Le discussioni intorno al carattere
dell'Ultima Cena si sono accese fin dai tempi più antichi, e già presso i
Padri si trovano dissensi al riguardo; mentre Girolamo e Ambrogio pensano
a una coincidenza tra Ultima Cena e pasqua ebraica, Ireneo ritiene che
Gesù sia morto nel giorno della pasqua, e quindi l'Ultima Cena sarebbe
avvenuta durante la vigilia della festa. La cosa non risulta chiara già
nei Vangeli: secondo i sinottici sembra che Gesù abbia celebrato il
banchetto il primo giorno degli azzimi; invece, secondo Giovanni, sembra
che la crocifissione sia avvenuta nel primo giorno degli azzimi cioè nello
stesso giorno e, più o meno, nella stessa ora in cui nel Tempio si
immolavano gli agnelli, che sarebbero stati consumati durante la cena
pasquale. La questione si complica ancor
più se si tiene presente quello che è stato messo recentemente in
evidenza, e cioè che, al tempo di Gesù, gli ebrei avevano due calendari,
uno ufficiale e un altro che conosciamo dai testi di Qumran, e che poteva
essere usato anche al di fuori della stretta cerchia di quella comunità.
Le discussioni al riguardo sono ben lungi dall'essere esaurite, anche se
si può dire che la tendenza generale è quella di vedere nell'Ultima Cena
un vero e proprio banchetto pasquale. La sobrietà dei racconti
evangelici al riguardo può essere considerata una riprova di questa
asserzione; essi infatti ci dicono soltanto quello che di nuovo avvenne in
quella occasione, sorvolando su tutti gli altri particolari, perché,
trattandosi di un vero e proprio banchetto rituale, che si celebrava ogni
anno, hanno ritenuto superfluo descriverlo in dettaglio. Comunque si siano svolte
realmente le cose, è certo che l'Ultima Cena si svolge su uno sfondo
pasquale. Siamo nel mese di nisan (marzo-aprile), il mese in cui -
secondo la tradizione ebraica più corrente - il mondo è stato creato, il
mese cioè della primavera astronomica e della primavera del mondo. Ma il
pensiero ebraico, l'abbiamo già detto, non si volge mai al passato in un
atteggiamento nostalgico; se lo fa, è per animare la speranza che spinge a
guardare al futuro. Nel mese di nisan infatti, quando la natura si
rinnova, il Messia verrà, portando agli uomini e alle cose quel
rinnovamento di cui hanno parlato i profeti. I monti si abbasseranno e le
valli si innalzeranno per appianare e facilitare la strada al Messia; i
cieli e la terra si rinnoveranno, e gli uomini stessi saranno trasformati:
non ci sarà più violenza, la pace regnerà fra gli uomini egli animali; i
ciechi potranno leggere le parole dei libri e gli zoppi salteranno come
cervi. Si ritornerà a quello stato paradisiaco che ha preceduto il
peccato, e il ristabilimento dell'ordine morale nell'uomo si rifletterà
sulla natura, che entrerà in una nuova fase, simile a una nuova ed eterna
primavera. Sarà una creazione nuova, che si contrapporrà a quella
primigenia e la completerà. li fatto che - secondo la tradizione - i due
avvenimenti coincidano anche nella stagione dell'anno rende la relazione
fra di essi più evidente. Il rinnovamento primaverile della
natura e l'atteggiamento pasquale degli animi, atteggiamento fatto di
attesa e di speranza, fanno da sfondo all'atto centrale della vita di
Gesù, quell'atto con cui egli rilancia il mondo in una nuova
creazione. Gli elementi di quella natura,
che il primo Adamo aveva contaminato con il suo peccato, tanto da attirare
su di essa la maledizione di Dio, diventano ora strumenti di quella
creazione nuova, che si opera nella persona del nuovo Adamo e che darà
vita a una umanità nuova. Pane e vino diventano da allora i mezzi con cui
gli uomini potranno, in terra, sotto il velo dei segni, anticipare e
realizzare nel tempo l'unione con Dio. Gli elementi della natura,
affrancati dalla maledizione, sono messi a servizio della nuova opera
creativa. È la vera primavera del creato, una primavera in cui la natura
si risveglia non solo dal letargo invernale, ma da quello stato di morte
in cui il peccato l'aveva gettata, e ritorna a nuova vita, trasformata al
punto da divenire strumento di redenzione. La vera primavera non è quella
che gonfia di linfa i germogli sugli alberi, ma quella che rende il pane e
il vino capaci di dare la vita eterna. Come nella tradizione ebraica,
anche per i cristiani la nuova primavera corrisponde a quella primigenia,
perché nello stesso giorno in cui il mondo fu creato, Cristo fu concepito
e soffrì la passione (1).
Come l'antico Adamo, padre dell'umanità peccatrice, domina il campo della
creazione primigenia, così Cristo sta al centro della creazione
rinnovata. Si è parlato anche di una relazione tra
l'elemento che Gesù consacra a salvezza del genere umano e l'albero che fu
occasione del peccato di Adamo: Origene stesso dice che l'albero della
conoscenza del bene e del male era la vite, altri pensano al grano, e si
spiega che questo avvenne perché il debito si sciogliesse con lo stesso
mezzo con cui era stato contratto. Anche la più antica tradizione ebraica
vede un rapporto tra il pane e il vino - i due più importanti elementi
della liturgia pasquale - e l'albero della conoscenza del bene e del male:
quella pianta era la vite, dice R. Meir; era il grano dice R. Jehudah (2).
Il peccato di Adamo fu un peccato di ubriachezza, affermano altri (3).
Ma quello che era stato per l'umanità pietra d'inciampo sarebbe diventato
nel futuro causa di gioia (4),
perché, nel quadro del rinnovamento primaverile escatologico, anche il
vino si sarebbe rinnovato, sarebbe diventato « mosto » cioè « vino nuovo »
(5).
Fra il vino bevuto da Adamo alle origini del mondo, a rovina del genere
umano, e quello che si attende « rinnovato » a compenso della rovina
passata, si pone il vino pasquale, che ogni ebreo consuma durante il rito
domestico insieme con il pane azzimo. All'ultima Cena il vino è così « rinnovato » che
diventa velo della presenza salvifica di Cristo. Il banchetto pasquale
ebraico La sobrietà dei racconti evangelici
riguardo all'Ultima Cena delude un poco il lettore moderno che, così
lontano dal tempo in cui Gesù ha vissuto la sua vita terrena,
desidererebbe tuttavia poterne ricostruire l'ambiente e la storia nel modo
più preciso possibile. Davanti al silenzio degli evangelisti ci volgeremo
quindi a interrogare quei testi che, facendoci conoscere la vita religiosa
degli ebrei intorno sorgere dell'era cristiana, illuminano per riflesso la
stessa figura di Gesù. Testi contemporanei di Gesù non ne abbiamo, ma il
corpus di regole religiose e civili, che si chiama Mishnah -
in particolare il trattato sulla pasqua (Pesahim) - le aggiunte ad
esso (Tosefta), e un testo interpretativo (Sifrè) (6),
nei quali troviamo lo schema del banchetto pasquale o alcuni elementi di
esso, redatti entro i primi due secoli dell'era cristiana, ci danno
sufficiente garanzia di rispecchiare gli usi pasquali, che Gesù stesso e i
suoi apostoli avranno seguito. È ad essi dunque che dovremo rivolgerci se
vogliamo inquadrare nel loro contesto vitale le notizie date dagli
evangelisti. Secondo questi testi, il
banchetto pasquale ( che gli ebrei chiamano seder, cioè ordo
), si svolgeva all'inizio dell'era cristiana sostanzialmente come
adesso, ad eccezione di alcune aggiunte, prive di importanza, fatte nel
corso dei secoli. Eccone in breve la descrizione: dopo la benedizione del
giorno, recitata sulla prima coppa di vino, si portano davanti al capo del
banchetto tutti i cibi particolari richiesti dall'occasione, fra cui
naturalmente il pane non lievitato (masah). Secondo un uso che
troviamo documentato in epoca tarda, si presentavano al capo della mensa
tre azzime; egli ne spezzava una, coprendone una parte con un tovagliolo,
e lasciando l'altra parte con le azzime intere. Sulle azzime si recitava
la formula consueta per la benedizione del pane: "Benedetto Tu, Signore
Iddio nostro, che fai uscire il pane dalla terra" nota, già in periodo
molto antico (7);
ma l'azzima spezzata sembra avere importanza particolare, perché su di
essa si pronuncia subito dopo un'altra benedizione: "Benedetto Tu,
Signore, Dio nostro, che ci hai santificato con i Tuoi precetti e ci hai
comandato di mangiare l'azzima"; dopo di questo il capo della mensa mangia
l'azzima e ne dà a tutti i commensali (8).
Quella parte di azzima che era stata riposta sotto il tovagliolo, veniva
ripresa solo dopo il pasto e si consumava senza altre benedizioni
particolari, introducendo con tale atto la benedizione finale sul cibo.
Questi particolari ci sono noti solo da un testo relativamente tardo; ma,
data la scarsità di documenti liturgici precedenti, non possiamo escludere
che essi non rispecchino una prassi assai più antica. Dopo tutto ciò, il figlio più
giovane deve interrogare il padre riguardo al carattere particolare della
notte di pasqua, durante la quale - a differenza delle altre sere - si
mangia solo pane azzimo, erbe amare ad esclusione di altre erbe, carne
arrostita e non anche bollita. La domanda del ragazzo serve per dare lo
spunto al padre di famiglia per spiegare il significato della festività,
ed egli deve farlo - prescrive la Mishnah - « cominciando dalla disgrazia
e concludendo con l'esaltazione »; egli deve spiegare cioè o il brano del
Deuteronomio (26, 5ss.) (9):
« Un arameo errante era nostro padre... scese in Egitto divenne lì un
popolo grande, forte e numeroso. Ci angariarono gli Egiziani... E ci fece
uscire il Signore dall'Egitto con mano forte e braccio teso »... oppure di
Giosuè (24, 2ss.) (10).
« Di là dal Fiume (Eufrate) abitavano i vostri padri... E io presi vostro
padre Abramo di là dal Fiume e lo feci andare nella terra di Canaan... E
mandai Mosè ed Aronne... e vi feci uscire dall'Egitto... e vi detti una
terra sulla quale non vi eravate affaticati, case che non avevate
costruito e vi abitaste; e voi mangiaste i frutti di vigne e di oliveti
che non avevate piantato ». Sono le due più antiche redazioni
della storia della salvezza d'Israele (11),
che prendono in considerazione i due punti principali di essa: la
vocazione dei padri, tratti dal Signore da una terra idolatra, perché
prendessero possesso della terra promessa al popolo di Dio; la liberazione
dalla schiavitù egiziana, momento in cui Israele diventa veramente il
libero popolo di Dio. Già Esodo (13, 14) prevedeva che i figli
interrogassero i padri sulla ragione di determinate regole cultuali, ma lì
la risposta, determinata dall'obbligo del riscatto dei primogeniti, è
limitata al secondo punto della storia della salvezza, la liberazione
dall'Egitto, perché fu in quell'occasione che i primogeniti degli ebrei
furono prodigiosamente risparmiati dal flagello, che portò alla morte i
primogeniti egiziani. Rievocata cosi brevemente la
storia d'Israele, il capo del banchetto avrà modo di spiegare il perché
dell'uso di mangiare l'agnello arrostito, il pane azzimo e le erbe amare,
collegandosi a quegli antichi avvenimenti: il rito pasquale, di cui quei
cibi speciali fanno parte, è il modo con cui ogni ebreo rivive e
attualizza la storia passata. L'agnello pasquale (pesah)
ricorda come il Signore abbia « saltato » ( in ebraico pesah)
le case degli ebrei al momento della morte dei primogeniti d'Egitto; il
pane azzimo è in relazione al fatto che, all'atto dell’uscita dall'Egitto,
non si ebbe tempo di far fermentare il pane; e le
erbe amare ricordano le amarezze sofferte durante la schiavitù. Ma quella
storia passata non è mai del tutto passata, perché si riattualizza in ogni
ebreo che compie il rito di pasqua, in ogni ebreo che - secondo
quanto dice la Mishnah - deve « considerare se stesso come uscito
dall'Egitto ». La liberazione operata dal Signore al tempo di Mosè è
liberazione di ogni singolo israelita, e il rito è il modo di prenderne
coscienza e di partecipare ad esso. Perciò ogni ebreo « ha il dovere di
ringraziare, di lodare, di pregare, di glorificare, di esaltare, di
magnificare, di benedire e sublimare Colui che ha fatto per i nostri padri
e per noi tutti questi prodigi: ci ha fatto uscire dalla schiavitù verso
la libertà, dall'angoscia alla gioia, dal lutto alla festa, dalle tenebre
alla luce splendente, dalla soggezione alla redenzione. Diciamo dunque al
Suo cospetto: Allelujah ». Con queste parole si inizia la recita della
prima parte dei salmi di lode (chiamati in ebraico hallel) cioè i
Salmi 113 e 114, che devono concludersi con la menzione della
"redenzione", menzione a cui già Rabbi Aqiba dava un evidente carattere
messianico, con le seguenti parole: « Così, Signore Dio nostro e Dio dei
nostri padri, facci arrivare in pace alle altre feste e solennità che
verranno davanti a noi; rallegraci con la ricostruzione della Tua Città e
facci lieti con il Tuo servizio; fa che possiamo mangiare lì i sacrifici e
le offerte pasquali... Benedetto Tu che redimi Israele » (12). La storia passata, rievocata dalle
parole del capo del banchetto, si continua in ogni ebreo, che nel tempo
presente partecipa al rito, ma si proietta nello stesso tempo verso il
tempo avvenire, quando, secondo la parola dei profeti, Gerusalemme sarà
ricostruita e in essa si celebrerà un culto che non avrà più
fine. Si benedice a questo momento una seconda
coppa di vino e si inizia il pasto, che è un vero e proprio pasto rituale,
preceduto e seguito com'è da letture e da preghiere; è il rito che dà modo
all'ebreo di partecipare in ogni tempo alla liberazione operata dal
Signore a vantaggio del Suo popolo. Segue la "benedizione sul cibo", cioè
il ringraziamento su quanto si è mangiato, accompagnata dalla benedizione
su una terza coppa di vino, da una benedizione per la terra e da una che
comincia con le parole" Colui che riedifica Gerusalemme" (13);
ogni pasto infatti è un partecipare ai beni di Dio, e come tale è un atto
di culto; ma il culto per l'ebreo è collegato al Tempio e quindi alla sua
ricostruzione nella città santa di Gerusalemme. Il ringraziamento si completa con la
benedizione di una altra coppa di vino, la quarta; è la più solenne, è
quella di cui gli ebrei dicevano che solo David sarebbe stato degno di
benedirla, attribuendole quindi chiaramente un carattere messianico. Essa
viene accompagnata dalla recita degli altri salmi di lode, cioè dal 115
("Non a noi, Signore, non a noi, ma al Tuo Nome dà gloria ") fino al 118,
il salmo cioè che al verso 13 contiene le parole, che ancora oggi il
sacerdote ripete durante la Messa: "Che cosa renderò al Signore, per tutti
i benefici che Egli mi ha fatto? Innalzerò il calice della salvezza e
invocherò il Nome del Signore". Segue ancora una preghiera, riguardo
alla quale la Mishnah non ci fornisce che il nome: « La benedizione del
canto », ma già R. Johanan (III sec.) (14)
sapeva trattarsi della preghiera che conchiude, si può dire in ogni rito,
i salmi di lode e quindi anche il banchetto pasquale : « L'anima di ogni vivente benedica il
Tuo Nome, signore, Iddio nostro, e lo spirito di ogni creatura magnifichi
ed esalti la Tua memoria, o nostro Re, sempre. Dall'eternità e in eterno
tu sei Dio, e all'infuori di Te non abbiamo re, né redentore, né
salvatore, né liberatore, che ci salvi, ci nutra, e abbia pietà di noi in
ogni momento d'angustia e bisogno. Non abbiamo re all'infuori di Te, Dio
dei tempi primordiali e dei tempi ultimi. Dio di ogni creatura, Signore di
tutte le generazioni, lodato con molte lodi, che conduce il Suo mondo con
grazia e le Sue creature con misericordia. Il Signore non sonnecchia, né
dorme; Egli sveglia i dormienti, desta i torpidi; fa parlare i sordi,
libera i prigionieri, sostiene i cadenti, rialza i curvi. « Te, Te solo noi ringraziamo. Se le
nostre bocche fossero piene di canto come il mare, e le nostre lingue di
cantici come la moltitudine delle sue onde, e le nostre labbra di lode
come le distese del firmamento; se i nostri occhi fossero lucenti come il
sole e la luna e le nostre mani aperte come le ali delle aquile del cielo,
e i nostri piedi veloci come quelli delle gazzelle - non saremmo
sufficienti a lodarti, Signore nostro Dio, e Dio dei nostri padri, e a
benedire il Tuo Nome per una sola delle miriadi e infinite volte che ci
hai beneficati, noi e i nostri padri. Tu ci hai redento dall'Egitto,
Signore Iddio nostro, dalla casa di schiavitù ci hai liberato; nella fame
ci hai nutrito, nell'abbondanza ci hai sostenuto; ci hai salvato dalla
spada, ci hai scampato dai flagelli e da gravi malattie; hai dato sollievo
a noi fiduciosi. Fino ad ora ci ha aiutato la Tua misericordia, ne ci ha
abbandonato la Tua grazia. Non ci respingerai, Signore Dio nostro, in
eterno! Perciò ogni membro che ci hai dato, lo spirito e l'anima che hai
spirato nelle nostre narici, e la lingua che hai posto nella nostra bocca,
ecco: esse confesseranno e benediranno e loderanno e magnificheranno ed
esalteranno e celebreranno il Tuo Nome, e proclameranno la Tua santità e
la Tua regalità, o nostro re. Infatti ogni bocca Ti confesserà; ogni
lingua giurerà a Te, e ogni ginocchio si piegherà davanti a Te; ogni
altezza si prostrerà al Tuo cospetto, e ogni cuore Ti temerà. L 'interno
di ogni uomo canterà lodi al Tuo Nome, come sta scritto: 'Ogni osso dirà:
Signore, chi come Te?'. Tu salvi il povero da chi è più forte di lui e il
povero e il misero da chi lo depreda. Chi Ti assomiglia o chi Ti pareggia,
e chi può essere messo a confronto con Te, Dio grande e forte, venerando,
Dio eccelso, che hai creato il cielo e la terra? » « Noi Ti lodiamo, Ti celebriamo, Ti
magnifichiamo, benediciamo il Tuo Nome Santo, come è detto da David:
'Benedici, anima mia il Signore, e tutto quello che è dentro di me
benedica il Nome Suo santo' ». Era diffusa nel Medio Evo la leggenda
che questa preghiera fosse dovuta a San Pietro; si tratta naturalmente di
un fatto non controllabile, ma che comunque ci permette di immaginare che
forse Pietro - l'unico a cui il Padre aveva rivelato la vera natura del
Messia (Mt. 16, 16ss.) - sia stato quello che in occasione dell'Ultima
Cena abbia afferrato più degli altri il significato di quanto era
avvenuto, così che non trovando sufficienti le parole dei salmi, per
esprimere la sua gratitudine, avrebbe formulato una sua preghiera, nella
quale il riconoscimento dell'incapacità dell'uomo di lodare
sufficientemente il Signore fosse la migliore espressione della sua
riconoscenza. Un altro testo (Tosephta) specifica
invece che a questo momento si deve dire un versetto di un salmo di lode:
« Benedetto Colui che viene nel Nome del Signore », anticipando
nell'invocazione e nel desiderio la venuta del Messia e la sua salvezza;
tutto poi si conclude con la lode a Dio che redime il Suo
popolo. L’Ultima Cena Sono stati fatti vari tentativi per
riuscire a individuare a quale punto del rito domestico pasquale ebraico
Gesù abbia inserito le sue parole, quelle parole che nessuno al
mondo aveva mai udito: "Prendete e mangiate, questo è il mio Corpo" e:
"Prendete e bevete, questo è il mio Sangue", quelle parole che
all'invocazione della redenzione messianica venivano a rispondere: oggi
essa si compie. Dalle scarne notizie del Vangelo
sappiamo che « durante il pasto » Gesù lava i piedi degli apostoli (Gv.
13, 1), consacra il pane a distanza di tempo dal vino, che viene
consacrato dopo il pasto (Lc. 22, 20), e che prima di uscire dal Cenacolo
recita dei cantici (Mc. 14, 26; Mt. 26, 30). Ci piacerebbe di poter
piazzare questi momenti al loro posto nel rituale ebraico, per poter
ricostruire più al vivo quel banchetto pasquale unico nella storia del
mondo. Ognuna di quelle azioni di Gesù, che gli evangelisti menzionano,
trovano riscontro in altrettante azioni abituali del banchetto, azioni
alle quali viene, nell'Ultima Cena, conferito un aspetto nuovo. Ci sembra
di poter individuare il momento della lavanda dei piedi in quello in cui
viene porto al capo della messa un catino perché, all'inizio del pasto, si
lavi le mani prima di recitare la benedizione sul pane; Gesù fa un uso
particolare di quel catino, ma la sua novità si innesta su un'azione
abituale. Così pure ci domandiamo se le parole
della consacrazione del pane - quelle parole che rompono i confini di
qualsiasi rituale tradizionale - non siano state dette di seguito alla
formula che abbiamo riportato sopra e che ogni ebreo ancor oggi recita,
spezzando il pane: « Benedetto Tu, Signore Dio nostro, che fai uscire il
pane della terra »; parole che, nel contesto dell'Ultima Cena, quando " la
morte incombeva - e gli apostoli, anche se ignari, dovevano sentirla
passare sopra di loro - sembrano quasi assumere il tono e il valore di
profezia di risurrezione : l'identità fra quel pane e il Corpo di Cristo
era esplicita nelle parole di Gesù (e il fatto sarà poi messo in
particolare evidenza da Paolo ), così che si poteva intuire che come il
Signore fa uscire dalla terra il pane, così ne avrebbe tratto fuori quel
Corpo che solo temporaneamente sarebbe sceso nel suo seno. Anche
nell'ebraismo, del resto, la speculazione mistica dirà che il pane e il
vino sono Israele e il Messia stesso (15). Se vogliamo cercare di scendere nei
particolari, ci domandiamo se non sia possibile individuare nell'azzima
spezzata, che viene benedetta due volte e che quindi riveste già per se
stessa un particolare carattere sacro, l'azzima che Gesù ha consacrato,
dandola a mangiare ai suoi apostoli. Ci induce a questa supposizione anche
il fatto che essa veniva mangiata con l'agnello, anzi col passare del
tempo diventerà per gli ebrei il ricordo dell'agnello (16),
tanto che le si applicheranno tutte le prescrizioni previste per esso (17).
Sarebbe quindi su di essa che l'Agnello di Dio, venuto a perfezionare il
sacrificio pasquale ebraico, avrebbe pronunciato le parole
consacratorie. Si tratta sempre solo di congetture, ma
dato che Luca dice espressamente che il vino viene consacrato dopo
il pasto, ci sembra poter individuare la coppa che Gesù consacra in
quella coppa che ogni ebreo benediceva, e benedice tuttora, con
particolare solennità, a chiusura del pasto rituale (18).
Abbiamo detto che ad essa si attribuiva un particolare carattere
messianico, e che si aspettava che David - cioè il prototipo del Messia -
venisse lui stesso a benedirla.. I salmi di lode che ne accompagnano la
benedizione sembrano particolarmente adatti al momento che i commensali
dell'Ultima Cena stanno vivendo, anzi sembra che alcuni di essi non si
spieghino che in quel contesto: ...« Mi avvolsero lacci di morte, Le angustie della morte si alternano in
questo salmo con la sicurezza dell'aiuto del Signore, con una fede che
possiamo definire fede nella risurrezione. Forse solo Gesù sapeva tutto il
significato di quelle parole, che gli apostoli avranno ascoltato attoniti;
in quell'atmosfera di tragedia incombente, forse ancora turbati
dall'annuncio del tradimento, saranno essi stati capaci di sentire la
speranza e la promessa che esse contenevano? Con la recita dei «cantici », di cui
parlano gli evangelisti e nei quali dobbiamo ravvisare i salmi di lode,
che chiudono il banchetto pasquale, l'Ultima Cena ha termine; si conclude
cioè quel rito, antico e nuovo nello stesso tempo, quel rito che permette
a ogni fedele di partecipare alla nuova e definitiva liberazione, operata
dal Signore a vantaggio del Suo popolo. Se l'azzima benedetta e il vino
benedetto erano per l'ebreo il modo di riattualizzare in se stesso la
redenzione di Israele, anticipando nell'invocazione e nel desiderio il
completamento di quella redenzione che il Messia avrebbe portato, le
parole nuove, pronunciate da Gesù durante la cena pasquale, il fatto nuovo
da Lui operato, rendono presente quel completamento. Quella sera gli
apostoli hanno potuto rivolgere a una persona chiaramente individuata
quell'invocazione, nella quale ogni ebreo esprimeva il massimo dei suoi
desideri: " Benedetto Colui che viene nel Nome del Signore! " . Ancora una volta Gesù inserisce il fatto
nuovo che egli compie nel quadro della liturgia giudaica. Come a Nazareth
aveva voluto che il culto sinagogale costituisse lo sfondo, su cui
annunciare che la salvezza preannunciata dai profeti era presente nella
sua persona, così anche il momento essenziale della sua vita terrena, quel
momento in cui egli celebra il suo Sacrificio sotto il velo dei segni, lo
vuole inserito nella cornice del culto ebraico, culto che egli vive,
assomma in sé e perfeziona. Quella storia della salvezza che il capo
della mensa riassumeva brevemente per i suoi commensali, menzionandone
l'inizio e il momento determinante dell'esodo, quella storia di cui la
predicazione dei profeti faceva intravedere una conclusione al tempo
messianico, aveva raggiunto l'epilogo che Israele aveva per secoli
invocato. La religione ebraica è essenzialmente messianica, cioè volta
all'avvenire, tesa dinamicamente verso il futuro; la storia passata non
viene evocata che per rivolgersi verso le cose che avverranno; la storia
passata non si riattualizza nel rito che per portarla avanti, verso il
momento della sua maturazione. Quella sera, nella "stanza superiore" di
una casa di Gerusalemme, quel momento era arrivato; un nuovo periodo della
storia della salvezza si era iniziato, punto di maturazione e nello stesso
tempo punto di partenza, volto all'attesa del completamento finale, verso
il ritorno glorioso di Cristo, la parusia. Se fino a quel momento Israele aveva
cercato, attraverso i molteplici mezzi suggeriti dalla Legge, l'unione con
Dio, da allora in poi tutti codesti mezzi si sarebbero riassunti in due
elementi soltanto, quelli pasquali del pane e del vino. Tutte le
prescrizioni legali (la circoncisione, il sabato, i filatteri, ecc.),
eseguite in obbedienza alla volontà esplicita di Dio, avevano avuto fin
allora un valore che potremmo chiamare quasi “sacramentale" per Israele,
nel senso che si trattava di segni ( othoth ) esteriori che
esprimevano l'unione del popolo con il suo Dio. Da allora in poi tutto ciò
si sarebbe ricapitolato nella Persona stessa di Cristo, che lega la sua
presenza ai veli del Pane e del Vino, in quella Persona in cui l'unione
con Dio diviene reale, in quella Persona che è il Verbo stesso di Dio,
cioè l'espressione vivente della Sua volontà, Colui che non è venuto ad
abolire la Legge, ma a sintetizzarla in se stesso. NOTE (1)
Secondo un calendario mozarabico, v. DAL, I, 2, 2248; cfr. Leone Magno,
Sermo L XI, P.L., 54, 314. [*] Fonte: Sofia Cavalletti, Ebraismo e spiritualità Cristiana Cap.X, Editrice Studium - Roma, 1966 | home | | inizio pagina | |