tra Chiesa e Israele è ormai un irreversibile segno di Dio nei nostri tempi di uomini di oggi.


L’intifada palestinese, una pietra sul dialogo ebraico-cristiano?
di Francesco Rossi de Gasperis S.J.


All’islam sfugge la singolarissima comunione di fede e di cultura che esiste tra cristianesimo ed ebraismo, tra Chiesa e Israele, tra Antico e Nuovo Testamento. Bisogna tener presente anche questo per capire un certo "terrorismo islamico": esso nasce da una "teologia della sostituzione" ancor più radicale di quella che conobbe in passato - e conosce ancor’oggi, purtroppo - quella "teologia cristiana antisemita", che Giovanni Paolo II vuole combattere. Il "terzo monoteismo" ha superato e sotto-messo i due precedenti, dei quali ha occupato il posto. L’esempio architettonico più drammatico di questa teologia sostitutiva è visibile nelle due moschee erette sul Monte del Tempio ebraico, a Gerusalemme. Si tratta di un’incomprensione islamica della parentela ebraico-cristiana, in cui potremmo riconoscere una forma di "gelosia", quella di Ismaele per Isacco e i suoi discendenti.

Questo atteggiamento trova un’analoga corrispondenza in un’altra forma di "gelosia", che avverto in alcuni cristiani palestinesi nei confronti dei cristiani occidentali. Come ho sopra accennato, anche i cristiani palestinesi condividono, a loro modo e per punti di vista propri, quella incomprensione islamica. Ritenendo il compimento messianico della profezia ebraica da parte di Gesù nei termini "dialettici e sostitutivi", ai quali ho accennato, essi non riconoscono a Israele alcuna significanza teologale, che sentano rilevante per la loro fede, come invece avviene a noi - almeno a molti di noi - in Occidente. Non solamente le radici ebraiche della fede cristiana, ma il fatto stesso che Gesù fosse, e rimanga ebreo per sempre, non sembra comportare per loro alcuna risonanza spirituale, occupati e preoccupati, come sono, dalla tragedia del loro popolo e della loro patria. In essi, al contrario, può far presa una certa ideologia, anche teologica, dell’arabismo, derivante dalla loro profonda e sincera inculturazione in esso.

Segnalo questa contestualizzazione teologica degli eventi socio-politici della conflittuale situazione israelo-palestinese, perché essa influenza il dialogo ebraico-cristiano in loco, in modo nuovo e, a mio giudizio, molto serio per tutte le Chiese dell’area mediorientale.

Per non cadere in un banale e vieto "marcionismo", infatti, che neghi ogni valore di "parola di Dio" a tutto l’Antico Testamento, alcuni teologi palestinesi sono generosamente impegnati in una revisione dell’esegesi cristiana delle Scritture, che scaturisce da una più ampia "teologia palestinese della liberazione", che da anni viene proposta da centri culturali cristiani, sia protestanti sia cattolici.

In un recente articolo apparso in un fascicolo dedicato al tema “The Gospel in Context” (cioè il Vangelo contestualizzato): "Meeting Jesus Again in the First Place. Palestinian Christians and the Bible" (Interpretation. A Journal of Bible and Theology, 55, 2001, 400-412), Lance D. Laird descrive come alcuni teologi cristiani dell’intifada (B. Sabella, M. Raheb, N. S. Ateek, ecc.) cerchino di liberare il loro popolo da una lettura della Bibbia che ancora ammetta le interpretazioni storiche ed “esclusive” dell’elezione divina e delle promesse divine a Israele - specialmente la promessa della terra -, dell’esodo egiziano, della conquista di Canaan, del ritorno dall’esilio, ecc. Sostenendo, a ragione, una "inclusività" dell’elezione d’Israele, essi sembrano annullarne di fatto la portata storico-messianica, interpretandola "storicamente" - insieme alla promessa della terra - come una generica predilezione di Dio per i deboli e gli oppressi.

Come è già avvenuto altrove ai nostri giorni, per alcuni altri "teologi della liberazione", la teologia dell’alleanza si ridurrebbe alla promozione della giustizia della creazione, e la teologia dell’esodo e della croce-risurrezione attualmente concernerebbe specialmente la umiliata e crocefissa popolazione palestinese, che resiste all’occupazione israeliana e attende il riconoscimento e l’affermazione dei propri diritti. L’esegesi della Bibbia fatta dai cristiani occidentali, che a essi appare elaborata in un vacuum, al di fuori del contesto dell’attuale intifada palestinese, correrebbe il pericolo di risultare "alienata e alienante", facendo in realtà il gioco del fondamentalismo "sionista", con profonde conseguenze negative sia per gli ebrei sia per gli arabi.

Con l’immenso rispetto che nutro per la passione dei cristiani palestinesi e per la sofferta ricerca di una loro originale autenticità cristiana, a me sembra che ogni cristiano legga nelle Scritture una parola di Dio valida integralmente per tutti i tempi. Essa, per gli occidentali come per gli orientali - ma prima di tutto per gli orientali! - non si è incarnata affatto in un vacuum - disponibile a tutte le interpretazioni di convenienza -, ma nella storia e nella coscienza del popolo di Israele e di Gesù, Messia di Israele, e poi anche delle genti (Rm 15,7-13).

Mi sembra che la Bibbia, che per la fede ebraico-cristiana è tutta parola di Dio, tenga già conto in se stessa dei condizionamenti e delle contestualizzazioni che ne impediscano una lettura ideologizzata o ideologizzabile, sia da parte di "esegeti fondamentalisti israeliani", sia da parte di "esegeti contestuali palestinesi". 

Essa resiste ai tentativi di coloro che pretendano manometterla a loro piacimento per "liberarla" da tutte quelle connotazioni storiche, che sembrino non favorire, qui e adesso, degli interessi socio-politici, anche legittimi; come pure essa resiste ai tentativi di chi, altrettanto ingiustamente, pretenda interpretarla fondamentalisticamente, come fanno quegli esegeti israeliani, che presumono di dedurre oggi da essa un diritto divino che li autorizzi a realizzare una colonizzazione totale e incondizionata del loro paese, indipendentemente dalla presenza plurisecolare in esso delle popolazioni arabe palestinesi, cristiane e musulmane. 

Non spetta al contesto socio-politico dettare ciò che vada ritenuto e ciò che vada lasciato cadere nell’interpretazione della parola di Dio (“The Gospel in context”), ma, al contrario, quel contesto, lungo i secoli, andrà riletto e ricompreso ogni volta dai credenti nella totalità delle Scritture (“The context in the whole Bible”), alle quali nulla dovrà essere aggiunto e dalle quali nulla dovrà essere tolto (Dt 4,2; 5,32; 13,1; Gs 1,7; Mt 5,17-19). Da una tale rilettura i credenti deriveranno, poi, un discernimento per la loro condotta, senza rinunciare all’elezione, alle promesse e alle alleanze del Signore con Israele, alla conquista della terra di Canaan e al ritorno dall’esilio, ecc., come pure tenendo ben conto di tutti i contesti socio-politici, anche odierni, senza cadere nelle strumentalizzazioni delle ideologie di turno.

Personalmente, ho cercato di indicare alcuni criteri di interpretazione che evitino simili strumentalizzazioni di destra e di sinistra, nel mio Excursus: "Creazione, alleanza, escatologia", in: F. Rossi de Gasperis-A. Carfagna, “Prendi il Libro e mangia!”, vol. I: “Dalla Creazione alla Terra promessa” (Bibbia e spiritualità, 3), Edb, Bologna, seconda ristampa 1999, 287-381, spec. 372-379. Si potrà vedere anche il nostro secondo volume: “Prendi il Libro e mangia!”, vol. II: “Dai Giudici alla fine del Regno” (Bibbia e spiritualità, 7), Edb, Bologna 1999, 9-20.

Il dono della terra a un popolo particolare da parte dell’unico Dio di tutti non crea in quel popolo alcun "diritto esclusivo" di proprietà, quando la vocazione divina designa lo stesso popolo a una funzione sacerdotale a beneficio di tutti gli altri. Né palestinesi né ebrei - e nemmeno italiani o "extra-comunitari" - hanno diritto di possedere esclusivamente un determinato paese. La terra è di Dio e noi siamo presso di lui come forestieri e inquilini (Lv 25,23). Il dono della terra a Israele è sempre stato, attraverso i secoli, legato ai contesti e ai condizionamenti socio-politici del momento. Oggi queste condizioni si esprimono nelle dichiarazioni delle Nazioni Unite, che impongono una convivenza ai due popoli sull’unica terra Israele-Palestina. Si tratta di un dono che non mette fuori “gli altri”, chiunque essi siano. Detto questo, però, nessuno che legga la Bibbia ebrea-cristiana come parola di Dio può negare che Israele abbia una sua, essenziale, relazione con questa terra e con Gerusalemme. Quando la radio e la Tv italiane parlano dei "soldati di Tel Aviv" o del "governo di Tel Aviv", esse offendono il popolo israeliano, per il quale l’unica Città capitale non può essere un’altra da Gerusalemme.

Tale simbolismo teologale dell’Israele attuale (non necessariamente di uno "Stato o dell’attuale Stato" d’Israele) non è accettata né dai musulmani, i quali negano radicalmente che vi sia un popolo particolare eletto da Dio (lo ha detto chiaramente anche Bashar al-Assad, quando ha ricevuto il Papa nell’aeroporto di Damasco), né, come si è visto, da numerosi cristiani palestinesi. Questo invece è quello che noi crediamo: la salvezza universale dell’umanità è disegnata da Dio sull’unico Figlio, Gesù Messia, profetato dal suo popolo ed evangelizzato dalla sua Chiesa (cfr Rm 8, 29-30; 1Pt 1, 10-12).

L’esigenza universale della giustizia e dei diritti dell’uomo, nonostante le apparenze, non può e non deve essere conflittuale con il particolarismo dell’alleanza, che congiunge le Chiese cristiane a Israele. Secondo la Bibbia, certo, una tensione esiste tra l’economia della giustizia della creazione e l’economia storica dell’alleanza (cfr la gelosia delle genti per Israele), una tensione che non è sempre chiara nemmeno alla coscienza di molti cristiani occidentali. Chi insiste di più sulla giustizia universalistica della creazione sembra dimenticare e trascurare la dimensione storica dell’elezione e dell’alleanza (e parteggia per i palestinesi contro gli israeliani), mentre chi tiene di più alla fede biblica sembra privilegiare il particolarismo dell’elezione e dell’alleanza di Israele (e parteggia per gli israeliani a scapito dei palestinesi).

Un fenomeno molto interessante è, in Israele, quello dei giudei credenti in Gesù: è un evento profetico, che mostra con estrema chiarezza che Gesù appartiene al popolo ebraico, al suo popolo, non alla Chiesa. Siamo noi che apparteniamo a Gesù. Questi ebrei credenti in Gesù si ricollegano al Gesù della Chiesa primitiva, che era la Chiesa degli ebrei, e ciò è estremamente liberante per noi. Non sono io che posseggo Gesù, ma è lui che mi possiede, e che mi ha aggiunto a quella parte del suo popolo, che ha creduto in lui fin dal principio (Ef 1,8-12). Maria, Pietro e gli Undici, Marco, Marta e Maria... non erano “cristiani”. Erano, come quelli di oggi, "giudei discepoli di Jeshua". Essi non vogliono più chiamarsi nemmeno "giudei messianici", avendo questo termine assunto una connotazione politica, collegata con alcuni gruppi estremisti della destra israeliana.

Nel suo libro “Yom Kippur. Guerre et prière” (Gerusalemme, 1975), A. Hazan, un rabbino cappellano militare israeliano, si lamenta con Abramo: "Perché, perché non hai atteso con fede che nascesse Isacco da Sara, e prima di lui hai fatto nascere Ismaele da Agar? Ormai, anche Ismaele è stato circonciso, ed è dunque anche lui, in qualche modo, un partner dell’alleanza". È questo un altro modo per chiedersi dove collocare l’islam nel piano di Dio? Poiché non c’è dubbio, esiste un "mistero dell’islam", un mistero che Paolo non ha potuto prendere in considerazione.

Dal punto di vista teologico e spirituale, bisognerebbe integrare armoniosamente la fede nel Signore dell’alleanza (il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, il Dio d’Israele e della Chiesa, JHWH) con quella nel Dio creatore (Elohim), e intendere le religioni come delle elaborazioni (in parte umane) di quella fede divina nel Dio unico. Difatti spesso molti che oggi si vogliono e si dicono più intensamente religiosi, sembrano essere in realtà - come i terroristi kamikaze, "martiri ciechi" che uccidono in nome di Dio - meno credenti di altri, i quali, invece, senza mostrarsi eccessivamente religiosi, appaiono più credenti e giungono a conoscere il "vero martirio della pace e della riconciliazione", come Anwar as-Sadat e Itzhaq Rabin, uccisi da religiosi islamici ed ebraici. 

Una religiosità povera di fede diventa, infatti, fatalmente integralismo fanatico. Chi non riconosce e non esulta per la presenza davanti a lui dell’altro da sé, come l’uomo di fronte alla donna (Gen 2, 23-25), non santifica il Nome dell’unico Dio. Pensiamo ai taleban e alla loro vergognosa cancellazione delle donne dalla loro società!

Dal punto di vista politico, credo che niente sia stato detto di più chiaro di quanto, tra altre cose, ha detto il Papa Giovanni Paolo II, il 10 gennaio 2002, al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede: "Nessuno può rimanere insensibile all’ingiustizia di cui il popolo palestinese è vittima da più di cinquant’anni. Nessuno può contestare il diritto del popolo israeliano a vivere nella sicurezza. Ma nessuno può nemmeno dimenticare le vittime innocenti che, da una parte e dall’altra, cadono ogni giorno sotto i colpi e gli spari. 

Le armi e gli attentati cruenti non saranno mai strumenti adeguati per far giungere messaggi politici agli interlocutori. Neanche però la logica della legge del taglione è adatta per preparare le vie della pace... Soltanto il rispetto dell’altro e delle sue legittime aspirazioni, l’applicazione del diritto internazionale, l’evacuazione dei territori occupati e uno statuto internazionalmente garantito per le parti più sacre di Gerusalemme, sono in grado di avviare un processo di pacificazione in questa parte del mondo, spezzando la catena infernale dell’odio e della vendetta... Gli israeliani e i palestinesi, gli uni contro gli altri, non vinceranno la guerra. Gli uni insieme con gli altri, possono vincere la pace".

Più modestamente, ma non meno esplicitamente, un numeroso gruppo di ebrei italiani ha firmato una lucidissima lettera aperta, pubblicata su La Repubblica del 23 dicembre 2001: "Siamo solidali con il popolo israeliano così duramente colpito dal terrorismo palestinese, che punta all’eliminazione dello Stato d’Israele. Siamo solidali con il popolo palestinese che da decenni soffre sotto occupazione israeliana e aspira al riconoscimento dei propri diritti, all’indipendenza, alla terra, alla dignità. Noi pensiamo che la dirigenza palestinese, rompendo le trattative nell’inverno 2000-2001 e ricorrendo all’intifada, abbia distrutto nella maggioranza degli israeliani la speranza nel processo di pace, e abbia favorito l’ascesa di Sharon, propenso a liquidare l’autonomia palestinese. 

Noi pensiamo che l’ininterrotta politica israeliana di espansione degli insediamenti nei territori occupati abbia minato tra i palestinesi la speranza nel processo di pace come via per la propria indipendenza territoriale e statuale. Le rappresaglie e il blocco militare dei territori hanno, con alto prezzo di vite umane, costretto Arafat a intervenire finalmente contro il terrorismo. Ma questo risultato rischia di vanificarsi senza una svolta da entrambi i lati: da parte palestinese l’impegno nei fatti per sconfiggere il terrorismo, da parte israeliana il blocco degli insediamenti in vista della loro evacuazione ci sembrano le condizioni per ricostruire la fiducia nel negoziato. Ora le forze della pace in Israele e tra i palestinesi sono in terribile difficoltà. 

Tanto più riteniamo necessario appoggiarle: non c’è alternativa a che due popoli e due stati convivano nella sicurezza e nella dignità. Ci riconosciamo nell’azione coraggiosa di esponenti politici come Iossi Beilin, Iossi Sarid, Yael Dayan da parte israeliana, Yasser Rabbo, Ziyad Abu Ziyad, Hannan Ashrawi da parte palestinese, che hanno riconfermato l’impegno per un’azione comune di pace. Dopo l’11 settembre le ripercussioni globali del conflitto israeliano-palestinese si sono moltiplicate. Ci uniamo a quanti si appellano all’Ue, agli Usa, alla Russia, perché intervengano con più decisione per interporsi alla violenza e per spingere le due parti a riprendere il negoziato".

Mi sembra questo uno splendido esempio di come l’ebraismo della diaspora possa influire sull’ebraismo della patria, in vista della pacificazione del conflitto. Non potrebbe avvenire altrettanto da parte dei palestinesi della diaspora più illuminati, nei confronti del loro popolo in patria?

Infine, la vera soluzione, a lungo termine, starà in un’educazione nuova che venga impartita nelle scuole, sia palestinesi sia israeliane; un’educazione capace, come a Newé Shalom, di riconoscere e di far comprendere all’uno, non tanto i diritti, quanto le ragioni dell’altro. Insegnare che non si può pensare al possesso o alla riconquista della terra con l’esclusione o l’eliminazione dell’altro, ma al contrario facendo apprezzare l’amicizia dell’altro e la comunione con lui come un tesoro ben più prezioso di un pezzo di terreno.


[1] Mondo e Missione è la rivista del Pontificio istituto missioni estere di Milano.
 

| home | | inizio pagina |