L’obiettivo di questa
relazione è quello di rimettere a tema, dal punto di vista biblico,
l’essere creati ad immagine di Dio come coppia “maschio-femmina”, nel segno
di una relazione orientata al compimento del disegno divino nella storia che
si fonda su di una distinzione positiva. Ciò significa considerare la natura umana
secondo la logica della creazione, quindi secondo una visione dei rapporti uomo-donna
nell’orizzonte della rivelazione e dell’antropologia biblica fondamentalmente
unitaria, evitando qualsiasi tipo di distinzione che separa “natura”
e “spirito” o “natura” e “soprannatura”. In altri termini:
eviteremo di leggere il dato biblico con chiavi filosofiche a lui
estranee privilegiando invece un’analisi che, partendo dai testi, cerca di interpretarli
nell’orizzonte culturale in cui si sono formati, fissati e trasmessi.
Si propone pertanto un percorso che, partendo dalle Scritture ebraiche,
presenterà in connessione con le medesime la prospettiva neotestamentaria
attraverso un’unica esposizione a “due voci”, al fine di mostrare
l’unitarietà della rivelazione ebraico-cristiana nell’orizzonte di una novità
che conferma e compie la “promessa”. [Incontri del SAE - Genova 23 ottobre
2003]
Testo da cui Elena
Bartolini ha tratto la sua relazione
LA SANTITÀ DELLA
RELAZIONE UOMO-DONNA NELLA RIVELAZIONE Pubblicato
in: AA. VV., La reciprocità
uomo-donna via di spiritualità coniugale e
famigliare (Atti della Quinta
Settimana Nazionale di studi sulla spiritualità familiare
e coniugale promossa dalla CEI, Rocca di Papa, 24 – 29 aprile 2001), Città
Nuova, Roma 2001, pp.33-71.
ALLE RADICI DELLA
RELAZIONE: DIO CREA NEL SEGNO DELLA DISTINZIONE E DELLA BENEDIZIONE
Per comprendere
adeguatamente il significato della relazione uomo-donna nella Rivelazione, è
necessario collocarsi nel contesto dell’azione creatrice di Dio della quale la
coppia originaria costituisce il culmine: il dato biblico ci testimonia
infatti che il Signore crea l’uomo e la donna dopo aver creato tutte le altre
realtà, dopo cioè aver portato a compimento la creazione del cielo e della
terra (cf.: Gen 2,1). Come sottolineano anche alcuni commenti della Tradizione
ebraica, Dio avrebbe creato il mondo in funzione dell’uomo: Il mondo fu
prodotto per l’uomo, anche se egli venne creato per ultimo. Ciò fu fatto di
proposito, affinché egli trovasse tutto pronto per lui. Dio è il padrone di
casa che, dopo aver preparato squisite portate e imbandito la tavola, accompagna
l’ospite al suo posto. La tardiva comparsa dell’uomo sulla terra è anche un
monito all’umiltà: che egli si guardi dall’essere orgoglioso, se non vuol
sentirsi ricordare che persino la zanzara ha più anzianità di lui(1).
La sottile ironia,
tipicamente rabbinica, con cui si conclude il brano citato sottolinea come nella
logica divina tutto viene relativizzato e ridimensionato: essere il “centro e
culmine” della creazione più che un privilegio è un invito ad accogliere il
“proprio posto” che il “padrone di casa” ha preparato. È importante
quindi soffermarsi sul significato dell’azione creatrice di Dio e sulle
dinamiche dalla stessa emergenti.
Nel segno della
distinzione
Se consideriamo la
narrazione del primo capitolo della Genesi - nel quale Dio è chiamato ’elohim(2),
cioè il “Dio di tutti” - e per questo ha una connotazione universale,
notiamo innanzitutto che il Suo modo di agire viene descritto attraverso una
configurazione della radice verbale b-r-’ che, nella Scrittura, viene
utilizzata esclusivamente per esprimere ciò che il Signore crea, sottolineando
così una Sua azione propria che non è consentita all’uomo, il quale può
solo trasformare le realtà che già esistono. Eccoci dunque di fronte ad una
prima originaria distinzione: quella cioè fra il modo di agire di Dio e quello
degli uomini. Ripercorriamone insieme alcuni momenti a partire dalla narrazione
del primo capitolo della Genesi:
In principio Dio (’elohim)
creò (bara’) il cielo e la terra.
[...]
e separò la
luce dalle tenebre; così fu sera e fu mattino, un giorno(3).
Dio disse poi: “Sia
una distesa in mezzo alle acque che separi le une dalle altre”. Dio
fece la distesa e separò le acque che sono al di sotto della distesa da
quelle che sono al di sopra di essa. E così fu. Dio chiamò cielo la distesa...
[...]
Dio disse: “Siano luminari nella distesa del cielo per far
distinzione fra il giorno e la notte; siano anche indici per le stagioni,
per i giorni e per gli anni. Funzionino come luminari nella distesa del cielo
per far luce sulla terra”. E così fu. Dio fece dunque i due grandi luminari:
il maggiore per presiedere al orno e il minore per presiedere alla notte,
e le stelle. Dio li pose nella
distesa del cielo per far luce sulla terra; per presiedere
al giorno e alla notte, e per fare distinzione fra la luce
e le tenebre. Dio vide che era cosa buona.... (Gen
1,1-19)
Tale agire divino,
reinterpretato solo successivamente dalla cultura occidentale come
creazione ex nihilo, viene descritto dall’autore biblico come un’azione
creatrice nel segno della
distinzione: la Bibbia infatti non si pone la domanda relativa
a cosa ci fosse o meno prima della creazione divina - l’idea di una creazione
“dal nulla” è un concetto filosofico greco estraneo alla mentalità semitica
-, ma sottolinea che Dio crea distinguendo la luce dalle tenebre, il giorno
dalla notte, la terra dalle acque, (cf.: Gen 1,1ss.). Questa distinzione, definita
“cosa buona”, è importante ai fini della conoscenza: si conosce la luce in
rapporto alle tenebre, la terra in rapporto al cielo e al mare, e così via....
Si può dire quindi che Dio crea separando e distinguendo realtà che, proprio
in virtù del loro essere “opposte”, determinano una relazione che permette
ciò che noi definiamo “atto conoscitivo”.
Molti commenti della
tradizione rabbinica si soffermano proprio su questo aspetto
per spiegare che ogni realtà del mondo creato, anche ciò che appare all’uomo
come contraddittorio, ci è stato dato da Dio perché potessimo conoscere sperimentando,
cioè cogliendo la relazioni fra gli “opposti”. Ecco alcuni passi di
uno dei commenti midrashici(4) più famosi che considera la dialettica fra vita
e
morte nell’esistenza umana e le opposizioni fondamentali che regolano l’universo:
Nella Sua forza e nella
grandezza della Sua potenza Dio creò tutto il
mondo due a due, questo in cambio/sostituto di questo (zeh
temurat zeh),
e questo in contrasto a questo, secondo quanto Egli ha
soppesato attentamente nella Sua sapienza, e per far conoscere loro
[agli uomini] che ogni singola cosa ha un partner (shotef)e ha
un sostituto (temurah), e se non ci fosse questo non ci sarebbe quello.
[...]
Tutto ciò che Egli creò
come contrasto [cioè come scambio di contrari
che si avvicendano tra loro]. Se non ci fosse morte, non ci
sarebbe vita, e se non ci fosse vita non ci sarebbe morte. Se non
ci fosse pace (shalom), non ci sarebbe sventura (ra‘)(5) e se
non
ci fosse sventura non ci sarebbe pace. Se un uomo entrasse in uno
stato che si trova metà in pace e metà nella sventura, egli camminerebbe
nella sventura e conoscerebbe la pace. Se invece un altro
stato fosse tutto in pace, non essendoci in esso sventura, non
si conoscerebbe la pace! Se tutti
gli uomini fossero folli, essi non saprebbero di essere folli,
e se tutti gli uomini fossero saggi, essi non saprebbero di essere
saggi; ma: “Anche questo in contrasto a questo Dio ha fatto”
(Qo 7,14).
Se poi tutti gli uomini
fossero ricchi, essi non saprebbero di essere
ricchi, mentre se tutti fossero poveri, non saprebbero di essere
poveri; ma Egli creò poveri e ricchi perché riconoscessero questo
da quello, morti e vivi per distinguere tra popolazione e desolazione.
Egli creò grazia e
bruttezza, maschi e femmine, creò fuoco e acqua,
ferro e legno, luce e tenebre, caldo e freddo, mangiare e fame,
bere e sete, camminare e zoppicare, vista e cecità, ascolto e
sordità, mare e terra asciutta, discorso e mutismo, opera e distruzione,
collera e favore, riso e pianto, guarigione e malattia,
con tutte le contrapposizioni che sono menzionate da Salomone
in Qohelet: “Un tempo per nascere e un tempo per morire” (Qo
3,2)(6).
L’idea che questo
commento sottolinea, è che Dio ha creato ogni cosa nell’orizzonte
di una differenza da lui stesso stabilita, quindi nel contesto di una
dinamica che legge positivamente realtà fra loro contrapposte considerandole come
importante chiave interpretativa della realtà.
Separare e distinguere è
dunque un modo tipico di agire di Dio secondo la Bibbia il
quale, creando, opera separando la realtà in antinomie e dando origine ad una distinzione
che genera relazioni da Lui stesso definite “cosa buona” (cf.: Gen 1,1ss.).
Nel segno della
benedizione e dell’amore
Secondo i Maestri di
Israele, la creazione divina non si caratterizza solo per essere
avvenuta nel segno della distinzione: la Tradizione rabbinica interpreta tutta
l’azione creatrice di Dio anche nel segno della benedizione, e ciò a partire
dal primo versetto della Genesi: “In principio Dio creò il cielo e la terra….”
(Gen 1,1). Con queste parole viene infatti introdotto il primo racconto della
creazione(7) che, attraverso l’indicazione temporale “in principio”,
sottolinea
l’inizio di una storia radicalmente segnata da un particolare modo di agire
di Dio nei suoi confronti. Molti commenti si soffermano su tale inizio (in ebraico:
bereshit) domandandosi come mai la narrazione delle origini abbia una relazione
con la lettera bet, cioè la seconda lettera dell’alfabeto ebraico, e non
con la ’alef, che invece è la prima:
Perché
l’universo è stato creato con la bet (8)? Per farti sapere
che
esistono due mondi, questo mondo ed il mondo avvenire. Un’altra
spiegazione: Perché con la bet? Perché essa è l’iniziale della
parola berakah, benedizione, e non (è stato creato l’universo)
con la ’alef (9), che è l’iniziale della parola ’arirah,
maledizione(10).
Il rapporto fra l’azione
creatrice di Dio e il suo essere al principio di tutto andrebbe
dunque compreso nel segno della Sua benedizione nei confronti della storia
e degli uomini, quindi in un orizzonte di “benevolenza” nei confronti del creato.
Ma c’è di più: la
stessa tradizione ebraica, tipica per la multiformità di pensiero
al suo interno che si esprime anche nelle molteplici interpretazioni della
rivelazione, ci offre un’ulteriore e interessante prospettiva che ci permette
di cogliere il volto paterno-materno di un Dio che “genera” la sua creazione
donando ad essa qualcosa di sé, “rinunciando” a qualcosa di proprio per
“lasciare spazio” alle sue creature(11). È
quanto possiamo ritrovare nella comprensione
mistica della Genesi maturata all’interno della qabbalah tradizionale(12).
Secondo tale comprensione la creazione è il frutto di un atto d’amore di Dio
che ha voluto “ritrarsi in sé” per lasciar spazio al mondo e all’uomo:
è la dottrina mistica dello tzimtzum (contrazione)(13),
cioè dell’autodelimitazione di Dio, in virtù del quale il mondo e l’uomo
sarebbero sorti da un “nulla” che in realtà è un “niente divino”,
attraverso un processo di distinzione che ha come scopo la Sua stessa
rivelazione. Lo tzimtzum è dunque segno di un amore divino capace di
lasciar spazio all’uomo, ed esprime una comprensione del Suo agire che rimanda
al gesto materno della generazione, del dono gratuito della vita, che porta in
sé la gioia di un nuovo evento unitamente alla
sofferenza che accompagna il momento del parto.
Tale modalità di azione
ci rimanda pertanto ad una prospettiva nella quale l’apertura all’altro e
alla vita implica la logica del dono totale, cioè la capacità di “far spazio”
affinché l’altro possa “esserci”. Solo un amore senza limiti
può arrivare a ciò.
Vediamo allora cosa
significa tutto questo nell’ambito della creazione dell’uomo come
“maschio e femmina” ad immagine del proprio Creatore.
AD IMMAGINE DI DIO COME
COPPIA “MASCHIO E FEMMINA” SECONDO LA TESTIMONIANZA DELLA
GENESI
Secondo le tradizioni
narrative della Genesi, ed in particolare secondo quella sacerdotale
fissatasi nel primo capitolo di questo libro, Dio crea l’uomo e la donna
a Sua immagine come coppia maschio/femmina (cf.: Gen 1,27), quindi nell’orizzonte
della relazione permessa da tale distinzione. Cerchiamo allora di capire
cosa implica tale differenza relazionale nella prospettiva di una comprensione
religiosa dei rapporti umani.
Distinzione e relazione
secondo il progetto della creazione di Dio
Rabbi Eleazar diceva:
un
uomo che non ha moglie non è un vero uomo, poiché è detto: Maschio
e femmina li creò [...] e dette loro nome Adamo (Gen
5,2)(14).
Ciò
che Rabbi Eleazar vuole sottolineare è innanzitutto il modo in cui Dio crea l’umanità
nel segno della differenza, cioè della distinzione maschio/femmina, rimanendo
coerente alla logica con cui ha creato le realtà precedenti distinguendo
luce/tenebre, terra/acqua, ecc.... Nel primo capitolo della Genesi troviamo
infatti la seguente precisazione:
Dio (’elohim)
creò (bara’) l’uomo a Sua immagine (betzalmo); lo
creò a
immagine di Dio (betzelem ’elohim bara’ ’oto); maschio e femmina
li creò (zakar uneqevah bara’ ’otam). (Gen
1,27)
Come si può notare il
plurale “li creò” compare solo dopo la distinzione “maschio/femmina”,
mentre la parte iniziale del versetto biblico è al singolare, “lo
creò”, come indicato anche nel passo del quinto capitolo della Genesi ripreso
da Rabbi Eleazar (Gen 5,2). Egli infatti vuole ricordare che tale distinzione
è finalizzata ad una possibilità di relazione che, nel caso dell’uomo
e della donna, si realizza pienamente nell’unione matrimoniale attraverso
la quale i due divengono un’unica realtà che rimanda all’originario Adamo,
e che esprime l’unità nella diversità dei generi. Per questo, come ricorda
la Tradizione rabbinica, l’occupazione principale di Dio dalla creazione in
poi sarebbe quella di “combinare matrimoni.....”(15), e ciò trova riscontro
anche
nel modo in cui alcuni commenti relativi al secondo capitolo della Genesi spiegano
il sonno di Adamo durante la creazione di Eva (cf.: Gen 2,21), descrivendo
il modo con cui il Signore avrebbe poi provveduto personalmente alla celebrazione
delle nozze della prima coppia umana:
Lo
scopo del sonno che avvolse Adamo era di dargli una sposa, affinché
la stirpe umana si accrescesse e tutte le creature riconoscessero
la differenza tra Dio e l’uomo.
[...]
Lo sposalizio della coppia
primigenia venne celebrato con uno sfarzo che non ha paragoni nel corso della
storia. Dio stesso abbigliò e
adornò la sposa prima di presentarla ad Adamo. Si rivolse
agli angeli dicendo: “Venite, assistiamo con amicizia Adamo
e la sua compagna, perché il mondo poggia sugli atti di amore
che Mi sono più graditi dei sacrifici che Israele offrirà sull’altare”.
Gli angeli si disposero quindi intorno al baldacchino
nuziale e Dio pronunciò le benedizioni sugli sposi, come
fa il chazzan (il celebrante/cantore) sotto la chuppah (baldacchino nuziale)(16). Poi
gli angeli danzarono(17) e suonarono per Adamo
ed Eva nelle dieci stanze nuziali di oro, perle e pietre preziose
che Dio aveva apprestato per loro(18).
Tenendo presente che nella
Bibbia il sonno indica una dimensione “altra”, che potremmo
definire uno “spazio profetico” (cf.: Gen 15,1ss. dove viene narrato ciò
che Abramo vede “in visione”), questo commento sottolinea due elementi importanti:
innanzitutto l’importanza della relazione nuziale affinché le creature
possano non solo accrescersi ma riconoscere “la differenza tra Dio e l’uomo”,
cioè possano percepire il divino attraverso l’amore sponsale che, autenticamente
terreno, rimanda alla sua radice trascendente, al suo Creatore, quindi
alla “benedizione” originaria sulla prima coppia umana (cf.: Gen 1,28); in
secondo luogo la sottolineatura del fatto che “il mondo poggia su atti d’amore”,
che in questo contesto sono atti sponsali, e che sono graditi a Dio più
dei “sacrifici offerti all’altare”. Si
percepisce quindi la necessità di evidenziare che la prima coppia umana vive un
rapporto di tipo coniugale affinché possa realizzarsi il progetto di Dio per cui
è stata creata: non si tratta di una semplice “riproduzione della specie”
ma di un rapporto che diventa
spazio di rivelazione.
Positività della
differenza nell’orizzonte della sacralità dell’amore sponsale
Soffermandosi poi in
maniera specifica sulla differenza uomo/donna, maschile/femminile,
ci si accorge che nella Scrittura la medesima è strettamente connessa
al modo di comprendere l’amore nella sua dimensione sponsale. La radice ebraica
’-h-v, da cui derivano sia le configurazioni verbali di “amare” che
il sostantivo “amore”, compare
nel testo biblico ben 251 volte delle quali 41 nei Salmi,
32 nei Proverbi, 23 nel Deuteronomio, 19 in Osea, 18 nel Cantico dei Cantici
e 15 nella Genesi. L’orizzonte semantico di questa radice comprende anche
i significati di “aderire” e “preferire”, e il suo contrario è sempre “odiare”.
Conformemente alla
mentalità semitica, la Scrittura più che parlarci dell’amore in
sé ci testimonia e ci narra esperienze d’amore, di rapporti concreti, dei quali
quello primario è il rapporto uomo/donna compreso come segno “divino” nella
storia. Una particolare interpretazione mistica della parola ’ahavah, “amore”,
rileva infatti che le lettere ebraiche da cui è composta stabiliscono una
significativa relazione fra l’uomo, la donna e il Nome divino impronunciabile
JHWH(19). Per poter comprendere tale relazione è necessario
confrontare
le consonanti(20) che compongono i due termini nel modo seguente:
Come si può notare, le
due he (h e H) sono presenti nella stessa posizione sia nella
parola ’ahavah, amore, che nel Nome impronunciabile di Dio: JHWH.
La lettere ’alef e
vet, cioè la prima e la terza consonante della parola ’ahavah,
amore, sono simbolicamente collegate alla sapienza e all’intelligenza che
la Qabbalah riconduce rispettivamente alla dimensione “paterna” e “materna”
dell’albero sefirotico(21), quindi
all’uomo e alla donna; mentre l’identità di posizione
della due he in comune fra i due termini, viene interpretata come l’espressione
di un rapporto mistico fra la coppia umana e il suo creatore nell’ambito
del quale l’uomo e la donna “completano” il Nome divino stesso(22).
Sempre in ambito mistico,
c’è chi invece interpreta il testo biblico in base al valore
numerico delle lettere che compongono ogni parola: ogni lettera dell’alfabeto
ebraico corrisponde ad un numero, pertanto, sommando il valore di ciascuna,
è possibile ricavare il valore numerico di ogni singola parola stabilendo
relazioni fra termini con valore numerico uguale o corrispondenti a numeri
di particolare significato simbolico. Secondo questo metodo si può ad esempio
rilevare che il valore numerico della prima coppia umana ’adam wechawah,
“Adamo ed Eva”, corrisponde a
70 come la differenza fra zakhar, “maschile” (valore
numerico 227) e neqevah, “femminile” (valore numerico 157). Se consideriamo
infatti il valore numerico della parte consonantica dei termini in questione
otteniamo le seguenti relazioni:
’
|
d
|
m
|
|
w
|
c
h
|
w
|
h
|
1 |
4 |
40 |
|
6 |
8 |
6 |
5 |
Totale 70 |
z
|
kh
|
r
|
7 |
20 |
200 |
Totale 227 |
|
|
n
|
q
|
v
|
h
|
50 |
100 |
2 |
5 |
Totale 157 |
|
La differenza fra 227 e
157 è uguale a 70.
In altri termini: la
coppia Adamo ed Eva equivale numericamente alla differenza maschile/femminile;
in qualche modo si può dire che la loro unione equivale alla loro
differenza che, non a caso, è pari a 70, numero che indica gli infiniti volti
della Torah, la rivelazione divina al Sinai. Per questa ragione la coppia
Adamo-Eva può essere considerata
la “radice” del mondo(23) in quanto, secondo la
Tradizione
rabbinica, Dio lo avrebbe creato attraverso la Sua Torah come precisato
nel seguente midrash:
Se un re costruisce un
palazzo, generalmente non lo costruisce con la sua abilità personale,
ma fa venire un architetto. Ma anche l’architetto non
costruisce su un’idea improvvisa. Ha bisogno in primo luogo di progetti e
di disegni per stabilire dove deve collocare le camere e le
porte. Così anche il Santo,
benedetto sia, prima guardò nella Torah e soltanto dopo creò il
mondo. [...]. Genesi 1,1 si deve
intendere così: “Con la Torah Dio creò il cielo e la terra”(24).
Un altro esempio sul tipo
del precedente è l’interpretazione del secondo versetto del capitolo
quinto della Genesi dove, come ci ha inizialmente ricordato Rabbi Eleazar,
si dice che Dio dopo aver creato l’uomo e la donna li chiamò “adamo” (Gen
5,2). Se scriviamo per esteso ogni lettera consonante che forma la parola ’adam,
“adamo” (’alef-dalet-mem), otteniamo un valore numerico totale pari a 625 e
corrispondente a quello del termine haketer, “la corona”:
’
|
l
|
f
|
|
d
|
l
|
t
|
|
m
|
m
|
1 |
3 |
8 |
|
4 |
3 |
400 |
|
4 |
4 |
|
0 |
0 |
|
0 |
|
|
|
0 |
0 |
Totale 625 |
|
|
h
|
k
|
t
|
r
|
5 |
2 |
400 |
200 |
|
0 |
|
|
Totale 625 |
|
Nella Qabbalah “la
corona” è il culmine della creazione, e ciò dimostrerebbe perché anche la coppia
umana è il culmine della stessa(25). Gli esempi di questo tipo
sono numerosi, c’è solo l’imbarazzo della scelta, e l’obiettivo è sempre
quello di mostrare come la sacralità dell’amore umano dipende dalla positività
della differenza uomo/donna, maschio/femmina che insieme esprimono l’immagine
divina presente in loro (cf.: Gen 1,27 e 31).
Mostrare Dio nella storia
attraverso relazioni sponsali autentiche
La differenza
maschio/femmina che abbiamo appena sottolineato, implica da una parte una “naturale
diversità” - l’uomo non è la donna e viceversa - e, dall’altra, una “naturale
apertura” al rapporto “io-tu” in quanto si scopre la propria identità di
fronte alla diversità dell’altro/a. La Genesi ci presenta tale rapporto nell’orizzonte
di una relazione necessaria aperta sia alla positiva reciprocità che
al conflitto.
La narrazione confluita e
fissatasi nel secondo capitolo della Genesi, appartenente alla
tradizione Javista e quindi più antico di quello che lo precede, ci mostra la
creazione dell’uomo e della donna in due momenti distinti: prima viene creato Adamo (’adam)
dalla terra (’adamah) e poi da una sua costola viene “tratta” Eva.
Dio infatti si accorge che la solitudine per Adamo non è un bene:
Poi il Signore Dio (JHWH ’elohim)(26)
disse: “Non è bene che l’uomo rimanga solo; farò per
lui un aiuto (‘ezer) che gli sia di fronte/contrapposto (ke-negddo)(27)”.
(Gen 2,18).
Tale aiuto di
fronte/contrapposto a sé l’uomo non lo trova negli animali che Dio crea per lui e ai quali
impone un nome (cf.: Gen 2,19-20), ma nella donna che il Signore plasma “traendola”
da una sua costola durante il sonno e poi conduce a lui (cf.: Gen 2,21-22), di
fronte alla quale Adamo può dire:
Questa volta essa è carne
della mia carne e osso delle mie ossa. Si chiamerà donna (’ishah)
perché dall’uomo (’jish) è stata tolta. (Gen 2,23).
Per capire che tipo di ‘ezer,
aiuto, la donna può essere nei confronti dell’uomo, dobbiamo
considerare il medesimo in rapporto all’espressione ebraica
ke-negddo che
lo qualifica come “di fronte/contrapposto”, quindi come un tipo di relazione che può
esprimere sia l’intesa reciproca, quindi la capacità di accoglienza e donazione,
che il conflitto generato dalla tensione fra due realtà che si respingono o che
vivono un rapporto sbilanciato, come la prevalenza dell’uno/a sull’altro/a.
Dipende dunque dall’agire degli uomini, e naturalmente anche delle donne, la
qualità positiva o negativa di questo “essere” l’uno/a di fronte all’altro/a nella
prospettiva di un “aiuto” reciproco, che Rabbi Eleazar rilegge nel modo seguente:
R. Eleazar diceva ancora:
Qual è il significato del verso biblico: “Gli farò un aiuto di
fronte/contrapposto a lui (Gen 2,18)?” Se egli [l’uomo] lo merita,
lei [la donna] sarà per lui un aiuto, altrimenti lei sarà
contro di lui(28).
Al di là delle possibili
interpretazioni “femministe”, la Tradizione ebraica, che comprende il
matrimonio come via di santità e massima realizzazione umana - lo chiama infatti Qiddushin,
cioè consacrazione(29) -, leggendo questo passo
biblico in riferimento all’amore
coniugale così commenta:
Quando marito e moglie
sono degni (cioè si amano di un amore autentico), la Shekinah
(la presenza divina) è con loro; quando non sono degni (cioè non
si amano di un amore autentico) il fuoco li
consuma(30).
La spiegazione si basa sul
fatto che in ebraico le lettere consonanti delle parole equivalenti a ’jish
(uomo/marito) e ’ishah (donna/moglie) possono formare l’anagramma delle parole
che significano la forma abbreviata del Nome proprio di Dio Jah e il fuoco ’esh:
Inoltre, secondo un altro
commento che riprende il precedente, i termini ’jish e
’ishah sarebbero
stati preferiti da Adamo dopo le nozze con Eva preparategli da Dio stesso:
Adamo chiamò sua moglie ’ishah
e se stesso ’jish, abbandonando il nome Adamo che aveva
portato prima della creazione di Eva: Dio aggiunse infatti il
proprio Nome Jah a quelli dell’uomo e della donna – la jod a ’ish
e la he a ’ishah – a significare che sinché essi avessero
proceduto sulle vie del Signore e osservato i Suoi precetti, il Suo Nome
li avrebbe protetti da ogni male, mentre se avessero deviato
Egli avrebbe tolto il Suo Nome e al posto di ’jish sarebbe
rimasto ’esh, fuoco: un fuoco che si sarebbe levato da ciascuno
dei due per divorare l’altro(31).
Secondo queste
interpretazioni l’amore autentico fra uomo e donna, che diventa amore fra marito e moglie,
manifesta Dio nella storia nella misura in cui i due
partner vivono
la loro relazione nel segno di un dono reciproco totale che presuppone un “aiuto”
della donna “di fronte” all’uomo secondo la dinamica che abbiamo precedentemente
sottolineato, cioè secondo una differenza positiva.
In tale orizzonte, e
sempre in riferimento all’esperienza della coppia umana, la stessa differenza sessuale
non è una caratteristica fisica esclusivamente finalizzata alla
procreazione, ma è soprattutto un valore positivo in sé, in quanto permette la
conoscenza e la relazione fra l’uomo e la donna chiamati a mostrare in questo modo l’immagine
divina che si rende visibile proprio in virtù della loro differenza
vissuta positivamente.
Possiamo quindi dire che
il primo aspetto dell’amore sponsale autentico, del divenire “una sola carne”
(cf.: Gen 2,24), è il suo essere segno della presenza di Dio fra i due amanti,
il suo essere pertanto una sorta di canale del divino nella storia. E questo va
considerato come primo aspetto della fecondità a cui l’uomo e la donna sono
chiamati. È infatti solo nel contesto di un amore sponsale così compreso e
colto nella sua dimensione trascendente che si colloca anche l’altro aspetto
della fecondità umana: la procreazione dei figli, che costituisce un importante
segno della benedizione divina:
Dio (’elohim) li
benedisse [l’uomo e la donna] e Dio stesso disse loro: “prolificate e
moltiplicatevi, empite la terra....” (Gen 1,28).
Se, per tutti gli altri
esseri viventi, il “crescere e moltiplicarsi” risponde ad un istinto naturale,
per l’uomo e la donna costituisce invece una scelta d’amore responsabile:
sono il segno di un dono totale reciproco che si apre alla vita accogliendola come
dono divino e come possibilità di collaborazione all’azione creatrice di
Dio.
Tale aspetto è pertanto
subordinato al precedente: l’unione sponsale è prima di tutto per il bene dei
coniugi che implica la presenza di Dio fra loro, la quale rende visibile il loro
originario essere insieme a Sua immagine.
SANTIFICARSI ATTRAVERSO
UNA RELAZIONE D’AMORE AUTENTICO SECONDO LA TESTIMONIANZA DEL CANTICO DEI CANTICI
Alla luce di quanto
abbiamo fin qui sottolineato, sono abbastanza evidenti i motivi per cui un testo
come quello del Cantico dei Cantici (Shir hashirim) ha potuto entrare a far parte
del Canone biblico: l’amore sponsale che qui viene celebrato va compreso in
relazione al suo poter essere manifestazione di Dio nella relazione fra i due
amanti.
Anche se, sia la
Tradizione ebraica che quella cristiana, hanno ritenuto opportuno sviluppare
accanto all’interpretazione letterale anche una lettura allegorica di questo
testo(32), non dobbiamo dimenticare che sia la Tradizione
patristica - e in
particolare Origene(33) - che la Tradizione rabbinica, hanno
sempre ribadito che dal
senso letterale del testo biblico non si può prescindere: è il primo
livello di comprensione dal quale se ne possono solo successivamente trarre
altri che non devono tuttavia falsare quello di partenza(34). Pertanto il
Cantico dei Cantici è un canto d’amore che esprime i sentimenti fra un uomo e
una donna sinceramente e reciprocamente attratti e quindi, innanzitutto come
tale, è stato riconosciuto qadosh, cioè “santo/sacro”(35); le
allegorie vengono dopo e costituiscono un livello di lettura successivo. Vediamo allora brevemente
in che periodo è sorto e perché è stato canonizzato(36).
Un canto d’amore umano
accolto come “santo” nel canone biblico
La datazione del Cantico
dei Cantici è un problema aperto: c’è chi lo riconduce al periodo salomonico come
sembra suggerire il versetto iniziale e chi a quello post-esilico. Gli studi
esegetici non sono concordi nell’avanzare ipotesi e suggerire possibili
soluzioni, in quanto i diversi “strati letterari” distinguibili e
riconducibili ad epoche, tradizioni e situazioni di vario genere, e le poche
indicazioni storiche e geografiche(37) presenti nel testo
inducono a
pensare a fonti
diverse riunificate nella redazione finale. In ogni caso una lettura secondo i
criteri della Tradizione ebraica in cui è sorto e si è conservato
permette di
cogliere un testo sostanzialmente unitario: ciò significa che il suo senso
va cercato nella globalità, nell’insieme dei capitoli così ordinati, oltre che
nelle sue singole parti(38).
La critica testuale lo ha
catalogato come “poema d’amore” che esprime l’esperienza fra un uomo
e una donna sinceramente legati dalla passione l’uno per
l’altra, nel quale,
in qualche modo, si possono percepire influssi della letteratura d’amore
contemporanea all’Israele biblico. Tuttavia quest’ultimo esprime il proprio inno
all’amore in maniera originale: questo popolo infatti, pur confrontandosi con
altre culture dalle quali attinge elementi e contenuti, rilegge e
riformula gli
stessi alla luce della propria esperienza con il Dio dell’Alleanza
distinguendo ciò che è per lui assimilabile e ciò che invece contrasta con la Torah,
l’insegnamento divino rivelato per mano di Mosè(39).
La Tradizione ebraica ha
conservato e trasmesso questo testo mantenendolo nella sua forma “laica”,
senza cioè inserire espliciti riferimenti allegorici e, fin dai tempi più antichi, ha
solennemente e insistentemente proclamato la “santità” del Cantico dei Cantici (Shir
hashirim) e la sua appartenenza a pieno diritto nel canone delle Scritture
ispirate:
Disse Rabbi Aqiba: (morto
nel 135 d. C.) “In Israele nessuno ha mai negato, riguardo al
Cantico dei Cantici, che esso rende impure le mani (cioè che esso
sia Scrittura sacra): poiché il mondo intero non vale il giorno
in cui fu dato a Israele il Cantico dei Cantici. Tutte le
Scritture, infatti sono sante: ma il Cantico dei Cantici è Santo dei Santi
(qodesh qodashim)”(40).
Questo grande maestro di
Israele paragona quindi il Cantico alla parte più riservata e sacra del
Santuario di Gerusalemme: il “Santo dei Santi”, luogo nel quale poteva accedere solo
il Sommo Sacerdote.
Relativamente a tale
paragone c’è un significativo parallelismo in Origene (185-284)(41), in quello che può
essere considerato l’incipit dell’Omelia dedicata all’inizio del Cantico
dei Cantici (Ct 1,1):
Beato colui che penetra
nel Santo, ma ben più beato chi penetra nel Santo dei santi. Beato
chi comprende e canta i cantici delle Sacre Scritture: nessuno,
infatti, canta se non è in festa. Ma ben più beato chi canta e
comprende il Cantico dei Cantici!(42)
Sulla stessa linea di
Rabbi Aqiba troviamo altri autorevoli commenti rabbinici:
Un re diede a un mugnaio
un moggio (= 450 litri) di frumento, e gli disse: “Ricavane
dieci staia (= 150 litri) di farina scelta”. Poi tornò e gli disse:
“Dalle dieci staia ricavane sei”. E poi: “Dalle sei, ricavane
quattro”. Così il Santo - benedetto Egli sia - dalla Torah scelse
i Profeti, dai Profeti gli Agiografi (Scritti sapienziali), e ultimo
dopo tutti fu scelto il Cantico dei Cantici(43).
Il Cantico dei Cantici
sarebbe dunque “il distillato”, “l’essenza” della Scrittura, quindi la “parte
migliore” della medesima.
E ancora:
Il Cantico dei Cantici lo
dissero gli angeli del servizio: è il cantico dei principi (in
ebraico sarim, per assonanza con shirim, cantici) il cantico che
dissero i principi dell’Eccelso(44).
Il Cantico dei Cantici
viene così descritto come l’inno degli angeli definiti “principi” dell’Eccelso,
cioè di Dio.
E così commenta anche lo Zohar,
testo mistico medievale:
Questo è il canto che
comprende tutta la Torah, il canto al quale partecipano gli esseri del
cielo e quelli della terra, il canto segno (realtà) del mondo
celeste che è il superno Sabato, il canto col quale il Santo Nome
celeste è coronato: perciò è “Santo dei Santi”. [...] Nel giorno
in cui questo canto fu rivelato, la Dimora scese sulla terra;
come sta scritto: E i sacerdoti
non potevano reggere nel
servizio a causa della nube (1Re
8,11). Per quale motivo? Perché la
gloria del Signore riempì la casa del Signore (1Re
8,11). Fu quello il giorno in cui fu rivelato questo inno di lode, e Salomone
in Spirito Santo disse la lode di questo cantico. [...] Esso è il
canto di lode dell’Assemblea d’Israele quando è coronata nel
cielo: perciò di nessun inno del mondo il Santo - benedetto Egli sia
- si compiace quanto di quest’inno(45).
Quest’ultimo commento
coglie quindi nel Cantico dei Cantici un inno di lode che esprime la reciprocità
fra creature e Creatore, fra “esseri del cielo” ed “esseri della terra”,
per questo può essere “il canto di lode dell’Assemblea di Israele quando è coronata
nel cielo”, e la corona, come vedremo, è un particolare simbolo
nuziale.
Anche in ambito cristiano
la canonicità del Cantico è stata riconosciuta fin dai primi secoli: c’è chi
afferma che il manoscritto della Didachè contenga una lista canonica primordiale
comprendente questo libro che, in ogni caso compare nell’elenco di Melitone
di Sardi (175 d.C. circa). Se discussione c’è stata ciò è avvenuto soprattutto in
riferimento al “senso ultimo” di quest’opera(46).
Si può quindi parlare di
una sostanziale credenza, sia in ambito ebraico che cristiano, nei confronti
della Parola di Dio presente in questo poema d’amore.
Nel Cantico dei Cantici si
ritrovano infatti sia l’esigenza di un amore umano autentico che quella di
una profonda conoscenza reciproca, si può dire che sono temi dominanti: per questo
non è necessario che nel Cantico si parli esplicitamente di Dio in
quanto Egli, come abbiamo precedentemente sottolineato, è già presente nella
relazione amato/amata, cioè nella reciprocità di un amore capace di mostrarsi come
segno divino nella storia. Vediamone allora qualche passo particolarmente
significativo.
La reciprocità di un
amore appassionato che diventa rivelativo
In questo testo, nel quale
non compaiono mai né il Nome di Dio(47) né quello di
Israele(48), si narra un’esperienza
d’amore umano profonda e sincera, dove il rapporto uomo/donna non è
direttamente finalizzato alla procreazione ma all’incontro con l’altro/a.
La protagonista femminile,
Shulamit, è una giovane fanciulla abbronzata dal sole a causa del suo lavoro all’aperto,
la quale si presenta al lettore definendosi “bruna ma bella” (cf.:
Ct 1,5), precisazione importante in quanto le “belle” non potevano essere contadine
bruciate dal sole ma solo aristocratiche che si potevano permettere di
aver cura della loro pelle. Del protagonista maschile invece non conosciamo il
nome, il testo non lo dice, ma possiamo presupporre che, come Shulamit,
appartenga al mondo contadino-pastorale (cf.: Ct 1,8).
Fra le principali
tematiche emergenti troviamo innanzitutto il desiderio d’amore e l’attesa dell’amato:
Egli mi conceda i baci
della sua bocca, ché il tuo amore (dodekha) è ben meglio del vino! Sento il profumo dei tuoi
deliziosi unguenti, il tuo stesso nome effonde
(turaq) profumo, per questo le ragazze ti amano!
Trascinami con te,
corriamo! (Ct 1,2-4)
Nel testo ebraico il
termine “amore” è reso in questo caso con l’espressione
dodekha di
non facile traduzione: è il possessivo di dod, che può significare “zio” oppure “amico”.
Nel contesto del Cantico la Tradizione ritiene che tale espressione, utilizzata
sia al singolare che al plurale, debba essere intesa nel senso di “amore, amante,
atti d’amore”(49), assimilandosi quindi al significato
del termine ’ahavah sul
quale ci siamo precedentemente soffermati. Interessante anche è l’espressione
ebraica turaq corrispondente all’italiano “effonde”: la radice
verbale r-j-q da cui deriva esprime il significato di “svuotamento”,
pertanto il “nome” dell’amato che “effonde” profumo può essere paragonato ad una sorta di
recipiente capace di riversare all’esterno il suo contenuto, e per questo è
particolarmente desiderabile.
Tale desiderio non si
placa neppure durante la notte e viene definito “malattia d’amore”:
Nelle notti, sul mio
giaciglio,
cerco colui che ama (’et
she’ahavah) l’animo mio/la mia persona (nafshi);
lo cerco e non lo trovo. (Ct 3,1)
Io dormo ma il cuore (lev)
è desto.
[...]
Se trovate il mio amore
ditegli che sono malata d’amore (shecholat
’ahavah ’ani). (Ct 5,2 e 8)
Significative le
espressioni nafshi, l’animo mio/la mia persona, e lev, cuore: sono il segno della
visione antropologica unitaria tipica della mentalità biblica, dove la persona
è compresa nella sua unitarietà di spirito e corpo inscindibilmente connessi
(nafshi), e dove il cuore (lev) costituisce il centro vitale sede dei
sentimenti, della volontà e della ragione. L’amore che qui si cerca è pertanto un amore
totale e indiviso che coinvolge ogni aspetto della propria umanità:
corporale, spirituale, volitivo e razionale.
Ma dove cercare un amore
di questo tipo? Dal testo emerge l’invito
dell’amato nei confronti dell’amata ad essere se stessa: pastora fra i
pastori:
Esci (tz’i-lakh)(50),
segui le orme dei greggi e fai pascolare le tue stesse caprette nei pressi
delle dimore dei pastori. (Ct 1,8)
Si può notare il duplice
invito ad uscire, quindi a guardare oltre il proprio orizzonte, e a seguire le
orme, le tracce che possono portare nella direzione giusta alla ricerca del
proprio amore. Ma di quale amore stiamo parlando? In che cosa si distingue da altri
amori (cf.: Ct 5,9)?
Il Cantico descrive con
dovizia di particolari sia l’aspetto fisico dei due amanti che il trasporto
passionale suscitato dalla naturale bellezza che reciprocamente viene
scoperta.
Dice l’amato:
Mi affascini, mia sorella,
mia sposa,
mi conquisti con uno solo dei tuoi occhi
con uno solo dei monili
della tua collana.
Come è bello il tuo amore
(dodajikh), mia sorella, mia sposa;
il tuo amore (dodajikh)
è meglio del vino e il profumo dei tuoi unguenti
meglio di tutti
gli aromi! (Ct 4,9-10)
Risponde l’amata:
Il mio amato (dodi)
è candido e colorito, spicca fra diecimila ragazzi,
Il suo capo è oro
zecchino
ha i capelli a riccioli
neri, corvini;
i suoi occhi sono come
colombe posate su ruscelli,
[...]
Il suo seno è tutto
dolcezza, egli è tutto tenerezze.
Tale è il mio amore (dodi),
questo è il mio compagno (re‘i)(51).
(Ct 5,10-12 e 16)
Le parole dell’amato,
che si rivolge all’amata scoprendo in lei la possibilità di una amore totale dai
molteplici aspetti definendola contemporaneamente “mia sorella, mia sposa”,
richiamano le parole iniziali di Shulamit nei suoi confronti: egli,
conquistato dallo sguardo anche di uno solo dei suoi occhi, riconosce che anche il suo
amore “è meglio del vino” e il profumo dei suoi unguenti “meglio di
tutti gli aromi” (cf.: Ct 1,2-4 e 4,9-10). Emerge quindi una reciprocità di linguaggio
che sottolinea una reciprocità di sentimenti fra i due amanti definiti, ancora
una volta, con le configurazioni possessive maschili e femminili del termine dod
sul quale ci siamo precedentemente soffermati(52).
La ricerca di un amore
come questo non conosce limiti, non si arrende di fronte alla sofferenza e non si
dà pace se l’incontro non avviene (cf.: Ct 5,6-7). La protagonista femminile,
Shulamit che si è dichiarata “malata d’amore” (cf.: Ct 2,5 e 5,8), desidera un
amore “forte come la morte”, capace di generare una gelosia inguaribile e di
bruciare come una “fiamma potente” che neanche l’acqua può spegnere, e per
questo può legare fino a “sigillare” il rapporto in maniera autentica e durevole:
Mettimi come sigillo sul
tuo cuore (‘al-libekha),
come sigillo sul tuo
braccio;
perché forte come la
morte é l’amore (’ahavah)
tenace come gli inferi è
la passione:
le sue vampe son vampe di
fuoco, una fiamma potente (shalhevetjah)(53)!
Le grandi acque non
possono spegnere l’amore (ha’ahavah)
né i fiumi travolgerlo. (Ct 8,6-7).
Non a caso il “sigillo”
d’amore, che è segno di chi lo pone e delle sue intenzioni, deve essere
posto sul cuore che, come già abbiamo precisato, indica il
centro più profondo e
vitale della persona, e sul braccio: il duplice gesto rimanda all’antica
usanza di portare il medesimo appeso al collo (cf.: Gen 38,18.25), oppure adagiato
sul petto o infilato ad un dito della mano (cf.: Gen 41,42; Ger 22,24). In
questo caso il riferimento al cuore rimanda al petto, la parte del corpo ove il
cuore è contenuto, e il braccio rimanda al dito se considerato come
comprendente la sua parte terminale, cioè la mano.
Un amore così, degno di
essere “sigillato”, deve essere desiderato, non deve essere destato “prima
del desiderio” (cf.: Ct 2,7; 3,5; 8,4) ma deve coronare la “passione” senza
essere banalizzato o ridotto ad un atto formale. E’ un amore quindi totale e autentico.
Non a caso quindi il testo si conclude con la fuga dell’amato su
esortazione dell’amata:
Fuggi, mio amato (dodi),
quale cerbiatto o quale capriolo su per i monti dei balsami! (Ct 8,14)
Tale esortazione può
essere interpretata come il rifiuto da parte di Shulamit della cerimonia che i
fratelli stanno per allestirle (cf.: Ct 8,8-12), in quanto non ne riconosce l’autenticità:
essi non potranno mai sostituirsi a lei nei suoi sentimenti(54). Inoltre è
un finale aperto che rimanda “oltre”, cioè alla possibilità di
sperimentare un amore ancora più grande.
In ogni caso la
prospettiva di fondo è quella di una unione nella quale ciascuno dei due amanti trova la
sua ricchezza nel rapporto con l’altro/a. E’ quindi una relazione nel segno della
reciprocità compresa nel contesto dall’amore umano capace di donazione e
coinvolgimento totale, quel tipo di amore capace di essere “segno” della sua
radice divina.
Un commento rabbinico al
comandamento levitico dell’amore verso il prossimo, che possiamo tranquillamente
riferire anche all’amore sponsale fra l’uomo e la donna, precisa:
Là dove due si uniscono
tra di loro nell’amore, il mio Nome è santificato e io sono il
terzo in questo legame(55).
Tale commento, ancora una
volta, riporta l’attenzione su ciò che deve essere il primo frutto dell’amore:
una relazione “santa” che produce santità innanzitutto fra i due amanti.
Santità della relazione
sponsale uomo-donna e santità della storia
L’amore autentico fra
marito e moglie manifesta dunque Dio nella storia in un contesto ove i due si
conoscono profondamente: non a caso quindi nel testo ebraico della Bibbia si
utilizza la stessa radice verbale (j-d-‘) sia per esprime la conoscenza
reciproca fra i coniugi, anche in senso fisico, che per esprimere la conoscenza
esperienziale di Dio (Cfr. Gen 4,1; 24,16; Os, 2,22; Is 11,2).
Soffermandoci sul rapporto
fra amore e conoscenza reciproca, possiamo notare che nel testo del Cantico
prevale la voce di Shulamit, quindi di una donna, nonostante il contesto
patriarcale in cui è sorto(56); sembra così riequilibrarsi
la mancanza di una
risposta femminile alla entusiastica dichiarazione del primo uomo di fronte alla prima
donna (Gen 2,23a: “è carne dalla mia carne”), contesto nel quale è possibile
cogliere un interessante parallelismo fra Gen 3,16b e Ct 7,11, dove al rapporto
uomo/donna segnato dal dominio maschile si contrappongono il desiderio e la
tenerezza reciproci:
Verso tuo marito
sarà il tuo desiderio (teshuqatekh),
ma egli ti dominerà
(Gen 3,16b)
|
Io sono del mio
amato,
ed egli mi desidera (teshuqato)
(Ct 7,11) |
Lo stesso termine “desiderare”
(teshuqah) viene usato in due accezioni diverse: nella Genesi assume la
connotazione di “istinto naturale” soggiogato dal “dominio maschile”,
mentre nel Cantico esprime la “passione reciproca” fra due amanti che “si
appartengono” nel segno dell’amore e dell’apertura accogliente, quindi all’interno di un
rapporto paritario.
Nel Cantico dei Cantici la
naturale differenziazione uomo/donna rivelata dalla Genesi è vissuta ed
espressa nel segno della reciprocità, quindi nel dono totale di sé e nell’accoglienza
del dono dell’altro/a, relazione che si mostra autenticamente umana e
contemporaneamente capace di rendere visibile e presente il divino nella storia.
Nel Cantico inoltre la
prospettiva sponsale emerge sia dalle parole dei due amanti che dal contesto
corale nel quale le stesse sono inserite, ove non mancano cenni ad usanze
matrimoniali tipicamente semitiche, tant’è vero che qualche commentatore lo ha
definito un continuato inno nuziale(57).
Nello stesso è possibile
ad esempio individuare una significativa relazione fra fidanzamento e matrimonio,
celebrazioni liturgiche anticamente separate nel tempo e poi riunite in un
unico rito(58). Nel testo è anche possibile individuare
un “coro” in dialogo
con Shulamit, la protagonista femminile, che qualche commentatore identifica
come formato dalle ragazze di Gerusalemme (cf.: Ct 3,6; 5,9; 6,1; 7,1a; 7,2-8;
8,5-7)(59). Tale “coro” avrebbe così una relazione con
quanto accadeva a
Gerusalemme il 15 di Av(60) e il giorno di Kippur, il giorno del “perdono”, ricorrenze
in cui le fanciulle in età da marito danzavano nelle vigne affinché i giovani
potessero ammirare e scegliere la propria fidanzata e futura moglie(61). Tale usanza è
ancora oggi ricordata da una danza popolare ebraica che porta il nome di bakhramim,
nelle vigne(62).
Altri due elementi
significativi al riguardo sono la descrizione del “baldacchino” (’appirjon)
e della “corona” (‘atarah) di Salomone con cui la madre lo avrebbe cinto il
giorno delle sue nozze, definito come “il giorno della sua felicità” (cf.: Ct
3,9-11). Sono entrambi simboli matrimoniali carichi di significato.
Il primo simbolo, il “baldacchino”,
rimanda all’uso del baldacchino nuziale (chuppah), ancora
oggi in vigore e sovente costituito dallo scialle per la preghiera (tallit),
segno della coabitazione e dell’unione sponsale che fa dei due “una sola carne” (cf.:
Gen 2,24), e che in virtù della “consacrazione matrimoniale” (qiddushin)
permette ai coniugi di fare un’esperienza particolare del mistero divino
attraverso l’unione fisica che si realizza nell’atto coniugale vissuto come “gesto
santo”. Per questo nel libro del Levitico, fra le norme di purificazione
relative all’esperienza del “sacro”, troviamo anche quelle che riguardano l’esercizio
della sessualità nell’ambito del matrimonio: ogni contatto con la
sacralità di Dio implica infatti un segno positivo di “purificazione” come
riconoscimento dell’essere penetrati in una realtà trascendente (cf.: Lv
12,1ss.)(63).
Il secondo simbolo, la “corona”,
è invece menzionata nei passi profetici che utilizzano la categoria
sponsale (es.: Is 61,10 e 62,3), ed è un simbolo nuziale molto famigliare all’ebraismo
biblico oggi però non più in uso(64).
Il Cantico dunque,
esplicitamente e implicitamente, ci attesta che l’Eterno si rende presente nella
storia attraverso relazioni umane autentiche, nel segno dell’amore reciproco e
in tutta la sua concretezza: ciò avviene nel contesto di una reciprocità di gesti
e parole nella quale non c’è scissione fra “sacro” e “profano”, poiché
ogni realtà è colta e vissuta nella prospettiva della sua naturale apertura alla
trascendenza.
Per questo motivo, durante
la celebrazione delle nozze ebraiche si pronuncia la seguente benedizione
mentre si benedice il Nome di Dio su un calice di vino:
Col permesso dei Maestri.
Per la vita! Benedetto Tu, o Signore
Dio nostro, Re del mondo, creatore del frutto della vite. Benedetto Tu, o Signore
Dio nostro, Re del mondo, che ci ha santificato con i suoi
precetti e ci ha comandato di non contrarre matrimoni illeciti; ci ha
vietato l’unione prima del matrimonio e ci ha permesso di sposare
celebrando il rito matrimoniale e la “consacrazione”.
Benedetto Tu o Signore, che santifica il Suo popolo Israele
per mezzo
della celebrazione del rito matrimoniale e della “consacrazione”(65).
Dio dunque santifica il
Suo popolo attraverso la “consacrazione matrimoniale”, quindi attraverso la
santità di un amore umano sponsale capace di mostrare la sua radice divina.
È interessante a questo
proposito notare che la Gadium et Spes utilizza alcuni passi del Cantico
(Ct
1,1-3; 2,16; 4,16; 5,1; 7,8-11) per ricordare che la Parola di Dio invita
ripetutamente gli sposi a “nutrire e a potenziare la loro unione matrimoniale con un
affetto non diviso” (n.49).
Come ha ben sottolineato
Giovanni Paolo II nelle catechesi del 1984, nelle quali ha commentato questo testo
biblico, dobbiamo recuperare la capacità di amare ed essere riamati così come
il Cantico testimonia attraverso la reciprocità che da questi due amanti emerge:
L’amore che li unisce è
di natura spirituale e sensuale insieme. In base a questo amore si
attua anche la rilettura nella verità del significato sponsale
del corpo, poiché l’uomo e la donna debbono in comune
costituire quel segno del reciproco dono di sé, che pone il sigillo su
tutta la loro vita (Cfr. Ct 8,6-7)(66).
L’amore umano resta
perciò la base “teologica” ed etica sufficiente per spiegare il Cantico nel senso
ribadito da P. Grelot:
L’amore umano
correttamente inteso non costituisce nella rivelazione biblica un
valore reale la cui espressione sarebbe in se stessa degna della
parola di Dio? [...] Il senso teologico del Cantico risiede
esattamente là, nella tranquilla affermazione del valore positivo che
posseggono la sessualità e il suo uso, conformemente alla visione
del Creatore(67).
Questa prospettiva emerge
con una notevole forza anche nella Dogmatica
ecclesiale di
Karl Barth e in una lettera di D. Bonhoeffer all’amico E. Bethge scritta nel giugno del
1944 dal carcere nazista di Tegel.
K. Barth, definendo il
Cantico “Magna charta di umanità” commenta:
Non bisogna volerlo
estromettere dal canone. E non bisogna neppure fare come se non fosse nel
canone. Né bisogna spiritualizzarlo,come se ciò che si trova
nel canone potesse avere solo un significato
spiritualistico. [...] In questo caso l’esegesi più intima e profonda non può
essere altra che la più naturale(68).
E D. Bonhoeffer, scrivendo
a E. Bethge, ribadisce:
Del Cantico ti scriverò
in Italia. In effetti lo vorrei leggere come un cantico d’amore
terreno. Probabilmente questa è la migliore interpretazione
“cristologica”(69).
Pertanto la reciprocità
affettiva, di cui il Cantico è una significativa testimonianza, riguarda
ogni forma d’amore creaturale che cresce e matura nella misura in cui è capace di
aprirsi all’altro/a e di manifestarsi come “segno” della sorgente di ogni
amore attraverso tutto il proprio essere.
Relazioni di questo tipo
non si improvvisano: richiedono gradualità nel cammino che non sempre può
rivelarsi facile, radicalità nelle scelte che non possono essere superficiali e
capacità di cogliere i “segni” di Dio nella “relazioni difficili” anche quando
il Suo volto sembra “nascondersi”.
Ritorniamo allora alla “non
conclusione” dell’incontro fra i due amanti nel Cantico: nel canone
ebraico è possibile cogliere uno sviluppo di questo testo “inconcluso” negli
altri quattro che, con lui, formano le cinque megillot
(rotoli) fra i ketuvim (gli
agiografi)(70), nell’articolazione dei quali è
possibile individuare le
tappe fondamentali di un cammino di maturazione di rapporti umani autentici e
per questo profetici, cioè capaci di leggere la storia con gli occhi di
Dio.
L’ordine in cui questi
cinque testi sono stati canonizzati è il seguente: Cantico dei Cantici, Libro
di Rut, Lamentazioni, Qohelet, Libro di Ester.
Se li consideriamo in
quest’ordine e dalla prospettiva delle relazioni umane ci accorgiamo di un singolare
dinamismo: nel Cantico emerge soprattutto l’amore giovanile, per certi
aspetti adolescenziale, capace di grandi entusiasmi e in cerca dell’autenticità.
Questo testo viene letto ogni anno a Pasqua ed è entrato a far parte anche della
liturgia settimanale del Sabato, in quanto esprime in maniera unica la
reciprocità dell’amore fra Dio e il suo popolo.
Nel libro di Rut invece
prevale l’amore consapevole e maturo di una giovane vedova moabita che, nella
relazione con la suocera ebrea e con le tradizioni del suo popolo, incontra il
Dio di Israele:
dove tu andrai andrò anch’io;
dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo
e il tuo Dio sarà il mio Dio. (Rt 1,16).
Tale libro viene a letto a
Pentecoste, festa in cui si fa memoria del dono della
Torah,
l’insegnamento rivelato, sottolineando così attraverso l’amore di Rut la positività del rapporto
fra il popolo di Israele e le Nazioni.
Ma proprio perché la
storia umana è caratterizzata anche da momenti e relazioni difficili, nelle
Lamentazioni si esprime la sofferenza per la mancanza d’amore, situazione nella quale si
trova l’esule che si misura con la felicità perduta:
La gioia si è spenta nei
nostri cuori, si è mutata in lutto la nostra danza. (Lam 5,15).
Questo libro viene letto
il 9 di Av, giorno in cui si fa memoria della caduta del Tempio e delle grandi
sciagure nazionali.
Sempre nell’orizzonte
della riflessione sulla storia Qohelet considera la varietà delle relazioni
umane e, pur riconoscendo la relatività delle realtà terrene, arriva ad
affermare che:
è meglio essere in due
piuttosto che uno solo (Qo 4,9),
cogliendo quindi nei
rapporti interpersonali una fondamentale positività. La Tradizione rabbinica
riprende questo tema riferendolo sia al matrimonio che alle relazioni umane in
generale, e precisa che da qualsiasi tipo di uomo o di donna si può imparare
qualcosa(71). Il libro di Qohelet viene letto durante la festa
delle Capanne durante il
ricordo dei quarant’anni trascorsi nel deserto prima dell’ingresso nella
Terra promessa.
Arriviamo così al quinto
libro di questa serie, il libro di Ester, che è la testimonianza di un amore
capace di rischiare per il proprio popolo, nel quale si sottolinea che la
felicità del singolo può compiersi solo nella felicità e nella salvezza di tutta la
collettività (cf.: Est 7,3). Questo testo, che viene letto a Purim(72),
festa che ricorda il coraggio di questa grande donna, mette in risalto come l’amore
incondizionato possa arrivare a mettere in gioco sia l’amore del re, che
aveva meritato, che la propria stessa vita per l’amore verso il prossimo, in questo
caso verso il proprio popolo.
Come ogni festa dell’anno
liturgico ha senso solo se rapportata alla globalità dello stesso, così ognuno
di questi cinque testi acquista maggior profondità se messo in relazione all’intera
serie. In questo orizzonte ci si trova di fronte ad esperienze che
abbracciano tutte le stagioni e le occasioni liete e tristi della vita, e che vengono
presentate a partire dalla reciprocità dell’amore di coppia testimoniato nel
Cantico per concludersi con la reciprocità dell’amore per la propria gente
testimoniato nel libro di Ester.
L’amore di coppia
dunque, ancora una volta, emerge come significativo fondamento dei diversi possibili
sviluppi dell’amore umano che, nell’esperienza matrimoniale, diventa
amore “reciprocamente consacrato”. A questo proposito la Tradizione ebraica insegna
che:
Lo stato matrimoniale è
tanto importante che il Santo, benedetto sia, in tutte e tre le
parti della Sacra Scrittura – Torah
(Pentateuco), Nevi’im
(Profeti), Ketuvim (Scritti agiografici) – mette in relazione il Suo
Nome con il matrimonio.
Nella Torah –
poiché quando Eliezer andò a prendere Rebecca per Isacco (Gen 24,50) si
legge: “Allora Labano e Betuel risposero: ‘La cosa viene dal
Signore’.”
Nei Nevi’im –
poiché quando Sansone si prese una moglie (Gdc 14,4)(73) si legge: “Il
padre e la madre non sapevano che ciò proveniva dal Signore”.
Nei Ketuvim –
poiché sta scritto (Pr 19,14): “Una moglie assennata viene dal Signore”.
Tu apprendi dunque che il
Santo, benedetto sia, mette in relazione il Suo Nome con il
matrimonio(74).
La particolarità della
simbologia biblica e il significato dell’allegoria
La categoria sponsale è
ampiamente utilizzata nel testo biblico per esprimere il rapporto fra Dio e il Suo
popolo e, come abbiamo precedentemente accennato, anche il Cantico dei
Cantici è stato letto sia dalla Tradizione ebraica che da quella cristiana anche in
questo modo.
È però opportuno
precisare come la Scrittura considera l’allegoria e in che modo viene utilizzata dai
Maestri di Israele, in quanto lo sviluppo del pensiero occidentale, soprattutto
dopo l’anno mille dell’era attuale, ne ha notevolmente variato il significato
sottolineando la differenza fra “figura” e “realtà”.
Dal punto di vista
biblico, l’amore umano vissuto nella sua dimensione autentica è “sacro” in quanto
originato dall’azione creatrice di Dio, ed è in virtù di ciò che può esprimere in
maniera significativa il rapporto fra JHWH e il suo popolo.
Le possibili letture
allegoriche del Cantico dei Cantici sono vere perché l’amore umano autentico
è realmente segno dell’amore divino. I due piani di lettura, quello letterale
e quello allegorico, appaiono così complementari e interdipendenti: è vero l’uno
perché è vero l’altro: non c’è fra i due una relazione di “figura”
e “realtà”, ma si tratta di “realtà” che reciprocamente si illuminano.
Ci troviamo pertanto di
fronte ad una analogia che va compresa nell’orizzonte dell’allegoria biblica,
cioè del rapporto fra mashal (modello esplicativo) e
nimshal (ciò
che è rappresentato) che, per essere valido implica innanzitutto che i due termini di
paragone condividano la stessa natura(75). In altri termini:
l’amore umano può
essere “segno” dell’amore divino solo se è una realtà positiva creata da Lui e solo se
gli uomini lo accolgono e lo vivono in maniera autentica, cioè come Egli
stesso lo ha rivelato. Come sostiene la Tradizione rabbinica il Cantico si
rivela come un mashal, cioè come un modello esplicativo che non va preso alla
leggera proprio perché testimonia la santità dell’amore umano attraverso la
sponsalità(76).
Ben si comprende allora
perché sia il rapporto amato/amata che la categoria sponsale siano utilizzati
dalla Scrittura per descrivere l’agire del Dio dell’Alleanza nei
confronti della storia con parole umane che realmente possano “significarlo”, come
quelle che ritroviamo nel libro del profeta Geremia nella sezione conosciuta come
“aggiunta” al “Libro della consolazione”(77), dove al
popolo che vive il dolore
dell’esilio si promette nuova gioia con le seguenti parole:
nelle città di Giuda e
nelle strade di Gerusalemme, che sono desolate, senza uomini,
senza abitanti e senza bestiame, si udranno ancora grida di
gioia e grida di allegria, la voce dello sposo e quella della sposa
e il canto di coloro che dicono: “Lodate il Signore degli
eserciti, perché è buono, perché la Sua benevolenza dura sempre”. (Ger 33,10-11;
cf.: Sal
106,1-2).
Il simbolo nuziale e
sponsale è qui utilizzato come segno di una benevolenza divina nei confronti del
Suo popolo che tornerà a gioire dopo la sventura. La “voce dello sposo e
quella della sposa” rimandano sia alla gioia fra i due amanti che a quella fra
JHWH e il popolo di Israele: la sponsalità gioiosa diventa
il segno di un
canto di lode che riconosce in Dio colui che è fedele alle Sue promesse.
Altri esempi significativi
si possono trovare in molti altri passi profetici e, in particolare, nel libro
di Osea. E poiché il Dio dell’alleanza è lo stesso Dio che si è rivelato in
Gesù, in questo orizzonte si colloca anche il rapporto sponsale Cristo-Chiesa che
in ogni matrimonio cristiano si realizza in virtù del battesimo: è il “mistero
grande” ricordato da San Paolo ai cristiani di Efeso (cf.: Ef 5,32).
____________________
La donna nelle citazioni
rabbiniche
(alcuni esempi)
“Avendo “costruito”
(banà) la donna dalla costola, Dio le concesse maggiore “intelligenza” (binà)
che all’uomo”. (Talmud Babilonese,
Niddà, 45b).
“Le donne hanno più
discernimento”. (Talmud Babilonese,
Niddà, 45b).
“Le donne hanno più
fede degli uomini”. (Sifrè al libro dei
Numeri, 133).
“La Torà è
personificata come donna, figlia, sposa”. (Talmud Babilonese,
Jevamot,63b).
Disse Rabbi Eleazar: “Un
uomo che non ha moglie non è un vero uomo, poichè è detto: “Maschio e
femmina li creò [...] e dette loro nome Adamo” (Gen 2,5)”. R. Eleazar diceva ancora: “Qual’è
il significato del verso biblico: “Gli farò un aiuto adatto a lui (Gen
2,18)?” Se egli [l’uomo] lo merita, lei [la donna] sarà per lui un aiuto,
altrimenti lei sarà contro di lui”. (Talmud Babilonese,
Jevamot, 63a).
Disse Rabbi Elia in
risposta a Rabbi Josè (in riferimento al tipo di aiuto che la donna offre all’uomo):
“Se un uomo porta del grano, forse che lo mastica in chicchi? E se porta del
lino, forse che lo indossa in steli? Forse che lei non porta luce ai suoi occhi?”.
(Talmud Babilonese,
Jevamot, 63a).
“La donna deve eseguire
a favore del marito i seguenti lavori: macinare il grano, fare il pane,
lavare i panni, cucinare, allattare suo figlio, preparargli il letto e
lavorare la
lana. Se porta una domestica non deve........., se porta due domestiche.........,
ecc.”. (Mishnà, V,5).
Disse Rabbi Chijà: “Si
deve prendere moglie soprattutto per la sua bellezza, e soprattutto per i figli.
[...] Chi desidera che sua moglie sia graziosa deve farla vestire con vesti di
lino”. (Talmud Babilonese,
Ketubbot, 59b).
Disse Rabbi Tanchum a nome
di Rabbi Chanilai: “Un uomo che non ha moglie vive senza gioia, senza
benedizione, senza bene”. (Talmud Babilonese,
Jevamot, 62b).
Disse Rabbi Chelbò: “Un
uomo deve sempre onorare sua moglie perché le benedizioni discendono
sulla casa di un uomo solo per merito di sua moglie”. (Talmud Babilonese,
Bava Matzi’à, 59a).
“Israele fu liberato
dall’Egitto per i meriti delle donne”. (Talmud Babilonese,
Sotà, 11b).
Disse Rav Judà in nome di
Rav: “Un uomo non deve dare sua figlia in matrimonio quando è in età minore
[ma deve aspettare] fino a che sia cresciuta e dica: “io desidero il Tale””.
(Talmud Babilonese,
Qiddushin, 41a).
“Dieci misure di
chiacchere scesero sul mondo: nove furono prese dalle donne”. (Talmud Babilonese,
Qiddushin, 49b).
La donna in rapporto all’uomo
nella famiglia ebraica
Nell’ebraismo la massima
realizzazione dell’uomo e della donna avviene attraverso il matrimonio e
la famiglia, per questo risulta difficile parlare dell’uno e dell’altra
al di fuori di questo contesto. La Tradizione, pur nelle sue molteplici
articolazioni e tensioni fra affermazioni di tendenza maschilista e valorizzazione del
femminile, ha sempre sostenuto sia la complementarietà uomo-donna (Cfr. Gen 2,18)
che la loro fondamentale uguaglianza, in quanto il primo essere umano è
contemporaneamente maschio e femmina (Cfr. Gen 2,5). La diversità viene pertanto
sottolineata in riferimento ai particolari ruoli all’interno della vita
di coppia e di famiglia: è la donna che trasmette l’ebraicità (è ebreo
chi nasce da madre ebrea) e che deve concretizzare l’ebraismo
nella vita
famigliare, cioè nel contesto domestico che viene pertanto considerato una sorta di
“piccolo tempio” nel quale la tavola costituisce “l’altare”; è lei
quindi che trasmette per prima i valori ebraici ed è lei responsabile della
liturgia domestica e dell’applicazione di tutte le norme alimentari che regolano la
vita dei più osservanti; per questo è esonerata da tutte le prescrizioni
legate a particolari orari che potrebbero ostacolarla nei periodi di allattamento o
comunque nelle esigenze legate alla cura dei famigliari. L’uomo, che
insieme alla donna è responsabile dell’educazione dei figli, è invece tenuto ad
osservare una serie di impegni legati ad orari e luoghi particolari (come
la preghiera e lo studio a casa e in Sinagoga) ma, soprattutto, deve amare la
propria moglie come se stesso in quanto suo “prossimo” per
eccellenza. La Tradizione inoltre sottolinea che la Torà
(L’insegnamento rivelato
sul Sinai) fu dato prima alle donne, poiché senza di esse la vita ebraica non
sarebbe possibile, ed invita perciò i mariti ad “abbassarsi” (da
intendersi chiaramente in senso simbolico) per “ascoltare” le proprie mogli,
poiché è
per loro merito che le benedizioni raggiungono la famiglia.
Se questa è la
comprensione tradizionale legata prevalentemente a valori religiosi, l’ebraismo
moderno e contemporaneo ha cercato di ripensare il ruolo della donna di fronte ai
nuovi contesti nei quali la stessa è oggi inserita: non più solo la famiglia, ma
anche il lavoro, gli impegni sociali, le nuove opportunità che la vedono
possibile protagonista. Molte donne sono oggi presidenti di comunità
ebraiche o di unioni nazionali delle stesse (un esempio italiano è Tullia Zevi),
in America l’ebraismo riformato ha accettato la donna anche nel ruolo di
Rabbino, e gli esempi potrebbero continuare. Il panorama attuale si presenta così
variegato e in tensione fra valori tradizionali ed esigenze di innovazione,
dimensione che percorre trasversalmente tutte le espressioni dell’ebraismo
di questo secolo (danza, musica, arte, letteratura, sionismo, ecc.), è quindi
necessario evitare indebite generalizzazioni cercando piuttosto di cogliere in
ogni particolare ciò che di positivo (o di problematico) lo stesso
porta nel confronto più ampio e diversificato che, se da una parte
può
disorientare, dall’altra costituisce la forza interna di questa Tradizione millenaria.
______________________
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___________________________
1. L.
GINZBERG, Le
leggende degli ebrei. I. Dalla creazione al diluvio, Trad. it. a c. di E.
Loewenthal, Adelphi, Milano 1995, p.61
2. ’elohim è un
termine plurale che, secondo la tradizione ebraica, esprime la dimensione
universale del Dio biblico che è contemporaneamente il Dio di Israele e il Dio
di tutti gli uomini.
3. Per questa ragione il
giorno biblico inizia la sera, e non la mattina.
4. Il midrash, dalla
radice d-r-sh che comprende i significati di “cercare, investigare”,
è una tecnica esegetica rabbinica che, a partire dal senso letterale (peshat)
della Scrittura, tenta di svelarne i significati più profondi mettendo in
relazione passi biblici fra loro collegabili secondo alcune norme stabilite dai
maestri. Riguardo la tipologia e l’utilizzo del midrash nella
Tradizione rabbinica rimando a: A. LUZZATTO, Leggere il Midrash,
Morcelliana, Brescia 1999; G. STEMBERGER, Il Midrash, EDB, Bologna 1992.
Anche la Patristica ha sottolineato che la Scrittura è interprete di se stessa:
le relazioni fra ermeneutica ebraica e cristiana sono ben espresse nel saggio di
M. MORFINO, Leggere la Bibbia
con la vita, Qiqajon, Magnano
(VC) 1990.
5. Cf.: Is 45,7: “Io
[Dio] faccio la pace e creo la sventura (bore’ ra‘).
6. Midrash Temurah,
cap. 1 e 3. Traduzione italiana e commento a cura di M. PERANI, Il Midrash
Temurah, EDB, Bologna 1986, il passo citato si trova alle pp.73 e 78-79.
7. Primo rispetto alla
collocazione nel canone biblico. Esistono nel libro della Genesi più racconti
della creazione derivanti da tradizioni e fonti diverse, i quali sono stati
fissati dal redattore finale secondo un criterio di giustapposizione che tiene
relativamente conto di ciò che è più antico e di ciò che è più recente.
8. La bet è la
seconda lettera dell’alfabeto ebraico e ha il valore numerico di due.
9. La ’alef è la
prima lettera dell’alfabeto ebraico.
10 Bereshit Rabbah,
I,10.
11 Per l’approfondimento
degli aspetti paterni e materni in Dio rimando al mio seguente saggio: E.
BARTOLINI, La tenerezza di Dio:
i tratti paterno/materni del Dio dell’Alleanza,
in AA. VV., Padri e Madri. Per
crescere a immagine di Dio (Atti
della Terza Settimana Nazionale di studi sulla spiritualità familiare e
coniugale promossa dalla CEI, Rocca di Papa, 28 aprile – 2 maggio 1999),
Città Nuova, Roma 1999, pp.116-145.
12 Qabbalah significa
“ricezione delle cose divine” e designa la mistica ebraica tradizionale di
tipo prevalentemente esoterico.
13 Per un approfondimento
di questa particolare concezione mistica della creazione si può vedere: G.
SCHOLEM, La kabbalah e il suo
simbolismo, Einaudi, Torino
1980, in particolare pp.138-150.
14 Talmud Babilonese,
Jevamoth 63a.
15
Cf: Genesi Rabbah, LXVIII,4.
16 Sul significato del “baldacchino
nuziale” e dei simboli matrimoniali rimando al mio seguente saggio: E.
BARTOLINI, Segni e simboli nel
rituale ebraico del matrimonio,
in AA. VV., La reciprocità
Verginitá-Matrimonio. Profezia di comunione nella Chiesa Sposa (Atti
del Seminario di Studio CEI - USMI - CISM, Sassone, 8-12 Dicembre 1999),
Cantagalli, Siena 2000, pp.201-231.
17 Sul significato
liturgico della danza rimando al mio seguente saggio: E. BARTOLINI, Come
sono belli i passi... La danza
nella tradizione ebraica,
Ancora, Milano 2000.
18 L.
GINZBERG, Le
leggende degli ebrei, cit., pp.77-78.
19 JHWH è il tetragramma
sacro che la Tradizione ebraica non vocalizza per rispettarne la trascendenza.
Preferisco indicarlo senza la probabile vocalizzazione ipotizzata da alcuni
studiosi in conformità con le scelte operate dalle chiese cristiane in dialogo
con l’ebraismo.
20 L’alfabeto ebraico è
solo consonantico quindi, normalmente, la vocalizzazione avviene solo a livello
di lettura e non di scrittura. Esiste una vocalizzazione del testo biblico
avvenuta fra il VI e l’VIII secolo dell’Era Volgare alla quale fa
riferimento anche l’ebraico moderno.
21 L’albero sefirotico
è l’insieme delle sefirot, o “emanazioni” divine.
22
Cf: M. GLAZERSON, Revelations
abuot marriages, Raz –Ot Istitute, Jerusalem [s.d.], pp.109-113.
23
Cf: Ibidem,
pp.106-109.
24 Genesi Rabbah,
I,1.
25
Cf: M. GLAZERSON, Revelations
abuot marriages, cit., pp.109-110.
26 Come si può notare,
nel secondo capitolo della Genesi compare il Nome proprio di Dio, JHWH. La prima
volta in cui tale Nome compare
scritto in questo modo è in questo stesso capitolo della Genesi al versetto
quarto.
27 La versione della
Conferenza Episcopale Italiana traduce: “un aiuto che gli sia simile”.
28 Talmud Babilonese,
Jevamoth 63a.
29
Cf.: Talmud
Babilonese, Qiddushin 2b.
30 Talmud Babilonese,
Sotah17a. Mie le precisazioni fra parentesi.
31 L.
GINZBERG, Le
leggende degli ebrei, cit., p.78.
32 Fra le principali
allegorie troviamo il rapporto Dio-popolo di Israele, Creatore-creatura,
Cristo-Chiesa, ecc., sebbene il testo non suggerisca
tale tipo di lettura come fanno invece alcuni testi profetici (es.: Is 62,5; Ger
2,2; Os 2,21-22; ecc.).
33
Cf.: al riguardo: H. CROUZEL, Origene, Borla, Roma 1986, pp.95-99.
34
Cf.: al riguardo: Il
Cantico dei Cantici. Targum e antiche interpretazioni ebraiche, a c. di U.
NERI, Città Nuova, Roma 19933, pp.19-39;
RASHI DI TROYES, Commento al Cantico dei Cantici, a c. di A. MELLO, Ed.
Qiqajon, Magnano (VC) 1997, pp.8-8-14; M. MORFINO, Leggere la Bibbia con la vita, cit, pp.49-53.
35 In ebraico entrambi i
termini italiani sono compresi nell’espressione qadosh.
36 Viene qui parzialmente
riproposto e rielaborato quanto presentato al Seminario CEI-USMI su “Verginità
e Matrimonio” tenutosi a
Loreto nel 1997; cf.: E. BARTOLINI, La
storia dell’amato e dell’amata come epifania dell’Eterno nel Cantico
dei Cantici, in AA.VV., Verginità
e matrimonio. Due parabole dell’Unico Amore (Atti del Seminario di Studio CEI
Uff. per la pastorale della famiglia – USMI, Loreto, 4-7 settembre 1997),
Ancora, Milano 1998, pp.103-123.
37 C’è chi ipotizza che
l’autore, o comunque la redazione finale del testo, abbia ambientato la
vicenda ispirandosi all’oasi di ’en
gedi sulle rive del Mar Morto, località dove, non a caso, è possibile
ammirare una bellissima cascata che porta il nome di Shullamit,
la protagonista femminile del Cantico, e dove vivono in libertà gazzelle che
richiamano molte descrizioni presenti
nel medesimo.
38
Cf.: Cantico dei
cantici, a c. di G. GARBINI, Paideia, Brescia 1992, pp.293-303; G. RAVASI, Il
Cantico dei Cantici, EDB, Bologna 1992,
pp.79-113.
39
Cf.:, G. RAVASI, Il
Cantico dei Cantici, cit., pp.45-77.
40 Mishnah, Jadajim
III, 5; Cf.: Toseftah, Sanhedrin XII, 10. Mie le precisazioni
fra parentesi.
41 Origene conosce la
Tradizione ebraica attraverso relazioni personali con illustri rabbini della sua
epoca. Cf.: H. CROUZEL, Origene, cit.,
pp.32-34.
42 PG 13,37. Traduzione
italiana citata in: G. RAVASI, Il Cantico dei Cantici, cit.,
p.744.
43 Cantico Zuta 1,1.
Mie le precisazioni fra parentesi.
44 Cantico Rabbah I,12.
Mie le precisazioni fra parentesi.
45 Zohar, Terumah
143a-144a.
46
Cf.: G. RAVASI, Il
Cantico dei Cantici, cit., pp.117-118.
47 Può sorgere qualche
dubbio a proposito del passo 8,6 del Cantico, nel quale si adopera la parola
ebraica
shalhevetjah che
potrebbe apparire teofora (jah). Tuttavia è molto più verosimile che la
stessa sia da intendersi nel senso di “fiamma potente”
e non di “fiamma divina”. Cf.: A. LUZZATTO, Una lettura ebraica del
Cantico dei Cantici, La Giuntina, Firenze 1997,
p.23.
48 Nel libro di Ester, che
come il Cantico dei Cantici non menziona mai Dio, si nomina per lo meno il
popolo di Israele che si
caratterizza come collettività che custodisce i precetti divini; pertanto si fa
indirettamente riferimento a Dio tramite il
comportamento del suo popolo e il destino dello stesso che in questo testo viene
narrato.
49
Cf.: A. LUZZATTO, Una
lettura ebraica del Cantico dei Cantici, cit., p.62 nota 1.
50 Il modo con cui l’imperativo
tz’i lakh è costruito, richiama quello con cui Dio invita Abramo ad
andare “verso sé”, verso la scoperta della
“sua vocazione”, dicendogli: lekh-lekha, invitandolo cioè ad “uscire”
dai suoi progetti per accogliere la “promessa”
(cf.: Gen 12,1-4a).
51 Il termine può
significare sia “prossimo” che “compagno” (Cf.: Lv 19,18).
52 Il termine dodi,
mio caro/mio amato, è utilizzato anche nell’inno per l’accoglienza del
Sabato compreso come sposa e regina di Israele, nel
quale si dice: Lekha dodi, “vieni o mio amato”.
53 Come precedentemente
sottolineato, preferisco tradurre “fiamma potente” e non “fiamma divina”,
interpretando quindi la desinenza jah
nel senso di “raccolta di fiamme” e non come eventuale richiamo alla
forma abbreviata del Nome divino.
54 Cf.: A. LUZZATTO, Una
lettura ebraica del Cantico dei Cantici, cit., p.53.
55 Midrash a Lv
19,18. Citato da P. LAPIDE in Leggere la Bibbia con un ebreo, EDB,
Bologna 1985, p.70. E’ evidente la relazione fra il
commento a Lv 19,18 e le parole di Gesù in Mt 18,20.
56 C’è addirittura chi
lo commenta sostenendo che sia lei a riferire la “voce” di lui. Cf.: A.
LUZZATTO, Una lettura ebraica del Cantico dei
Cantici, cit., pp.45-47.
57
Cf.: G RAVASI, Il
Cantico dei Cantici, cit., pp.63-69.
58 Tale rito è ancora
oggi in uso presso gli ebrei ed è presente anche nella liturgia matrimoniale
dei cristiani ortodossi.
59
Cf.: A. LUZZATTO, Una
lettura ebraica del Cantico dei Cantici, cit., pp.45 e 59-81. La
traduzione della Bibbia di Gerusalemme identifica
invece il “coro” nei seguenti versetti del Cantico: 1,8; 5,9; 6,1; 7,1-9.
60 Av è il quinto
mese del calendario ebraico. Il 15 di Av è l’anniversario tradizionale
della riconciliazione avvenuta fra la tribù di Beniamino
e le altre (Cf.: Gdc 21,1ss.), ed è anche il giorno in cui si ricorda l’arrivo
del legname per la costruzione dell’altare
del Tempio.
61
Cf.: Mishnah, Ta‘anit
IV,8.
62
Cf.: E. BARTOLINI, Come
sono belli i passi..., cit., p.55.
63 Non si tratta quindi di
purificazione dal peccato. Nella cultura ebraica infatti l’impurità non
indica solo qualcosa di negativo (come nel caso
del peccato) ma anche la situazione di chi ha fatto esperienza della sacralità:
Aronne, dopo essere entrato nella zona
più “sacra” del Santuario, quindi dopo aver compiuto un gesto che implica
già una purificazione, una volta
uscito dalla stessa deve nuovamente purificarsi per compiere il rito espiatorio
del giorno di
kippur per
sé e per il popolo (Lv 16,1ss.); così come chi è preposto alla preparazione
delle ceneri della “vacca rossa” per l’acqua di
purificazione deve a sua volta purificarsi proprio perché tale acqua ha a che
fare con la sacralità (Nm 19,1-10). Si può vedere
al riguardo: P. SACCHI, Storia del mondo giudaico, SEI, Torino 1976,
pp.229-259. La sezione è interamente dedicata al
rapporto fra sacro e profano, puro e impuro. Per l’approfondimento di questo
aspetto rimando anche a: E. BARTOLINI, La santità del Dio dell’Alleanza radice della reciprocità
verginità-matrimonio, in AA. VV., La
reciprocità Verginità-Matrimonio. Il dono dell’alterità nella Chiesa Una
Santa (Atti del Seminario di Studio CEI - USMI - CISM, Chianciano, 4-8 Dicembre 1998),
Cantagalli, Siena 1999, pp.37-63.
64 La tradizione rabbinica
riterrà opportuno invitare il popolo a non utilizzarlo più in segno di lutto
dopo la caduta del Tempio del 70 E.V. Talmud
Babilonese, Sotah 49a. Il rito dell’incoronazione è ancora oggi in
vigore nella celebrazione del
matrimonio cristiano-ortodosso.
65 Nozze ebraiche,
a c. di E. PACIFICI, La Giuntina, Firenze 5744 – 1984, p.19. Riguardo il
significato della liturgia e dei simboli delle nozze
ebraiche rimando a: E. BARTOLINI, Segni e simboli nel rituale ebraico del
matrimonio, cit., pp.201-231.
66 G. PAOLO
II, in Il
Cantico dei Cantici, a c. di M. BETTETINI, Rusconi, Milano 1996, pp.84-85.
67 P.
GRELOT, Le sens
du Cantique des cantiques d’après deux commentaires récents, in Revue
Biblique 71(1964), 46.
68 K.
BARTH, Die
Kirchliche Dogmatik, Zürich 1932ss., III vol., tomo 2, p.354. (Trad.
italiana: Dogmatica ecclesiale, EDB, Bologna s.d.).
69 D.
BONHOEFFER, Resistenza
e resa, a c. di A. GALLAS, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1988, p.386.
70 Il canone ebraico è
suddiviso in tre parti: la Torah (Pentateuco), i Nevi’im (testi
profetici) e i Ketuvim (testi agiografici).
71
Cf.: Mishnah, Avot
IV,1.
72 Significa “sorti”,
in quanto la sorte del popolo ebraico condannato ingiustamente allo sterminio
cambia in positivo.
73 Il libro dei Giudici
nella Bibbia ebraica fa parte dei libri profetici
74 Midrash Tehillim,
LIX, 2. Mie le precisazioni iniziali fra parentesi.
75 La Tradizione rabbinica
ha continuato ad utilizzare questo procedimento anche nel periodo post-biblico,
mentre l’esegesi cristiana,
inculturatasi con le categorie del pensiero greco, ha cominciato a distinguere
fra “figura” e “realtà”. Riguardo il mashal nella
Bibbia e nella letteratura post-biblica in riferimento al suo utilizzo nel
Cantico dei Cantici Cf.: A. LUZZATTO, Il
Cantico dei Cantici, cit., pp.38-44.
76
Cr:.Cantico Rabbah,
introduzione.
77 Il “Libro della
consolazione” comprende i capitoli 30 e 31, la cosidetta “aggiunta”
comprende invece i capitoli 32 e 33.
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[Fonte: Convegno SAE