Questo
testo è una versione non rivista di una conferenza data nell’ambito
della serie “La Chiesa Cattolica e l'Ebraismo dal Vaticano II ad
oggi” offerta dal Centro Cardinal Bea presso la Pontificia Università
Gregoriana dal 19 ottobre 2004 al 25 gennaio 2005 in collaborazione
con il SIDIC Roma e con il sostegno dell’American Jewish Committee.
Ho ascoltato con molta attenzione le
parole di
Mons. Forte e del Card.
Martini, ed è difficile per me, dopo due
interventi così intensi, proporvi un’altra tematica. I due
interventi svolti puntano soprattutto sul futuro, puntano a guardare
al di là del passato, mentre io – che andrò alla ricerca di
quelli che sono stati i motivi delle contrapposizioni religiose e
teologiche fra Ebraismo e Cristianesimo – farò un discorso più
ancorato al passato. Tuttavia vorrei proiettare questo capitolo del
passato su un futuro che ci riguarda insieme e verso il quale stiamo
andando insieme. Data la complessità e la delicatezza dei temi
affrontati, nonché la ristrettezza del tempo, articolerò il mio
intervento in modo molto sintetico.
Vorrei premettere un’osservazione generale che
vuole essere anche un augurio. Il dialogo ebraico-cristiano –
nonostante i limiti, i difetti, le illusioni, le critiche e gli
attacchi che continua ad alimentare – è una realtà dinamica; non
siamo fermi, e vorrei ricordare applicandolo a noi un verso del
Deuteronomio (5, 3): “Noi insieme oggi qui tutti quanti vivi”,
armati più di buona volontà e di speranza che di sapienza e di
certezze. Il confronto fra Cristianesimo ed Ebraismo dei secoli
passati non è quello che è oggi: ieri c’erano le dispute
teologiche, e gli ebrei erano unilateralmente convocati in pubbliche
assemblee per giustificare la loro fedeltà alla fede dei padri;
oggi, ebrei e cristiani nello spirito del dialogo si incontrano con
ben altre premesse e con altri sentimenti. Pur tuttavia è difficile
negare che da parte del mondo ebraico, rabbinico e non rabbinico,
permanga una certa resistenza, una difficoltà ad entrare in
relazione con il Cristianesimo nel quadro delle iniziative di
dialogo, per una serie di motivi, alcuni chiari ed evidenti, altri
solo avvertiti ma non per questo meno condizionanti.
In parte vi è ancora il timore o il sospetto che
da parte cristiana si miri ad attirare gli ebrei al Cristianesimo
attraverso il dialogo, o che comunque da quelle frequentazioni gli
ebrei religiosamente meno motivati, e quindi più fragili, possano
essere indotti ad abbandonare la loro religione per abbracciare il
Cristianesimo. A me pare che, in modo preliminare e sostanziale, il
motivo vero alla base di questa resistenza non sia legato a paure o
suggestioni, ma sia connesso a considerazioni di tipo dottrinale: a
differenza del Cristianesimo nei riguardi dell’Ebraismo,
l’Ebraismo non ha bisogno del Cristianesimo per capirsi, per
auto-comprendersi. Oggi si usa parlare di una “relazione
a-simmetrica” che lega ebrei e cristiani sul piano del dialogo: in
altre parole, se per il Cristianesimo incontrare Israele equivale a
riscoprire le proprie radici, per sentirsi meglio definito, compreso
e, se vogliamo, giustificato, lo stesso non varrebbe per
l’Ebraismo nei confronti del Cristianesimo. Qui, al contrario,
l’incontro con il Cristianesimo può diventare fonte di tensione e
di contraddizione nel momento in cui emerga (e come può non
emergere?) la figura di Gesù, che, divinamente o messianicamente
concepita, è in contrasto con la concezione monoteistica o
messianica di Israele. Bisogna aggiungere che nella dottrina
religiosa del Cristianesimo, fatta di aperture e sviluppi ma anche
di resistenze e incertezze, permangono nei confronti del popolo di
Israele non lievi difficoltà a definirne e ad indicarne il ruolo.
Mi riferisco, a titolo esemplificativo, all’interpretazione che la
Chiesa dà del ritorno di Israele dopo duemila anni di galut
(esilio) nella terra d’Israele: evento provvidenziale,
all’interno di una visione teologica, ovvero evento storico e
contingente, all’interno di una visione politica?
Potrei continuare a riflettere su questo terreno,
aggiungendo altre considerazioni, ma intenzionalmente non lo farò,
perché non è questo il tema su cui intendo soffermarmi questa
sera. Vorrei infatti pormi su un piano diverso: non più su quello
che valuta criticamente la teologia cristiana dell’Ebraismo, ma su
quello che – dall’interno dell’Ebraismo – cerca di esporre e
valutare le linee-guida o le coordinate di una teologia ebraica del
Cristianesimo. Questa – ancorché essenziale – è non univoca,
contraddittoria, in fase di elaborazione. Si tratta, infatti, di un
lavoro difficile e delicato, che ha come momento preliminare la
ricerca della definizione dei cristiani data dagli ebrei nel
passato: mi riferisco in particolare al periodo talmudico e al
periodo medievale.
Il punto su cui convergeva e approdava la
discussione, e quindi anche il nodo principale da sciogliere, era se
i cristiani dovessero o meno essere considerati alla stregua degli
idolatri. Nella testimonianza del Talmud emerge una distinzione fra
i goyim (tra cui i cristiani) che abitano nella terra di Israele e i
goyim che abitano fuori della terra di Israele. Perché i primi non
fossero considerati idolatri, occorreva accertarsi che davvero non
praticassero l’idolatria; riguardo ai secondi bastava la
presunzione che non fossero idolatri. Vi è un passo, diventato
paradigmatico, del trattato talmudico di Hullin (13b) che suona così:
“Gli idolatri fuori di Israele non sono idolatri, perché essi in
realtà praticano in modo abitudinario le ritualità dei loro
padri”. Ho tradotto in italiano corrente un’espressione tecnica
che significa questo: nell’eseguire certe pratiche essi non
mostrano una chiara volontà di celebrare dei riti idolatrici. Perché
questa differenza di valutazione verso, rispettivamente, coloro che
sono in terra di Israele e coloro che ne sono fuori? Probabilmente,
i cristiani della Terra Santa di cui parla il Talmud sono i primi
cristiani, i giudeo-cristiani, la chiesa di Gerusalemme, la chiesa
di Giacomo, coloro che avevano conosciuto e praticato la religione
ebraica e poi l’avevano abbandonata. Questi, dunque, sapevano
quello che facevano, sapevano di violare il precetto del yihud
ha-Shem (unità di Dio), secondo cui Dio (ha-Shem) è Uno (ehad), un
precetto che riguarda coloro che sono nati ebrei e non coloro che
sono fuori del popolo di Israele. Secondo alcuni, vi è una
distinzione sottile: i Noachidi [i discendenti di Noè: quegli
individui non-ebrei che, come i cristiani, obbediscono a leggi
morali universali, ndr.] hanno il divieto dell’idolatria, ma non
l’obbligo del monoteismo. E dunque il shittuf (cioè
l’associazione di altre figure divine al Dio unico, come nel caso
di Gesù) può essere da loro praticato senza infrangere il divieto
dell’idolatria, tenuto conto che essi non sono obbligati a
professare il monoteismo.
Con il passare del tempo, soprattutto
nell’Europa del Medioevo, la situazione muterà radicalmente.
Intanto, l’idolatria vera e propria andrà scomparendo e, con
essa, la necessità di combatterla. Cristiani ed islamici saranno i
dominatori dell’Europa (gli islamici sino alla caduta di Granada
nel 1492). Gli ebrei faranno i conti con loro nella duplice veste di
governanti e di uomini di religione. Qual è l’approccio ebraico
nei confronti dei cristiani e del Cristianesimo nel periodo
medievale? Questo approccio risulta mutato o resta invariato
rispetto al periodo talmudico? Si deve distinguere, in linea
generale, fra rabbini residenti in aree ad influenza islamica (sefarditi)
e rabbini residenti nei paesi cristiani (ashkenaziti).
Lo schieramento sefardita è autorevolmente
rappresentato da Maimonide, il quale, rispetto alla posizione
diversificata presente nel Talmud, assumerà un atteggiamento più
radicale e univoco, eliminando la distinzione fra abitanti in terra
di Israele e abitanti fuori da Israele, conferendo ai cristiani
tout-court la qualifica di “idolatri”. Accanto a questa visione
negativa della teologia cristiana, Maimonide esprime tuttavia un
giudizio più moderato e possibilista sul ruolo del Cristianesimo e
dell’Islam nel mondo in prospettiva messianica. Ecco il passo dal
Trattato sui Re, che non compare in tutte le edizioni [del Mishneh
Torah, ndr.] perché nella maggior parte di esse è censurato:
“Comprendere i pensieri del Creatore del mondo non è nella
possibilità dell’uomo, poiché le nostre vie non sono le Sue vie
e i nostri pensieri non sono i Suoi pensieri (Isaia 55,8); tuttavia,
tutte le parole di Gesù di Nazareth e dell’Ismaelita [Maometto]
che sorse dopo di lui sono finalizzate a spianare la strada al
Re-Messia e a preparare il mondo intero a servire Dio insieme, come
è scritto: ‘poiché Io allora trasformerò la lingua dei popoli
in una lingua pura, in modo che invochino tutti il Nome del Signore
e lo servano in un solo blocco [tutti insieme, concordemente]’ (Sof.
3, 9)”. Inserendosi nella linea di pensiero inaugurata da Yehudah
ha-Lewy nel Kuzari, Maimonide fa fare qui al Cristianesimo e
all’Islam, per così dire, un “salto di qualità”: inserisce
le due religioni all’interno di un piano provvidenziale che le
vede protagoniste necessarie di un percorso preparatorio
dell’umanità intera in vista dell’avvento messianico.
Nel mondo cosiddetto ashkenazita, dove emergono
personalità come Rashi, i Tosafisti, e altre autorità rabbiniche
molto autorevoli dell’ambiente franco-tedesco, si sottolinea e si
ribadisce che i cristiani (nei cui paesi gli ebrei vivevano) non
sono idolatri. Possiamo, dunque, cogliere una distinzione piuttosto
marcata fra la valutazione dei cristiani che dà il mondo sefardita
rappresentato da Maimonide e la valutazione che ne danno, in
generale, le massime autorità del mondo ashkenazita europeo.
Secondo queste ultime, i cristiani non sono idolatri, oppure non
conoscono le pratiche idolatriche, oppure – riprendendo quella
nota sentenza di Rabbi Yohanan prima citata [dal trattato Hullin del
Talmud, ndr.] – “non fanno che ripetere le usanze praticate dai
loro padri”, senza alcuna intenzionalità di compiere con ciò una
pratica idolatrica. In questo contesto così delicato, va segnalata
una strana circostanza. Il decisore e giurista Yosef Karo, mentre in
un testo halakhico molto importante (il Tur di Ya‘aqov ben Asher),
afferma esplicitamente che “i cristiani nel tempo presente [siamo
nel XVI secolo] credono nel Creatore del mondo e pertanto non sono
da considerarsi idolatri”, nell’altra sua opera di codificazione
(lo Shulhan Aruk), egli non menziona affatto come norma halakhica
generale questo suo convincimento.
All’interno di questo panorama variegato, un
caso a parte è rappresentato dalla posizione assunta da un celebre
maestro provenzale del XIV secolo, Rabbi Menachem ben Shelomò
ha-Meiri (1249-1315). Egli ritiene che il Cristianesimo non abbia
nulla a che fare con l’idolatria e che i divieti elencati nel
Talmud a proposito degli idolatri non concernano i cristiani. Scrive
infatti: “anche se la loro fede è diversa dalla nostra, essi non
rientrano nella categoria degli idolatri”; e ancora: “essi
credono nell’esistenza di Dio Benedetto, nella sua unicità e
nella sua onnipotenza, anche se in alcuni punti commettono errori
nell’ottica della nostra fede”; e ancora: “nel nostro tempo,
nella maggior parte dei casi, anche se talvolta essi giurano nel
nome di taluni personaggi importanti defunti [i santi], essi
tuttavia non li considerano divinità [e quindi non c’è
idolatria]”. La posizione del Meiri è sicuramente notevole e
autorevole, anche se queste sue conclusioni, che escluderebbero del
tutto che il Cristianesimo possa essere coinvolto in un discorso
idolatrico, appaiono piuttosto isolate.
In un simile contesto tormentato, di posizioni e
pensieri contraddittori, orientati ora verso un giudizio moderato
ora verso un giudizio critico nei confronti della religione
cristiana, l’opinione ambivalente di Maimonide – negativa sul
piano teologico, ma apertamente positiva nella prospettiva
messianica – sembra essere il pronunciamento più chiaro e più
netto sul coinvolgimento del Cristianesimo in un ruolo
provvidenziale di tipo messianico-universale. E quest’opinione
continua a rappresentare una pietra miliare nel cammino che
Cristianesimo ed Ebraismo percorrono insieme, ancorché lungo piani
paralleli e distinti. Forse anche la categoria dei Noachidi, in
parte inadeguata e debole, può ancora essere usata per pensare il
Cristianesimo in termini ebraici e per conciliare concettualmente, e
non solo, le due religioni.
Non dimentichiamo che nel secolo appena
trascorso, nel cuore di un’Europa che alcuni ritenevano
civilissima, è esplosa la Shoah con il suo carico di sofferenza e
di morte; e che l’idea del dialogo è scaturita proprio a seguito
della Shoah. Il dialogo, come dicevo, va avanti e deve essere
sostenuto, perché è un’occasione unica per pensare e parlare
insieme: l’unica strada aperta che entrambi possiamo percorrere
per essere presenti, insieme, quando Dio vorrà. “Le cose nascoste
appartengono al Signore nostro Dio” (Deut. 29,28). Per quanto ci
riguarda, e come ha sottolineato anche il Card. Martini, non
dobbiamo avere fretta; non dobbiamo avere troppe certezze
(personalmente, ho più domande da fare che risposte da offrire);
non dobbiamo essere tentati di “risvegliare l’amore” (Cant. II,
7) prima del tempo. Dobbiamo essere ottimisti, fiduciosi e convinti
per trasporto di fede che, quando giungerà il momento, Dio saprà
aprire i nostri occhi e i nostri cuori, mostrandoci la verità.
Dunque, dobbiamo essere “vivi” e camminare insieme in direzione
di quella meta con sentimenti di amore, di rispetto e di umiltà.