... da Avvenire del 28 marzo 2000

INTERVISTA/2 Il giornalista: la riconciliazione ormai è avviata
Lerner: «Un'umiltà che tocca gli scettici»

«La prima cosa che va detta al Papa è: grazie per quello che ha fatto»
«L'approccio ha conquistato un'opinione pubblica diffidente»

Mimmo Muolo

Roma. Un fatto unico, senza precedenti. Sia nel panorama giubilare - perché per Gad Lerner le due settimane che vanno dalla domenica del Perdono a quella di Gerusalemme rimarranno «uno dei momenti più alti dell'Anno Santo del 2000» - sia per il rapporto tra ebrei e cristiani, che proprio dal "mea culpa" riceverà un nuovo impulso.
«La prima cosa che viene da dire al Papa, e forse anche l'unica,- sostiene infatti l'editorialista de La Repubblica appena sceso dalla scaletta dell'aereo proveniente da Gerusalemme - è "Grazie per quello che ha fatto"».
Grazie in particolare per che cosa?
Grazie per i gesti compiuti, per le parole dette, per l'umiltà dell'approccio, che ha conquistato l'opinione pubblica israeliana all'inizio diffidente. Non nascondo che, più volte in questi giorni (per esempio di fronte allo straordinario momento della richiesta di perdono infilata in una fessura del Muro occidentale) con una curiosità tutta giornalistica, mi sono chiesto: "Ma chi è il genio della comunicazione che agisce nella cabina di regia del Vaticano?". Perché questa capacità di trovare i gesti che significano molto più delle parole e che sanno penetrare l'animo e l'inconscio di storie secolari è davvero straordinaria.
Probabilmente il regista e l'attore principale sono la stessa persona. Ma al di là di questo, che cosa l'ha colpita maggiormente di quel gesto?
Prima di Natale, proprio su Avvenire avevo raccomandato ai cattolici di smetterla di pensare che fare i conti pubblicamente con i propri errori storici fosse pericoloso. Ebbene, quanto è successo durante questa visita del Papa conferma che se il Giubileo non vuole essere soltanto un grande evento di fede e di riesame di coscienza per i cristiani, ma intende parlare anche agli altri, allora non bisogna avere paura di essere severi con se stessi. Giovanni Paolo II lo ha fatto, e facendolo, ha parlato non solo ai cattolici, ma anche agli ebrei.
Qual è la stata la carta vincente?
In primo luogo l'umiltà, unita alla consapevolezza di quello che c'era dietro alla diffidenza degli ebrei nei confronti dei cristiani. Questa diffidenza non si vince da un giorno all'altro, e neppure il gesto straordinario del Muro possiamo illuderci che l'abbia vinta del tutto. Non dobbiamo dimenticare che per secoli una certa teologia antigiudaica si è tradotta in effetti pratici molto concreti. Ma oggi l'umiltà di Papa Wojtyla, il non avere paura delle diffidenze e dello scetticismo degli ebrei (perché sapeva di fare un'operazione di verità che alla fine poteva toccare il loro cuore), hanno avuto la meglio.
Dunque, che eredità lascia questo viaggio?
Io penso che Giovanni Paolo II abbia innescato un processo di riconciliazione profonda che non potrà non avere sviluppi in futuro. Tra l'altro il Papa non ha dovuto rinunciare neanche a dire tutto quello che riteneva giusto su questioni delicate come, ad esempio, la situazione dei palestinesi. Ha semplicemente detto la verità, smentendo tutte le previsioni pessimistiche e ottenendo il risultato più profondo e più innovativo che si potesse immaginare, come era evidente nell'atteggiamento di Barak, al momento del commiato, e come è testimoniato anche dal commento di un importante quotidiano che ieri titolava: "Salute a te, nuovo amico nostro".
E adesso?
Il prossimo passo, se mi è consentita un'osservazione forse un po' impertinente, sarà da parte della Chiesa cattolica quello di costruire una nuova teologia del rapporto con i fratelli maggiori. Si aprono anche nuovi problemi, come ad esempio il rapporto con la Gerusalemme ebrea e lo Stato israeliano. E a questo proposito devo dire è molto bella un'osservazione fatta dal rabbino David Hartman, secondo cui è fondamentale per gli ebrei sentire che il Papa "gioisce insieme a noi per la fine del nostro esilio e per il fatto che siamo tornati nella nostra terra".
Una terra sulla quale, però, vivono anche i palestinesi.
E in effetti i palestinesi hanno avuto la conferma della solidarietà con chi ancora deve vedere riconosciuti i propri diritti nazionali. Io sono ebreo, ma spero che presto possa nascere lo Stato palestinese, isolando però quelle tendenze integraliste, ancora pericolosamente presenti in certi ambienti islamici, che spingono per un uso bellico della religione. Anche da questo punto di vista il Papa ha detto una parola chiara: "Mai più guerre di religione".
E queste parole avranno riflessi sui negoziati di pace?
Quello che è successo in questi giorni è un evento troppo grande per ridurlo a un piano meramente politico. Se davvero, da oggi in poi, ebrei e cristiani si guarderanno in altro modo, questo conta molto di più e lascerà un segno molto più profondo.

 

Mano nella roccia che scioglie un grumo di storia

Ferdinando Camon

Quando il Papa ha infilato in una fessura del Muro del Pianto la richiesta di perdono, quello è stato il punto più alto del suo viaggio a Gerusalemme. La storia di coloro che guidano l'umanità non è diversa dalla vita di coloro che guidano le famiglie: costoro si parlano, si telefonano, ma quando una comunicazione deve restare "a futura memoria", si scrivono lettere. Il biglietto infilato dal Papa in una fessura del Muro del Pianto è stato dunque una lettera, a futura memoria, a Dio. 

Per un attimo, il biglietto è stato possibile vederlo. Il Papa lo teneva dal basso, il foglio stava aperto, aveva il sigillo papale a sinistra in basso, e a destra in basso la firma. Il testo era in inglese. Conteneva la più pertinente delle sette richieste di perdono pronunciate il 12 marzo, quella che ha per tema le sofferenze patite dagli ebrei. Dice: "Noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti nel corso della storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli", e conclude: "Vogliamo impegnarci in un'autentica fraternità con il popolo dell'Alleanza".
Aver deposto quella richiesta di perdono in una fessura del Muro del Pianto non è un'appendice che poteva mancare, è anzi la sua destinazione esatta, e dunque la pronuncia del discorso a Roma era stata un'anticipazione, in vista dell'invio tramite quella cassetta postale. Il Muro del Pianto è fatto di pietroni accostati, la fessura sta nella seconda fila dal basso, ad altezza d'uomo: il Papa ha alzato la mano destra ad altezza della testa e ha infilato il foglio.

 Lo leggerà e lo conserverà l'umanità, la storia, Dio. Quello è un punto dove tre storie diverse si sono scontrate, come i continenti quando andavano alla deriva e urtandosi formavano corrugamenti e sistemi montuosi, difficili da superare: lì in pochi metri si toccano il sacro dei musulmani, il sacro degli ebrei e il sacro dei cristiani. Il nobile santuario dei musulmani indica il punto da cui Maometto salì in cielo, il Muro del Pianto è ciò che resta dell'Antico Tempio ebraico, ed è il punto a cui convergono le preghiere degli ebrei da tutte le parti del mondo fin da quando furono dispersi, con ferocia, dall'imperatore romano soprannominato "delizia del genere umano". E lì c'è il Santo Sepolcro, che sta sul punto esatto dove Cristo patì, morì, fu sepolto e risorse. Fra tutti i luoghi della terra, questo è il più alto concentrato di spiritualità.

Ora che il Papa è tornato a Roma, comprendiamo che è venuto in questa terra per dare qualcosa a tutti e tre i popoli che vi abitano:

1) comprensione e aiuto ai palestinesi,
2) richiesta di perdono agli ebrei,
3) incitamento verso una nuova storia ai cristiani. 

Sono tre missioni in una. Nessuna di queste tre missioni, singolarmente presa, era facile, ma una concordanza di tutte e tre era impossibile. Infatti non è riuscita. La relazione fra cristiani ed ebrei, cristiani e musulmani, riparte da basi nuove. Ma la relazione tra musulmani ed israeliani resta quel che era, e del resto non si vede come la visita del Capo del cattolicesimo potesse modificarla. I musulmani non hanno dialogato con gli ebrei, perché non hanno superato il loro divieto di incontrare e sedere insieme con i rabbini; con gli israeliani non è stato nemmeno toccato, forse per prudenza, lo status di Gerusalemme. Ma se il viaggio papale avesse toccato e risolto questi problemi, sarebbe stato un evento minore. Perché in realtà il viaggio ha fatto molto di più. Nella terra dov'è nato il cristianesimo vivono popoli che sanno poco o nulla (parlo della gente comune) del cristianesimo: per la prima volta hanno visto da vicino il Capo del cattolicesimo, tremante, stanco, che veniva avanti un passettino alla volta, usando la croce come un bastone d'appoggio, deciso a combattere contro gli ostacoli della storia, della politica, degli stati, dell'età, della malattia, per dire a tutti qual è la sua idea di bene, farsi dire da tutti qual è la loro, e vedere se si può realizzarle insieme. Per la prima volta hanno assistito, un'ora o due, a riti cristiani prima mai trasmessi in tv, tra cui una messa: hanno sentito le formule, visto i gesti, e si son meravigliati per la ricerca di pace che contengono, di comprensione, di intesa, e si son detti: "Ma è così, dunque? Mai saputo".

Il viaggio, breve nella sua intensità, ha fatto sapere qualcosa che non era saputo. Questo "qualcosa" introduce nella relazione tra le tre religioni e le tre culture un cambiamento duraturo: nei limiti in cui ha senso usare questo termine per la storia umana, per sempre.

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