sempre
su "Avvenire" ...da Agorà -
Mercoledi 15 Marzo 2000
|
INTERVENTO:
Le motivazioni profonde della febbre di cose giudaiche in casa cattolica. Con qualche rischio.
Ebrei e cristiani: oltre gli abbracci resta il conflitto
Massimo Giuliani
Un fenomeno come la (ri)scoperta
del giudaismo da parte di molti cattolici (cui fa eco la popolarità della
cultura ebraica nella più vasta società italiana: vedi l'articolo di Avvenire
del 3 marzo su «Ebrei, dialogo o moda?»), prima di essere giudicato, va
capito.
Prima di vedere se «fa bene», o se «è rischioso», o
addirittura se «è pericoloso», dovremmo analizzarne la portata, le
radici e le modalità. Istintivamente si percepisce che qui, moda o no, il
discorso è delicato, e che spesso le precomprensioni più che teologiche
sono psicologiche. La posta in gioco, pur muovendo da un livello emotivo,
giunge a toccare il nocciolo dell'identità della fede cristiana. Se anche
si trattasse di una moda, questa sarebbe solo un «epifenomeno» sotto il
quale si muove qualcos'altro, che viene ritenuto una benedizione o un
rischio a seconda, appunto, delle nostre precomprensioni. Per onestà
intellettuale, confesserò subito le mie, di precomprensioni, così da
togliere il sospetto che chi scrive voglia restare neutrale. Sette anni fa decisi di lasciare l'Italia per andare a vivere in
Israele, per studiare l'ebraico, per approfondire il giudaismo, per
toccare con mano il miracolo di un popolo che torna nella terra delle
proprie origini dopo duemila anni di diaspora e fa fiorire il deserto. Ci
sono andato sapendo che questo popolo non è come tutti gli altri. Sono
andato a vivere in Israele sapendo che il suo destino si incrocia con il
destino del cristianesimo non solo come luogo storico del sorgere della
Chiesa, ma anche e soprattutto come luogo ermeneutico della coscienza
delle Chiese (al plurale). Ero convinto e lo sono tuttora, cioè, che le
Chiese hanno bisogno di Israele per avere una piena coscienza di sé,
della propria missione nel mondo e dei limiti di questa missione. Mi sono gettato in quest'esperienza senza sentimenti di colpa, né
di inferiorità verso il giudaismo, ma ne ero - questo sì - affascinato.
Non so se questo si chiama «giudaizzare». Si trattava per me di
conoscere un'alterità che era sempre stata lì, accanto se non dentro la
fede cristiana, senza che io ne potessi capire adeguatamente il
significato. Capivo però che l'interpretazione cristiana del giudaismo
non mi bastava. Volevo ascoltare l'interpretazione ebraica del giudaismo.
Entrare nell'esegesi dei testi ebraici attraverso commenti ebraici. Non da
ultimo, volevo capire come fossero stati possibili venti secoli di
antigiudaismo cristiano e perché il mistero della Chiesa fosse
inscindibilmente connesso con il mistero del popolo d'Israele. Se lo erano
già chiesto Jacques Maritain, Leon Bloy, Aime Palleire da una parte, ma
lo avevano indagato anche Elia Benamozegh, Julie Isaac, Leo Baeck, Franz
Rosenzweig dall'altra. Prima di Nostra
Aetate. Molto prima dell'incontro tra il rabbino Toaff e Giovanni
Paolo II nella sinagoga di Roma.
Quella che sembra una «moda» è il venire in superficie di un
bisogno e di un disagio più profondi. Più profondi delle stesse
richieste di perdono da parte della Chiesa, delle polemiche su Pio XII,
delle paure che la «continuità teologica» tra giudaismo e cristianesimo
offuschi la «discontinuità cristologica» che separa e oppone le due
religioni. È il bisogno, per i cristiani, di capire le conseguenze della
piena accettazione della stessa verità cristiana, quando rivela loro che
la «salvezza viene dai giudei». Ed è il disagio di guardare negli occhi
gli ebrei senza credersi il loro compimento, loro la premessa e noi la
conclusione, loro la preparazione e noi la realizzazione.
Se per la società italiana ed europea la cultura ebraica significa
una delle radici della civilizzazione occidentale, per le Chiese cristiane
il giudaismo sopravvissuto alla Shoà riflette un problema, un nodo
irrisolto sia interno che esterno all'identità cristiana. Per questo
molti avvertono l'apertura al giudaismo come una minaccia. E forse hanno
qualche ragione: il rapporto teologico con il giudaismo non è un capitolo
chiuso per le Chiese. Anzi, si apre solo adesso che la memoria è
purificata dal peccato di anti-giudaismo. Adesso che il conflitto tra le
due religioni può essere assunto e articolato, riconosciuto e
reinterpretato. Perché il conflitto c'è, è quel che fa la differenza
tra Israele e le genti, anche quelle genti che guardano a Israele
attraverso gli occhi di un «testamento nuovo». Il conflitto teologico
tra Israele e le Chiese resta, oltre gli abbracci e le richieste
(doverose) di perdono, oltre la teshuvà
(necessaria) da parte dei cristiani. Si tratta di un conflitto
strutturale, che può cessare di essere motivo di sofferenza e può
trasformarsi in fonte di benedizione per il mondo. Pensare come ciò possa
avvenire è il compito a cui le generazioni del dopo-Shoà non possono
sottrarsi.
Non si tratta infatti di abolire il conflitto, ma di riconoscersi
nel conflitto, riconoscersi cioè vincolati per vie diverse a una fedeltà
di pari valore agli occhi di Dio, chiamati a servire l'unico Dio «spalla
a spalla» eseguendo ciascuno un diverso testamento a favore del mondo.
Perché in questo le due spalle si toccano: nel servire quel Dio che, come
ricorda Rosenzweig, «ha creato il mondo, non le religioni».
Se un rischio c'è, in questa febbre di cose ebraiche, è che
ancora una volta si tratti di una forma di «appropriazione» da parte
cristiana, inevitabilmente destinata a diventare «espropriazione. È come
se si dicesse: in fondo, noi cristiani siamo o non siamo i veri ebrei? No,
non lo siamo, siamo un'altra cosa, connessa ma diversa, e non abbiamo
diritto a riscoprire il giudaismo e gli ebrei a nostro uso e consumo. Il
ritorno alla «radice santa» che porta la fede monoteista delle genti,
cristiane e musulmane, parla, deve parlare il linguaggio tutt'altro che
romantico dell'ascolto, della
responsabilità e del debito, perché senza l'altro come insegna Levinas,
noi non esistiamo.
|