Questo
testo è una versione non rivista di una conferenza data nell’ambito
della serie “La Chiesa Cattolica e l'Ebraismo dal Vaticano II ad
oggi” offerta dal Centro Cardinal Bea presso la Pontificia Università
Gregoriana dal 19 ottobre 2004 al 25 gennaio 2005 in collaborazione
con il SIDIC Roma e con il sostegno dell’American Jewish Committee.
Nella
sua conferenza, Mons. Bruno Forte richiama gli elementi fondamentali
di una teologia cristiana dell’Ebraismo che legga positivamente il
rapporto fra Ebraismo e Cristianesimo, senza lasciarsi tentare da
estremismi esclusivisti (secondo cui il Cristianesimo non avrebbe
niente in comune con l’Ebraismo e farebbe meglio a lasciar cadere il
rapporto con il Primo Testamento) o inclusivisti (secondo cui il
Cristianesimo implicherebbe la sostituzione del piano di Dio a favore
del popolo di Israele con un altro piano di salvezza che prescinde da
Israele).
La
ricchezza dei dati della conferenza di Mons. Forte mostra che il
problema è oltremodo complesso. Probabilmente siamo solo all’inizio
di un ripensamento teologico, che è stato propiziato dal Concilio
Vaticano II. Questo ripensamento si compie solo lentamente, e richiede
tempo soprattutto la sua integrazione da parte delle comunità. Nella
riunione tenuta a Grottaferrata dal 17 al 19 ottobre 2004 tra
rappresentanti della Santa Sede e rappresentanti del Rabbinato
d’Israele si è verificato che “non c’è ancora una coscienza
diffusa nelle nostre rispettive comunità dei cambiamenti epocali
avvenuti nella relazione tra cattolici ed ebrei”. Come ha
riconosciuto di recente il rabbino Rosen, i progressi del dialogo sono
poco conosciuti nella base del mondo ebraico; e questo vale in parte
anche per il mondo cristiano. Perciò si è ritenuto opportuno
dichiarare ancora un volta che “noi non siamo nemici, ma partner non
equivoci nell’articolazione dei valori morali essenziali per la
sopravvivenza e il benessere della società umana”.
Pensando
alla lentezza di questo cammino di ripensamento, viene in mente la
storia dolorosa del passato, quella che Giovanni Paolo II ha
richiamato con senso di pentimento nella Quaresima dell’Anno Santo:
secoli di incomprensioni, di ostracismi, di reciproci malintesi e di
calunnie. È una storia alla quale non si può pensare senza una
profondo senso di dolore e umiliazione, a mano a mano che ci si rende
conto di quanto non pochi cristiani abbiano agito, in questo campo,
contrariamente al Vangelo e abbiano perciò offuscato la verità e
l’amore che dovrebbe sempre irradiare dalla Chiesa di Cristo. Oggi
le cose stanno cambiando, ma occorre tempo ed energia, anche perché
nuovi fatti storici nel tempo presente danno l’occasione al baco
antisemita di riprodursi con teorie e giudizi negativi.
In
questo quadro vorrei tentare di rispondere alla domanda: come può una
Chiesa locale, tenendo conto dei pregiudizi ancora esistenti, aiutare
la gente a superarli e creare un clima di convivialità, di rispetto e
di stima, che sia terreno di coltura per un sano approfondimento
teologico?
Non
si tratta, infatti, soltanto di discutere fra specialisti del rapporto
tra ebrei e cristiani, ma piuttosto di trovare dei punti di
riferimento per un cammino di Chiesa, e per un dialogo tra popolo
cristiano e popolo ebraico, che faccia da sfondo agli sforzi dei
teologi e degli esegeti. La posta in gioco non è semplicemente la
maggiore o minore vitalità di un dialogo ad alto livello. Si tratta,
da parte cristiana, di risuscitare nei fedeli la coscienza del loro
legame con i figli di Abramo, con le conseguenze che ne derivano per
la dottrina, la disciplina, la liturgia, la vita spirituale della
Chiesa e per la sua missione nel mondo d’oggi. È necessario che la
Chiesa si autocomprenda nella sua natura e missione in relazione al
popolo ebraico. E ciò richiede innanzitutto l’attenzione a ciò che
il popolo ebraico pensa e dice di se stesso.
Nell’indicare
alcuni elementi che possono aiutare nello sviluppo di questa
comprensione, non posso non fare riferimento alla mia più che
ventennale esperienza di arcivescovo di Milano, durante la quale si
sono avute numerose occasioni di incontro con membri della comunità
ebraica. Ciò è stato anche merito del rabbino capo Prof. Laras, che
ricordo con molta cordialità e gratitudine. Grazie a tali iniziative
si è creato gradualmente un clima sempre più fraterno e aperto, con
attenzione reciproca e sincero desiderio di mutua stima e conoscenza.
1.
La mia esperienza mi dice appunto che è possibile intraprendere un
cammino di amicizia e di riconciliazione, e che per questo sono
necessarie almeno quattro premesse.
Primo:
i cristiani devono conoscere non soltanto il Nuovo Testamento, ma
anche i testi del Primo Testamento e debbono saperli interpretare alla
luce del Vangelo, così da vedere la continuità tra le cose
raccontate, promesse e previste nella Bibbia ebraica e gli eventi
della Chiesa cristiana. È chiaro che questa lettura è tipicamente
cristiana. Tuttavia essa aiuta a valorizzare il contenuto delle pagine
del Primo Testamento e a stabilire una continuità, ponendo le basi
per un approfondimento del dialogo.
Secondo: occorre una conoscenza dell’Ebraismo post biblico, che fino
a ieri mancava quasi del tutto nella Chiesa cattolica. È necessario
per questo – l’ho affermato più volte in questi anni – non solo
conoscere i libri e le tradizioni che dopo la distruzione del Tempio
hanno continuato a far vivere una speranza ebraica, ma anche allargare
i propri orizzonti all’intera storia, alle consuetudini, ai talenti
artistici, scientifici, letterari, musicali del popolo ebraico.
Occorre, in sintesi, stimare e amare questo popolo. Non basta un
semplice anti-antisemitismo. Bisogna dare motivazioni a un’amicizia
che sempre più legga nel cuore dell’altro i pensieri comuni e trovi
uno spazio per le differenze, senza che esse producano conflitto o
emarginazione. A tale scopo saranno necessarie molte iniziative
culturali. Anzitutto, nella formazione dei futuri sacerdoti, occorrerà
insistere sulla conoscenza dell’Ebraismo biblico e post biblico.
Negli ultimi anni si è fatto un certo progresso in questo campo, ma
ancora molto resta da fare, anche perché sono pochi coloro che finora
hanno ricevuto questa nuova formazione.
Terzo:
è necessario mettersi insieme per realizzare iniziative concrete di
carità, di servizio, di giustizia e di pace. L’etica cristiana e
l’etica ebraica sono in gran parte identiche e tendono agli stessi
obiettivi. Proprio per questo è possibile che ebrei e cristiani
lavorino insieme in molti campi e si creino così quelle condizioni di
mutua fiducia che sono la strada maestra per un dialogo
interreligioso, interculturale e anche politico.
Quarto:
là dove vi sono dei conflitti, come attualmente tra israeliani e
palestinesi, bisogna stare in mezzo e operare perché cessino tutte le
violenze e ciascuno impari a comprendere anche il dolore dell’altro.
Per questo ho scelto di vivere gran parte del mio tempo a Gerusalemme
e mi sono proposto come priorità la preghiera di intercessione (nel
senso etimologico della parola: inter-cedere, camminare in mezzo,
senza dare patenti di ragione o di torto a destra o a sinistra,
camminare in mezzo in preghiera). Una preghiera di intercessione perché
i popoli del Medio Oriente, e in particolare ebrei e palestinesi,
trovino le strade della mutua fiducia e del dialogo. Quando mi si dice
che questa preghiera non è esaudita, perché non si vede ancora la
pace, io rispondo: non è vero. Ci sono a Gerusalemme molte iniziative
di dialogo, di incontro, di ascolto. Gerusalemme non è solo città
del conflitto, come appare dai mass media, ma anche città
dell’amore e della preghiera.
Mi
ha molto colpito, per esempio, l’incontro con un’associazione di
famiglie palestinesi ed ebraiche, ciascuna delle quali ha avuto un
parente ucciso nella guerra o a causa del terrorismo. Queste famiglie
si trovano regolarmente insieme per comprendere le une il dolore delle
altre e per proporre iniziative di dialogo, di riconciliazione e di
pace. Mi pare che tutto sia nato dalla madre di una bambina ebrea che
anelava alla pace e che già all’età di quattordici anni
partecipava a manifestazioni per la pace. A sedici anni, la bambina
venne uccisa da un terrorista. La madre, sconvolta, sentì che non
doveva chiudersi in se stessa, nella disperazione e nel desiderio di
vendetta. Essa si mise a cercare e a visitare le famiglie di coloro
che avevano avuto una simile tragedia in casa, ebrei e arabi. Si sono
così costituiti gruppi di incontro, che godono di grande credibilità
presso le altre famiglie perché portano con sofferenza e dignità un
dolore grande e ne fanno motivo per un superamento dei conflitti.
Questo gruppo è riuscito a far parlare tra loro un gran numero di
ebrei e arabi, offrendo la possibilità di mettersi in contatto
telefonico. Sono state così promosse migliaia e migliaia di
telefonate tra membri dei due popoli. Ho portato questo esempio per
dire che la creatività per superare il muro dell’odio è senza
limiti, e riesce a compiere cose mirabili.
2. Perché un
cammino del genere sia possibile, occorre procedere per tappe
La prima tappa è quella della preghiera. Siamo consapevoli che, nel
dramma della storia, l’uomo non è solo. Dimensioni insospettate di
fede, di amore e di speranza si aprono sia per l’ebreo che per il
cristiano. Per l’ebreo ogni momento o condizione di vita è una
possibilità di adorare il nome dell’Altissimo, di rendere
testimonianza al suo Nome Santo. A questo contribuiscono in
particolare le feste che ritornano nei diversi periodi dell’anno, a
partire dalla Pasqua. È perciò necessario che i cristiani
comprendano questo costante atteggiamento ebraico di adorazione del
Nome di Dio. Per vivificare le nostre eucaristie, per celebrare la
nostra liturgia con tutti i suoi preziosi valori, noi cristiani
dovremmo abituarci sempre più a capire le preghiere e la spiritualità
degli ebrei.
La seconda tappa è la conversione dei cuore, in ebraico teshuvah. Per
l’ebreo, ogni giorno è fatto per la teshuvah del singolo e della
comunità. Anche per noi, ogni giorno dovrebbe essere il momento per
cominciare a chiedere, a Dio e ai nostri fratelli, di accettare il
nostro dolore per il male che abbiamo fatto e per il bene che ci siamo
dimenticati di compiere. Curviamoci sul fratello ebreo, sulla storia
delle sue sofferenze, del suo martirio, delle persecuzioni che ha
subito. Rimuoviamo le interpretazioni tendenziose di passi contenuti
nel Nuovo Testamento e in altri scritti. Dissipiamo le incomprensioni
che ancora ci rendono diffidenti riguardo alla buona volontà
reciproca. In realtà noi tutti desideriamo ardentemente la stessa
cosa: essere autentici, essere fedeli alla verità conosciuta.
La terza tappa è
quella dello studio e conseguentemente del dialogo. Per cercare la
verità, l’umanità costruisce scuole, centri scientifici e
universitari. L’Ebraismo ha elaborato in passato la riflessione
talmudica con tutte le successive trattazioni. Oggi ha moltiplicato
gli istituti di ricerca e di dialogo, che sono fiorenti sia a
Gerusalemme sia in molte altre parti del mondo. La Chiesa non può
ignorare i risultati di questa elaborazione, così come sono
presentati nei testi religiosi, giuridici, filosofici della
letteratura ebraica post-biblica. Il Pontificio Istituto Biblico di
Roma ha ormai da anni un rapporto organico con l’Università Ebraica
di Gerusalemme, per dare ai nostri studenti, futuri professori di
Scrittura, la possibilità di frequentare almeno per un semestre
un’istituzione prestigiosa di studi ebraici. Finora circa mille
studenti, oggi docenti nei seminari di tutto il mondo, hanno tratto
profitto da questo soggiorno. Sono convinto che la profonda
penetrazione all’interno dell’Ebraismo e delle sue correnti sia
vitale per la Chiesa, non soltanto per superare un’ignoranza vecchia
di secoli e per avviare un dialogo fruttuoso, ma pure per approfondire
l’interpretazione di sé come Chiesa.
In particolare, vorrei
sottolineare l’importanza che avrebbe, per la teologia della prassi
cristiana, lo studio dei problemi che derivarono dall’interruzione
del contributo che la teologia e la prassi dei giudeo-cristiani stava
dando alla primitiva comunità cristiana. Infatti, il primo grande
scisma, quello fra ebrei e cristiani, privò la Chiesa dell’aiuto
che le sarebbe venuto dalla tradizione ebraica. Mi limito a citare tre
conseguenze di questo mancato apporto. In primo luogo, la difficoltà
(tuttora evidente) della prassi cristiana a focalizzare il corretto
atteggiamento dei singoli e delle comunità nei confronti del potere
tecnico, economico e politico di questo mondo. In secondo luogo, la
difficoltà della prassi cristiana a trovare il giusto atteggiamento
nei confronti del corpo, del sesso, della famiglia. Infine, la
difficoltà della spiritualità cristiana a individuare il legame
autentico tra la speranza escatologica messianica e le speranze e le
aspettative degli individui e delle comunità, in relazione alla
giustizia, ai diritti umani e così via. Le discussioni senza fine
sulle applicazioni pratiche e sugli atteggiamenti in questi settori
(basti pensare alle leggi sulla fecondazione artificiale e sull’uso
degli embrioni per la ricerca) hanno le loro radici in quella ferita
non guarita del primo scisma. Possiamo allora comprendere perché,
nella Lettera ai Romani, San Paolo affermava che la ricomposizione
dell’unità fra la tradizione ebraica e quella cristiana sarà
“una risurrezione dai morti” (Rm. 11,15).
La quarta tappa è un
dialogo universale e aperto a tutti. Ebraismo e Chiese cristiane non
possono fermarsi a un dialogo che esclude altri interlocutori. Questo
rapporto, per sua natura, deve essere anzitutto aperto all’Islam,
per le comuni radici cristiane (storiche, culturali, religiose) e per
la comune discendenza da Abramo. Qui non possiamo aspettarci risultati
a breve termine o vantaggi strategici preferenziali: al contrario,
bisogna cominciare a proporre valori comuni, per scoprire obiettivi e
strumenti di dialogo, sapendo di rendere così un servizio
all’intera umanità.
In questo dialogo ha un’importanza fondamentale la città di
Gerusalemme. In una sua lettera apostolica su questo tema, Giovanni
Paolo II ha dichiarato: “noi dobbiamo invocare la desiderata
sicurezza, la giusta pace per il popolo ebraico, mentre d’altra
parte il popolo palestinese ha il diritto naturale, secondo giustizia
[…], di poter vivere in pace e in serenità con gli altri popoli
della regione”.
Il Santo Padre ha sottolineato che “la città santa di Gerusalemme,
così cara a ebrei, cristiani e musulmani si eleva come un simbolo di
incontro, di unione e di pace per l’intera famiglia umana” e ha
invocato che “con buona volontà e larghezza di vedute sia trovato
un modo giusto ed efficace affinché differenti interessi e
aspirazioni possano essere messi insieme in una forma armoniosa e
ferma”.
I rabbini e i membri
della Commissione della Santa Sede nel loro recente raduno di ottobre
hanno dichiarato tra l’altro, riferendosi a qualche episodio
recente, che “Gerusalemme ha un carattere sacro per tutti i figli di
Abramo. Noi facciamo appello a tutte le competenti autorità per il
rispetto di questo carattere e per la prevenzione di azioni che
offendano le sensibilità delle comunità religiose che risiedono in
Gerusalemme e hanno a cuore questa città. Chiediamo anche alla
autorità religiose di protestare quando azioni irrispettose vengono
compiute verso persone religiose, simboli e luoghi santi. [...]
Facciamo appello per una educazione di queste comunità religiose
affinché tutti si comportino con rispetto e dignità riguardo alle
persone e al loro attaccamento ad altre fedi”.
L’Ebraismo offre in
tale contesto molti esempi di apertura al dialogo, non solo con
l’Islam ma pure con altre religioni, così come con la scienza e la
filosofia. Tra i cristiani, a proposito di questo dialogo, ricordiamo
i nomi di Louis Massignon e di Charles de Foucauld, e, più di
recente, di Giorgio La Pira, di Monsignor Rossano, del Cardinale
Willebrands e del Cardinale Bea.
La quinta tappa è
quella delle iniziative a livello di studio e di formazione
scolastica. L’approccio alla religiosità e alla cultura ebraica può
essere coltivato su tanti piani diversi. Sul piano dell’indagine
scientifica, promuovendo incontri e ricerche, e coordinando ciò che
già esiste; nelle scuole, usando le possibilità previste dalle leggi
scolastiche e rivedendo i libri di testo. Si possono poi programmare
corsi di aggiornamento per il clero e i catechisti e istituire corsi
nei seminari e nelle diocesi.
Se le tappe precedenti
verranno percorse progressivamente, sarà più facile affrontare anche
l’ultima tappa, quella della creazione di punti di incontro e luoghi
di collaborazione sociale, politica e culturale. Possiamo così
sperare che, nel promuovere e nel difendere la vita e la libertà di
tutti gli uomini, ebrei e cristiani si troveranno più spesso di un
tempo gli uni accanto agli altri, per il comune impulso religioso e
per le stesse ragioni etiche e ideali. La dichiarazione dei vescovi e
dei rabbini sopra citata ricorda che l’insegnamento biblico richiede
che il traguardo della giustizia (tzedek u-mishpat) venga perseguito
attraverso le vie della beneficenza e della compassione (hesed
we-rahamim): ciò domanda lo sforzo di andare oltre la lettera della
Legge (lifnim mi-shurat ha-din) per il bene della società nel suo
insieme. Perciò il Comitato chiede che sia data speciale attenzione
alle sfide della povertà, della malattia e dell’emarginazione; di
combattere la distribuzione non equa delle risorse e una
globalizzazione senza solidarietà umana; di operare per la
risoluzione pacifica dei conflitti, sottolineando le nostre
responsabilità di fronte allo spettro del terrorismo in tutte le sue
manifestazioni.
3. Che cosa ci aspetta
come risultato di questo percorso? Proporre alcuni obiettivi comuni a
lunga scadenza potrebbe apparire presuntuoso se non facessimo
affidamento sullo Spirito di Dio, che fin dall’inizio ha aleggiato
sulle acque primordiali. È Lui che invochiamo in ogni tempo: “Manda
il tuo Spirito, Signore, e rinnova la faccia della terra” (Sal.
104,30).
Un primo obiettivo
comune sarà di essere testimoni in tutto il mondo dell’amore del
Padre, del fatto che tutti gli uomini sono ugualmente oggetto
dell’amore di Dio. In questa testimonianza reciproca siamo dunque
uniti, come da una meta che tutti ci attira.
Se noi cristiani
crediamo di essere in continuità e in comunione con i patriarchi, i
profeti, con gli esuli di Babilonia e con i martiri maccabei, è
necessario che questa comunione si realizzi in tutti i modi possibili
anche nei riguardi degli ebrei che a Yavne hanno codificato la Mishnah
e a Babilonia il Talmud, che furono perseguitati dai crociati e
processati per l’omicidio rituale. Andando oltre tutti questi eventi
ed errori del passato dobbiamo tendere al tempo in cui saremo un unico
popolo, che il Signore benedirà dicendo: “Benedetto sia l’Egitto
mio popolo, la Siria opera delle mie mani, Israele mia eredità”.
Un secondo obiettivo
comune per ebrei e cristiani viene dal fatto che entrambi sono
chiamati a svolgere un servizio nei riguardi di tutta l’umanità, un
servizio allo stesso progetto di alleanza. Questo servizio costituisce
un ministero in qualche modo sacerdotale, una missione che può unirci
senza confonderci, fino a quando verrà il Messia, che noi tutti
invochiamo con le parole: Marana tha.
Se vogliamo tentare di
descrivere questo ministero sacerdotale di Israele e della Chiesa,
possiamo usare la categoria del “fare santo il Suo nome”, cioè di
rendere presente la santità di Dio in noi stessi, nelle famiglie,
nella società, nella creazione. L’Ebraismo ha sviluppato
un’attenta riflessione sui precetti che santificano ogni momento
della vita e sull’intenzione del cuore che ne costituisce l’anima
vivificante.
Tra i molti campi di
confronto, possiamo sottolineare la difesa e protezione della vita
umana in ogni suo momento, dalla nascita alla morte; l’impegno di
volontariato sociale; le diverse forme di non violenza; l’aiuto alle
popolazioni in stato di grave necessità; l’assistenza ai malati e
ai drogati; l’educazione dei giovani; la promozione artistica,
culturale e scientifica. In tutti questi sforzi siamo guidati dal
desiderio fondamentale di promuovere la pace nella giustizia. Una pace
– ha ricordato Giovanni Paolo II ai rappresentanti della federazione
israelitica svizzera a Friburgo – fondata sulla giustizia, sul
rispetto dei diritti di ciascuno, sull’eliminazione delle cause di
inimicizia, cominciando da quelle che sono nascoste nel cuore
dell’uomo.
Se la Chiesa cristiana
si sente chiamata ad essere coscienza critica, specialmente in Europa,
non può non trovare al suo fianco, in questa missione, la forza della
dottrina religiosa ed etica dell’Ebraismo. Se la Chiesa desidera
essere ovunque promotrice del dialogo della pace, luogo di incontro
universale dei popoli, nel nome di Cristo in cui tutte le cose
verranno ricapitolate, allora è proprio nei confronti dell’Ebraismo
che questo dialogo e questa pace devono essere innanzitutto promossi.
Quanto più intensamente e profondamente ebrei e cristiani, nel
rispetto della diversità dei contenuti specifici delle fedi,
attueranno questa collaborazione fraterna, tanto più la loro presenza
avrà un significato per l’Europa del terzo millennio e per il
compito che l’Europa ha di fronte al resto del mondo.