... da
Avvenire del 26 marzo 2000 |
Un ebreo Paolo Alazraki: il mio grazie al Papa per il suo pellegrinaggio
"Oggi
io, fratello maggiore, mi sento figlio di Wojtyla"
Intervista: Il rabbino, direttore della Lega anti-diffamazione
Rosen: "Ci
ha svelato un cammino ignoto"
Padre Manns, rettore dello "Studium biblicum franciscanum", rilegge i
simboli
che hanno caratterizzato il pellegrinaggio del Papa
"Ma non si è
fermato alla memoria del peccato"
Un ebreo: il mio grazie al Papa per il suo pellegrinaggio
"Oggi io, fratello maggiore,
mi sento figlio di Wojtyla"
Paolo Alazraki
Sono un ebreo, ma in queste ultime
settimane avrei voluto essere cristiano. E avere un padre religioso così maestoso nella
sua semplicità, così potente nella sua umiltà, così saggio nella sua forza nel
combattere e di vincere con la dolcezza e la forza immane della fede le resistenze che,
all'interno della sua "cerchia", avrà trovato nel comunicare a se stesso prima,
ai suoi fedeli poi, e quindi al mondo tutto, le "scuse" e le parole sublimi di
forza e di carità pronunciate in Palestina.
In Israele, nella terra di Canaan, nella terra dei Patriarchi e anche nella terra dei
sentieri del nostro io profondo, nei sentieri antichi delle carovane del sale e della
seta, terra-culla di civiltà straordinarie che noi tutti, se vogliamo, potremmo in parte
far rivivere con il nostro fare di mercanti illuminati e coraggiosi.
Chi perdona non è debole, chi chiede scusa è forte. Male hanno fatto i miei rabbini e
molta parte dell'Ebraismo israeliano e mondiale a non capire, a non interpretare, a non
gioire di questo immenso gesto riconciliatore che apre squarci nuovi, straordinari, nel
reciproco rispetto tra i popoli e quindi ad una migliore vita per essi e tra di essi, e
quindi anche ad un maggiore sviluppo economico perché permetterà, non solo e non
soprattutto nel Medio Oriente, la liberazione di quelle forze creative, mercantili e
intellettuali che hanno da decine di secoli caratterizzato il pensiero di arabi ed ebrei.
E ciò con influssi positivi, naturalmente, anche per l'Europa.
Questo giovane vecchio tremante, ma sereno, conscio - dal suo viso - dell'importanza dei
gesti e dei passi che compiva, hanno sublimato, sovrastato, reso quasi ridicoli gli
atteggiamenti guardinghi, imbarazzati di rabbini e di mufti, presi per i capelli
probabilmente dalle autorità politiche. Cosa volevano, con la condanna di Pio XII,
l'umiliazione dei "fratelli minori"?
Ma non hanno capito che quella era una delle contropartite alla parte più tradizionale
della Chiesa? Quando c'è la richiesta di perdono, la visita storica è anche troppo, con
i tempi che corrono, ma finalmente.
Un abbraccio va al popolo israeliano, e al suo ministro Barak, un angelo della pace con la
faccia da bonaccione, che ha "regalato" il santo Sepolcro al Vaticano.
I gesti simbolici sono spesso tutto nella vita non solo degli individui, ma anche e
soprattutto della grandi nazioni. E bene hanno fatto Israele e il Vaticano a far passare
questa notizia che in realtà nascondeva 5 anni di battaglie e di reciproche
recriminazioni sulla gestione dei Luoghi Santi con rispetto e understatement.
Sia lode al Signore chiunque e dovunque Egli sia. Sia lode a questo Papa.
Io non so come ringraziarlo. Forse, donandogli, ma solo per quest'anno di giubileo,
qualcosa del mio essere religioso, che è la cosa alla quale tengo di più al mondo.
Quest'anno tenterò per me stesso e per i miei amici ebrei di ritrovarmi con i cristiani,
come nei primi tre secoli dell'era volgare, quando insieme pregavamo nelle stesse
sinagoghe e che solo dopo Costantino hanno preso, purtroppo, strade diverse.
Certo, sarebbe un sogno: che l'ebraismo si addolcisse un poco, e che il cristianesimo
riuscisse ad eliminare tutti quei passaggi tra uomo e Dio, tra spirito e icone, tra
aggressività e dolcezza della parola di Cristo.
Ecco, caro Wojtyla, il mio piccolo, grande regalo, per un anno. E la promessa di farmi
promotore di una grande, immensa foresta di nuovi alberi, proprio lì, al confine (che
spero presto non ci sarà più) tra Gaza e Israele, in tuo nome, con incisi non i nostri
nomi, ma i nostri cuori.
Ciò che tu hai fatto per tutti è immenso. Come la fede, come l'amore. Straordinarie cose
che spesso si perdono, si ritrovano e si perdono ancora.
Questo è il regalo per il mio Giubileo. Non ho debiti, non ho crediti. Posso così
degnamente festeggiarlo, nel mio intimo profondo e con tutti gli ebrei e i cristiani che
hanno capito il tuo gesto. E così sia. E così sia.
INTERVISTA/1 Il rabbino, direttore della Lega anti-diffamazione
Rosen: "Ci ha svelato un cammino
ignoto"
"Ha fatto capire a molti l'impegno della Chiesa per i "fratelli maggiori"
e contro l'antisemitismo, specie negli ultimi 35 anni"
Elio Maraone Nostro Inviato
GERUSALEMME. "Il pellegrinaggio del
Papa, folto di parole illuminanti ma soprattutto, mi sembra, di gesti di alto rilievo
simbolico, ha aperto gli occhi di molti ebrei, occhi chiusi dal ricordo del disprezzo e
delle persecuzioni, dai pregiudizi o, più semplicemente, dalla diffusa ignoranza della
realtà storica. Ossia di quanto la Chiesa cattolica ha fatto in favore degli ebrei e
contro l'antisemitismo, specialmente negli ultimi 35 anni, a partire dal documento
conciliare Nostra Aetate. Ancora, di quanto Giovanni Paolo II ha personalmente
fatto in spirito di dedizione: dal rispetto, mettiamo, per i "fratelli maggiori"
al recente, potente "mea culpa" sino, ovviamente, alla preparazione di questo
pellegrinaggio, che egli desiderava da molto tempo". Il rabbino David Rosen, già
rabbino capo in Irlanda, membro della Commissione permanente bilaterale fra Stato di
Israele e Santa Sede nonché presidente del Consiglio internazionale di cristiani ed
ebrei, ci accoglie nell'ufficio della Lega anti-diffamazione da lui diretta. Dalle ampie
finestre, sul lontano orizzonte, si scorge il Giordano. Subito sotto il palazzo si vede il
Parco di Gerusalemme, con una stupenda macchia di rosmarino fiorito dove le api fanno
bottino. Ne ammiriamo con lui la vegetazione, e Rosen ci regala una bella immagine:
"Ecco, la visita del Papa ha aperto una porta, molti ebrei hanno scoperto un giardino
di bontà del quale ignoravano l'esistenza".
Rabbi, questo vuol dire che stanno finendo anche i pregiudizi
anti-cattolici, pure tra gli ebrei ultraortodossi, quelli che più volte hanno
rimproverato lei per il suo atteggiamento molto aperto nei confronti del cattolicesimo?
"Lasciamo perdere i casi personali (ride). Alcuni miei colleghi, a differenza di
altri che invece la pensano come me, faticano ad aprirsi... Tuttavia, contrariamente a
quanto hanno scritto alcuni giornali, gli estremisti in generale, i fanatici, non superano
il 7 per cento della popolazione. Gli ultimi sondaggi dicono che il 65 per cento degli
israeliani giudica "positiva" la visita del Papa. Questo non vuol dire che le
incomprensioni si siano dissolte, e che non restino ancora molti ostacoli sulla strada di
un dialogo davvero aperto. Penso che la visita appena conclusa costituisca tra l'altro una
nuova opportunità per informare gli ebrei, per educarli, per aggiornarli sui molti passi
che la Chiesa cattolica ha compiuto, specialmente sotto l'impulso di Giovanni XXIII e
dell'attuale Pontefice"
Alcuni commentatori israeliani hanno scritto che questa visita
costituisce il culmine del pontificato di Papa Wojtyla. È d'accordo?
"Mi pare un'osservazione sbrigativa, e non soltanto perché questo Papa ha già
fatto molte altre cose straordinarie, e altre ne può fare in futuro. Tuttavia si può
dire che il pellegrinaggio è stato anche la dimostrazione storica, direi
"parlante", delle trasformazioni che hanno avuto luogo all'interno della Chiesa
cattolica, e insieme una solenne conferma della svolta, che già era avvenuta,
nell'atteggiamento della Santa Sede nei confronti dello Stato di Israele. Penso, per fare
un esempio, alla visita del Papa al presidente Ezer Weizman, e alle attenzioni che questi
e il premier Ehud Barak hanno più volte riservato al capo del Vaticano. Tutto questo,
sino a non molti anni fa, poteva sembrare impensabile".
Altri due momenti, per universale riconoscimento, sono apparsi
particolarmente convincenti, quasi clamorosi: le visite a Yad va-Shem (il Memoriale della
Shoah) e al Muro occidentale (o "del pianto")...
"Certamente, anche perché in entrambe le occasioni è apparso evidente a tutti
il carattere eminentemente spirituale del pellegrinaggio, il suo intento di profonda
riconciliazione, con toccanti risvolti umani che le immagini televisive hanno amplificato.
Sono state molto importanti le parole che il Papa ha pronunciato o scritto, come nel
biglietto lasciato al Muro nel quale chiede perdono e si impegna alla "genuina
fratellanza con il popolo del Patto". Ma forse ancora più importanti sono stati i
suoi gesti, i suoi silenzi, la sua trasparente commozione. Era come se il Papa dicesse:
eccomi qui come uno di voi, sofferente tra tanti che hanno sofferto, a condividere sia i
vostri patimenti sia il vostro, il nostro patrimonio, a piangere la memoria delle vittime
e a tener vive le speranze in un futuro migliore. Questo nonostante le ferite antiche e
moderne che qui restano aperte nelle pietre e nella carne dei sopravvissuti, come i pochi
polacchi scampati all'Olocausto che il Papa ha ritrovato a Gerusalemme".
Il pellegrinaggio del Papa coincide con l'anno giubilare. Ci si
può attendere, di qui alla fine del Duemila, qualche significativo miglioramento nella
situazione in generale, e in particolare sul piano del dialogo interreligioso?
"Nessuno può prevederlo, e c'è ancora tanto lavoro da fare. Però si può
affermare che il Papa è riuscito a dimostrare che la sua Chiesa costituisce la più forte
presenza spirituale nel mondo, e a indicare che l'apertura del nuovo Millennio costituisce
una irrinunciabile occasione di riconciliazione per cristiani ed ebrei, cristiani e
musulmani, e per l'insieme di essi. La Chiesa cattolica è parte dei problemi, e parte
della soluzione".
Padre Manns, rettore dello "Studium biblicum franciscanum",
rilegge i simboli
che hanno caratterizzato il pellegrinaggio del Papa
"Ma non si è fermato alla
memoria del peccato"
Gerolamo Fazzini
"Ho sentito molti ebrei dire: a commuoverci non è tanto quel che il Papa ha detto,
quanto i gesti che ha compiuto. A cominciare dalla visita al Memoriale
dell'Olocausto". Padre Frédéric Manns, rettore dello Studium Biblicum Franciscanum
di Gerusalemme, è da ieri in Italia, dopo aver seguito con grande trepidazione e in presa
diretta, il viaggio del Papa in Terra Santa.
Padre, pochi viaggi papali sono stati ricchi di simbologia come
questo. Non è solo la carica spirituale dei luoghi toccati, ha giocato molto l'immagine
del pellegrino proposta dal Papa fin dall'inizio...
"Nell'anno giubilare Giovanni Paolo II ha voluto ricordare con forza alla Chiesa
la sua vocazione alla precarietà, all'andare. Il cristiano è uno che cammina verso una
meta, la sua patria è altrove. Ciò significa che il pellegrino porta con sé
l'essenziale, vive la beatitudine dei poveri".
Un pellegrino col bastone, il Papa, dal passo talvolta
affaticato...
"In qualche occasione è apparso provato ed emozionato quasi sul punto di
piangere, come allo Yad Vashem, il monumento dedicato alla memoria della Shoah. Ma proprio
queste immagini silenziose hanno lasciato il segno nell'immaginario collettivo".
A proposito di silenzio: nel suo discorso a Yad Vashem il polacco
Wojtyla è sembrato quasi teorizzare il silenzio come unica "parola" possibile
di fronte al Male.
"In realtà il Papa ha citato un salmo e lo stesso ha fatto al Muro del pianto.
Il pellegrino ha poche cose con sé, ma non gli manca la Bibbia; la Parola di Dio fa parte
dell'essenziale che porta con sé. Giovanni Paolo II ha voluto aprire il suo viaggio al
Monte Nebo e poi toccare - per due volte - il Giordano; ha inteso così proporre una
lettura sapienziale ed esistenziale della Scrittura, Antico e Nuovo Testamento".
Che significa per il Papa leggere un salmo in terra d'Israele?
"Con quel gesto Giovanni Paolo II ha voluto pregare la la Bibbia, mostrare che la
Scrittura non appartiene solo alla tradizione, ma alla Chiesa che l'attualizza come
realtà viva. È la preghiera che illumina e trasforma il rapporto con l'altro. A Yad
Vashem Wojtyla ha potuto incontrare l'altro, nonostante le colpe dei cristiani, perché la
preghiera mette l'uomo di fronte a Dio nella sua autenticità e Dio "rimanda" al
fratello".
Di fronte all'abisso del male, Wojtyla non si è arreso
all'impotenza, al silenzio.
"Perché non si è fermato alla memoria del peccato. La preghiera guarda avanti,
apre alla speranza. Il Papa non ha certo ridotto le proporzioni dell'Olocausto, ma ha
illuminato lo scandalo del male con un'altra luce. La stessa che ha attinto al
Calvario".
È stato il più sorprendente dei fuori-programma del viaggio.
"Il rimettersi in ginocchio davanti alla croce, nonostante la fatica, è un segno
eloquente della fede del Papa: solo nella croce - fa capire - sta la chiave della storia.
Davanti a Cristo in croce Giovanni Paolo II ritrova il silenzio di Dio, lo stesso
dell'Olocausto che tanto - e giustamente - scandalizza gli ebrei. Anche Cristo fa
l'esperienza dell'abbandono: eppure il male non ha l'ultima parola".
Molti ricordano, fra i gesti simbolici di questo viaggio, il
bacio alla terra in Palestina. Qualcuno si è spinto a farne una lettura politica, quasi
un'investitura all'Autonomia palestinese.
"Il gesto più bello - a mio avviso - è stato quando in Israele Giovanni Paolo
II ha ricevuto la terra da tre ragazzi, rappresentanti delle tre religioni: islam,
cristianesimo, ebraismo. In quel momento Barak ha detto "benvenuto in
Terrasanta" anziché in Israele".
L'impressione è che degli eventi di questi giorni ci sia molto
ancora da decifrare.
"È così. Alcuni appelli tuttavia sono molto chiari, in primis la necessità per
la Chiesa di conoscere meglio i "fratelli maggiori". Credo sia venuto il tempo
che nei seminari si cominci a studiare approfonditamente il giudaismo. I pellegrinaggi
sono utili, ma non basta, occorre conoscere meglio il "popolo eletto". E lo
stesso vale per l'islam".
indietro| |inizio pagina |