Ci sembra importante proporre all'attenzione dei nostri visitatori l'articolo che segue, apparso su "Avvenire" del 3 marzo scorso, perché coglie sul vivo una problematica che noi sentiamo attuale. Esso si ispira a criteri di equilibrio, consapevolezza ed autentico approfondimento, che condividiamo, mentre respinge atteggiamenti e comportamenti di superficiale pressappochismo. Proprio in questa ottica, nelle conclusioni, viene citato anche un intervento del nostro gruppo, che richiama esplicitamente a non correre il rischio di impadronirsi di segni che non ci appartengono, ma che tuttavia illuminano e ci introducono nell'habitat culturale e spirituale da cui ha avuto origine la nostra fede, mentre esorta a preoccuparsi piuttosto di approfondire con rispetto e serietà i contenuti di un rapporto che non è assimilazione e tanto meno sostituzione. Se vorrete condividere con noi pensieri ed esperienze, scriveteci: debarim@tiscalinet.it


Da "Avvenire" del 3 marzo 2000
DIBATTITO
Libri, oggetti e riti giudaici sempre più «adottati» dai cattolici; con qualche rischio

Roberto Beretta

Ebrei, dialogo o moda?

Messori: troppa enfasi sull'Antico Testamento 
Don Fumagalli: cercare le radici senza uccidere la pianta; 
Stefani: non celebrate il séder in sacrestia
Rabbini invitati a parlare dal pulpito, «menorah» poste sull'altare, salmi detti in lingua... Nella Chiesa una «nouvelle vague» semitizzante?

Ma i «fratelli maggiori» non ci stanno: «Cristiani, giù le mani da Israele»


Da "Avvenire" del 15 marzo 2000
INTERVENTO: Le motivazioni profonde della febbre di cose giudaiche in casa cattolica. Con qualche rischio.

Ebrei e cristiani: oltre gli abbracci resta il conflitto  Massimo Giuliani


 

Ebrei, dialogo o moda?


E i «fratelli maggiori» si presero la rivincita, con tanto d'interessi. C'è voluto qualche secolo, sì, ma - dopo una storia condita di «improperi» del Venerdì santo, accuse di deicidio e persino antisemitismo «cristiano» - la legge del pendolo sembra segnare in casa cattolica l'ora del più pieno riscatto ebraico. Ovvero la scoperta totalizzante e persino un po' naif delle «radici giudaiche» del cristianesimo.
Libri, oggetti, riti di origine ebrea entrano ormai direttamente nelle chiese, o almeno nelle canoniche; i rabbini sono gettonatissimi nei centri culturali cristiani; e ogni credente «aggiornato» frequenta almeno un corso di lingua biblica. Tanto da chiedersi se non stia nascendo, nelle élites cattoliche più intellettuali, una nouvelle vague semitizzante; con aspetti meritori, non c'è dubbio, ma anche sottili controindicazioni.
Qualche caso spicciolo. Milano, Centro San Fedele (gestito dei Gesuiti): ogni mese, durante una conferenza «a due voci» (i relatori sono un cristiano e un rabbino), si pregano i salmi in ebraico; e l'iniziativa ha tanto successo che spesso il pubblico non trova posto in sala, mentre già si pensa di replicare l'anno prossimo. Sempre a Milano, l'editrice Àncora ha inaugurato uno spazio Judaica in una libreria, dedicandolo solo al dialogo con l'ebraismo; affollatissimi, anche qui, i corsi di lingua. Un'altra casa cattolica, la Gribaudi, ha messo sul mercato le audiocassette dei salmi in lingua originale. Ma in ogni parte dello Stivale chiese, conventi e cappelle adottano suppellettili prettamente ebraiche come la menorah (il candelabro a 7 bracci) o la kippah (il copricapo rituale degli ebrei osservanti), mentre i parroci hanno imparato a citare con disinvoltura talmud e midrash e i teologi - loro - ormai in qualunque articoletto al posto del nome di Dio inseriscono l'impronunciabile tetragramma sacro JHWH.
Ma che cos'è: moda? Senso di colpa? Volontà sincera di dialogo? Recupero del tempo perduto? O solo politically correct? Il discorso è molto spinoso, si sa: l'accusa di antisemitismo occhieggia da dietro l'angolo ed è pesante da sostenere. Però qui non si tratta di censurare la reciproca riscoperta di ricchezze tra figli di Abramo, ci mancherebbe; bensì di valutare l'ondata di epigoni ed imitatori un po' acritici che questa pur legittima tendenza ha suscitato. E che non può non generare qualche domanda. L'allarme - del resto - è stato lanciato da un insospettabile come il teologo ortodosso Olivier Clément. Che nell'editoria cattolica francese ha notato un eccesso di produzione "giudaica" ed ha denunciato un complesso di inferiorità nei confronti del mondo semita: «Con l'ebraismo è in corso una vera sfida spirituale. Molti cristiani occidentali sono diventati spiritualmente degli ebrei; ormai non si studia più il greco patristico, bensì l'ebraico. L'espressione "fratelli maggiori" è bella, ma per noi ciò che conta alla fine è Cristo».
Parole esplicite. Vittorio Messori è d'accordo? Lo scrittore accetta la provocazione: «È ovvio, persino banale, dire anzitutto che noi cristiani non dobbiamo dimenticare mai un fatto: Gesù era ebreo e lo è per sempre. Pio XI diceva che siamo tutti spiritualmente dei semiti e abbiamo comunque bisogno di mantenere l'equilibrio tra Antico e Nuovo Testamento. Detto questo, però, è proprio quest'equilibrio che mi sembra essersi rotto. Certo, nel passato si dimenticava la Bibbia; adesso si sta passando all'eccesso opposto di enfatizzare solo l'Antico Testamento. Ed è abbastanza rattristante e anche un po' buffo osservare come il cattolicesimo cerchi in ciò di scimmiottare - in ritardo - la Riforma». In che senso, scusi? «Io, sotto questa moda per l'ebraismo, vedo un problema teologico: si vuol passare cioè dalla cristologia alla teologia; "Basta con Cristo - si dice -, e torniamo a Dio". Ecco: stiamo riscoprendo il monoteismo ebraico, magari non abbandonando Gesù ma certo declassandolo da Dio a profeta: e ciò risponde al bisogno di normalizzare lo "scandalo" e la follia cristiana di rendere uomo Dio».
Tutto questo per aver recitato qualche salmo in ebraico? «Le nostre radici sono indubbiamente in Israele, ma si rischia di dimenticare che il Dio rivelatoci da Cristo non è affatto quello ebraico; anzi, quel Dio scandalizza un ebreo osservante. Mettere continuamente ebraismo (e islamismo) accanto al cristianesimo mi pare dunque gravemente abusivo: il nostro non è affatto un monoteismo come gli altri; ed è proprio il Nuovo Testamento che ci impedisce di essere rimasti una setta ebraica. Come sempre, è Gesù a far problema; e lo si vuol demitizzare anche enfatizzando il suo contesto».
Però don Pier Francesco Fumagalli, consultore della Santa Sede per i rapporti con l'ebraismo, preferisce sfumare: «Io distinguerei il livello della moda da quello più profondamente culturale. Dopo il Concilio c'è stata una critica all'ellenizzazione del cristianesimo, perciò è naturale e positivo che la teologia contemporanea si sia rivolta alle radici giudaiche. Quanto all'uso delle celebrazioni ebraiche in ambienti cristiani, sì, anch'io lo trovo un fenomeno un po' banale; mi risulta anzi che qualche curia abbia già diramato chiari inviti a non celebrare i séder (la Pasqua ebraica) nelle parrocchie, per esempio; bisogna far attenzione a non scimmiottare e a rispettare le cose per quello che sono. Altrimenti succede di leggere la Bibbia in ebraico storpiando però le parole, oppure di vedere le mezuzà (i filatteri dei versetti biblici) fuori da una sinagoga e di appenderli tranquillamente alla porta delle chiese, come un bell'accessorio...». Dunque i rischi esistono. «Ma rischio per la fede c'era anche nell'ellenizzazione, che pure è durata 15 secoli. Certo, qualcuno può correre il pericolo - a furia di voler vedere meglio le famose "radici ebraiche" - di togliere tutta la terra e di far morire in se stesso la pianta del cristianesimo. Ma è un rischio limite: se tutto viene mantenuto in una dimensione sana ed equilibrata, il contatto tra ebraismo e cattolicesimo giova a tutti».
Già: ma il problema è appunto il modo. Che ne pensa Piero Stefani, studioso di ebraismo? «Il fenomeno è complesso. È vero che esistono prestiti cristiani molto emozionali dall'ebraismo, soprattutto in certi movimenti ecclesiali anche di matrice diversa tra loro; penso soprattutto alla "copia cristiana" della cena pasquale ebraica, che mi sembra una riscoperta ingenua o almeno ambivalente del presunto Gesù storico. Però c'è anche l'aspetto editoriale: molte case cattoliche italiane, quasi tutte, pubblicano testi di commento biblico tradizionale ebraico (Midrash, eccetera) più ancora e meglio delle stesse editrici ebraiche o laiche; e questo è senz'altro un dato positivo, perché curatori e pubblico hanno modo di valorizzare la tradizione rabbinica anche oltre la Bibbia».
Ma, se stampano tanto, significa che tra i cattolici c'è mercato: è solo moda? «No, ci vedo anche un'idea di libertà, di recupero delle radici della fede ma fuori dalla trasmissione catechetica ufficiale. Il commento rabbinico, del resto, è molto libero, teorizza una soluzione e insieme il suo contrario, e questo attrae molti». Al solito: una religione fai-da-te e senza Chiesa... «Non ridurrei il fenomeno in questi termini: qui i cristiani non cercano un altrove qualunque, ma piuttosto la radice della propria identità». Ma lei, da esperto di ebraismo, che cosa sconsiglierebbe assolutamente ai cattolici in questo campo? «Di mimare i riti ebraici, ovvero - come diceva san Paolo - di fare i "giudaizzanti". Di pensare d'essere più cristiani perché si imita qualcosa di ebraico. La celebrazione del séder, per esempio, non è affatto opportuna, tanto meno collegandola all'eucarestia, e così gli usi para-liturgici dei candelabri; persino i Salmi in ebraico a mio parere espongono al rischio di "coranizzare" la Bibbia: di per sé la preghiera non è più compiuta perché ripete il suono ebraico. Insomma: studiare è sempre legittimo, cercare di praticare è assai sconsigliabile».


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Ma i «fratelli maggiori» non ci stanno: 
«Cristiani, giù le mani da Israele»


Ma il paradosso è che neppure gli ebrei sono contenti dell'entusiastica «riscoperta» del loro patrimonio da parte dei cattolici. Un interesse che - secondo alcuni di loro - rischia di trasformarsi in un'indebita annessione.
Nel 1998, ad esempio, il bollettino del Comitato italiano dei «Cristiani contro l'antisemitismo» stigmatizzava come «improprio» e addirittura come «gratuita provocazione» l'uso della «vocalizzazione del tetragramma sacro JHWH» fatta da «diversi gruppi ecclesiali sia nelle omelie, sia nelle preghiere e nei canti»; e proseguiva: «Un uso simile (del resto sulla linea dell'utilizzo disinvolto del candelabro a nove bracci, del corno d'ariete, eccetera) manifesta chiaramente come ci si possa impadronire di segni che non ci appartengono, anziché preoccuparsi di approfondire con rispetto e serietà i contenuti di un rapporto che non è assimilazione e tanto meno sostituzione».
Sullo stesso tema la rivista Missioni Consolata aveva dovuto sostenere nel febbraio di due anni fa una polemica con alcuni lettori. Si contestava duramente ai redattori del periodico la «traslitterazione del nome di Dio con le vocali (Jahvé)», che è inesatta e offensiva per gli ebrei. Molto più recentemente, in Francia, il mensile ebraico L'Arche ha accusato di «antisemitismo cristiano» un messale cattolico perché - tra l'altro - usa l'espressione «nuovo Israele» per definire la Chiesa, come sottintendendo una superiorità cristiana sul «vecchio» popolo dell'Alleanza.

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sempre su "Avvenire"  ...da Agorà - Mercoledi 15 Marzo 2000

INTERVENTO: Le motivazioni profonde della febbre di cose giudaiche in casa cattolica. Con qualche rischio.

Ebrei e cristiani: oltre gli abbracci resta il conflitto  Massimo Giuliani

Un fenomeno come la (ri)scoperta del giudaismo da parte di molti cattolici (cui fa eco la popolarità della cultura ebraica nella più vasta società italiana: vedi l'articolo di Avvenire del 3 marzo su «Ebrei, dialogo o moda?»), prima di essere giudicato, va capito.
Prima di vedere se «fa bene», o se «è rischioso», o addirittura se «è pericoloso», dovremmo analizzarne la portata, le radici e le modalità. Istintivamente si percepisce che qui, moda o no, il discorso è delicato, e che spesso le precomprensioni più che teologiche sono psicologiche. La posta in gioco, pur muovendo da un livello emotivo, giunge a toccare il nocciolo dell'identità della fede cristiana. Se anche si trattasse di una moda, questa sarebbe solo un «epifenomeno» sotto il quale si muove qualcos'altro, che viene ritenuto una benedizione o un rischio a seconda, appunto, delle nostre precomprensioni. Per onestà intellettuale, confesserò subito le mie, di precomprensioni, così da togliere il sospetto che chi scrive voglia restare neutrale.
Sette anni fa decisi di lasciare l'Italia per andare a vivere in Israele, per studiare l'ebraico, per approfondire il giudaismo, per toccare con mano il miracolo di un popolo che torna nella terra delle proprie origini dopo duemila anni di diaspora e fa fiorire il deserto. Ci sono andato sapendo che questo popolo non è come tutti gli altri. Sono andato a vivere in Israele sapendo che il suo destino si incrocia con il destino del cristianesimo non solo come luogo storico del sorgere della Chiesa, ma anche e soprattutto come luogo ermeneutico della coscienza delle Chiese (al plurale). Ero convinto e lo sono tuttora, cioè, che le Chiese hanno bisogno di Israele per avere una piena coscienza di sé, della propria missione nel mondo e dei limiti di questa missione.
Mi sono gettato in quest'esperienza senza sentimenti di colpa, né di inferiorità verso il giudaismo, ma ne ero - questo sì - affascinato. Non so se questo si chiama «giudaizzare». Si trattava per me di conoscere un'alterità che era sempre stata lì, accanto se non dentro la fede cristiana, senza che io ne potessi capire adeguatamente il significato. Capivo però che l'interpretazione cristiana del giudaismo non mi bastava. Volevo ascoltare l'interpretazione ebraica del giudaismo. Entrare nell'esegesi dei testi ebraici attraverso commenti ebraici. Non da ultimo, volevo capire come fossero stati possibili venti secoli di antigiudaismo cristiano e perché il mistero della Chiesa fosse inscindibilmente connesso con il mistero del popolo d'Israele. Se lo erano già chiesto Jacques Maritain, Leon Bloy, Aime Palleire da una parte, ma lo avevano indagato anche Elia Benamozegh, Julie Isaac, Leo Baeck, Franz Rosenzweig dall'altra. Prima di Nostra Aetate. Molto prima dell'incontro tra il rabbino Toaff e Giovanni Paolo II nella sinagoga di Roma.
Quella che sembra una «moda» è il venire in superficie di un bisogno e di un disagio più profondi. Più profondi delle stesse richieste di perdono da parte della Chiesa, delle polemiche su Pio XII, delle paure che la «continuità teologica» tra giudaismo e cristianesimo offuschi la «discontinuità cristologica» che separa e oppone le due religioni. È il bisogno, per i cristiani, di capire le conseguenze della piena accettazione della stessa verità cristiana, quando rivela loro che la «salvezza viene dai giudei». Ed è il disagio di guardare negli occhi gli ebrei senza credersi il loro compimento, loro la premessa e noi la conclusione, loro la preparazione e noi la realizzazione.
Se per la società italiana ed europea la cultura ebraica significa una delle radici della civilizzazione occidentale, per le Chiese cristiane il giudaismo sopravvissuto alla Shoà riflette un problema, un nodo irrisolto sia interno che esterno all'identità cristiana. Per questo molti avvertono l'apertura al giudaismo come una minaccia. E forse hanno qualche ragione: il rapporto teologico con il giudaismo non è un capitolo chiuso per le Chiese. Anzi, si apre solo adesso che la memoria è purificata dal peccato di anti-giudaismo. Adesso che il conflitto tra le due religioni può essere assunto e articolato, riconosciuto e reinterpretato. Perché il conflitto c'è, è quel che fa la differenza tra Israele e le genti, anche quelle genti che guardano a Israele attraverso gli occhi di un «testamento nuovo». Il conflitto teologico tra Israele e le Chiese resta, oltre gli abbracci e le richieste (doverose) di perdono, oltre la teshuvà (necessaria) da parte dei cristiani. Si tratta di un conflitto strutturale, che può cessare di essere motivo di sofferenza e può trasformarsi in fonte di benedizione per il mondo. Pensare come ciò possa avvenire è il compito a cui le generazioni del dopo-Shoà non possono sottrarsi.
Non si tratta infatti di abolire il conflitto, ma di riconoscersi nel conflitto, riconoscersi cioè vincolati per vie diverse a una fedeltà di pari valore agli occhi di Dio, chiamati a servire l'unico Dio «spalla a spalla» eseguendo ciascuno un diverso testamento a favore del mondo. Perché in questo le due spalle si toccano: nel servire quel Dio che, come ricorda Rosenzweig, «ha creato il mondo, non le religioni».
Se un rischio c'è, in questa febbre di cose ebraiche, è che ancora una volta si tratti di una forma di «appropriazione» da parte cristiana, inevitabilmente destinata a diventare «espropriazione. È come se si dicesse: in fondo, noi cristiani siamo o non siamo i veri ebrei? No, non lo siamo, siamo un'altra cosa, connessa ma diversa, e non abbiamo diritto a riscoprire il giudaismo e gli ebrei a nostro uso e consumo. Il ritorno alla «radice santa» che porta la fede monoteista delle genti, cristiane e musulmane, parla, deve parlare il linguaggio tutt'altro che romantico dell'ascolto, della responsabilità e del debito, perché senza l'altro come insegna Levinas, noi non esistiamo.

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