La
Sinagoga di Milano
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Card Tettamanzi Rav Laras
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Chiesa Ambrosiana e Comunità Ebraica
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Mons. Francesco Coccopalmerio
Sono lieto e onorato, interpretando anche i sentimenti degli altri
componenti della commissione diocesana per l'ecumenismo e il
dialogo, di poter formulare un saluto in questa distinta occasione
della prima visita ufficiale dell'arcivescovo Dionigi Tettamanzi
alla sinagoga maggiore di Milano. Tale visita s'inserisce
felicemente in una ormai lunga serie di rapporti tra la Chiesa
ambrosiana e la comunità ebraica di Milano e tra i loro massimi
rappresentanti. Dobbiamo in primo luogo essere grati all'Onnipotente
per questi rapporti di amicizia, rapporti che sono certamente non
opera nostra ma puro dono suo.
E come non ricordare, a lode del Signore, il
primo incontro tra il rabbino Laras e il cardinale Martini
nell'ottobre dell'anno 1990, oppure l'invito ai cristiani di Milano
alla preghiera conclusiva dello Shabbat il 17 gennaio 1999 e
l'invasione (è il caso di dirlo!) di quasi mille cristiani in
questa sinagoga maggiore, esperienza ripetutasi l'anno seguente;
come non ricordare le decine di incontri, in varie occasioni anche
meno solenni, tra il rabbino Laras e vari rappresentanti dei
cristiani per parlarsi e approfondire la reciproca conoscenza; o
come non ricordare le lezioni di ebraismo tenute per qualche anno
dal rabbino
Kopciowski (di santa e felice memoria) nel seminario teologico
di Milano. Ma l'elenco dei rapporti di amicizia sarebbe troppo
lungo. Permettendomi però, un riferimento personale, non posso non
ricordare i tanti gesti di affetto che ho ricevuto in questi anni da
parte del rabbino Laras, a cui desidero in questa occasione
esprimere i miei sentimenti di profonda stima e riconoscenza.
Eminenza reverendissima, chi come me, chi
come noi più direttamente e frequentemente a contatto con la
comunità ebraica di Milano, ha potuto sperimentare in questi anni
l'accoglienza dei suoi rappresentanti e specialmente del rabbino
Laras, può testimoniarle che ci si trova bene, che ci si trova in
famiglia e questa sua prima visita è certamente l'inizio di un
rapporto di calda fratemità.
Saluto del
presidente ing. Roberto Jarach
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È
per me un grande onore, come presidente di questa comunità,
accoglierla oggi in visita alla nostra sinagoga centrale, Hechal
David u Mordechai, a 13 anni dalla prima visita ufficiale del
suo predecessore cardinale Carlo Maria Martini, nel segno di una
continuità di rapporti sempre improntati al dialogo e alla
reciproca conoscenza.
La nostra giovane comunità, nata solo nella
prima metà dell'800, si è da subito inserita stabilmente nel
tessuto sociale della città trovando accoglienza ed apertura da
parte della cittadinanza e dei suoi governanti.
A
parte il tragico periodo delle persecuzioni razziali, la presenza
ebraica ha segnato molti aspetti della vita cittadina sia nel
pubblico che nel privato, nelle istituzioni, nell'industria, nelle
professioni e nelle arti. Diversi membri della nostra comunità sono
stati insigniti di riconoscimenti ed onorificenze pubbliche a
testimonianza di una presenza di rilievo nel tessuto sociale ed
hanno ricoperto cariche di prestigio.
In particolare i rapporti tra la comunità
ebraica e la diocesi milanese hanno visto momenti di intensi scambi
e di notevoli sinergie nell'affrontare i maggiori problemi sociali
di una città complessa, multiculturale e multietnica come la
nostra.
Abbiamo in particolare apprezzato, in questi
primi mesi di insediamento del card. Tettamanzi alla guida della
diocesi ambrosiana, la sua sensibilità ai problemi dei giovani,
degli anziani e delle fasce bisognose della nostra società: la
nostra comunità, oltre alla difesa dei valori culturali e religiosi
della nostra tradizione, si occupa infatti dell'istruzione giovanile
per il migliore inserimento nel mondo del lavoro, dell'assistenza
agli anziani, sia domiciliare che nella casa di riposo gestita
direttamente, del sostegno morale e materiale a tutti coloro che
vivono situazioni di particolare disagio.
Condividiamo i suoi appelli alla solidarietà
ed alla necessità di valide guide spirituali e morali in un mondo
in cui la tendenza è verso la perdita di valori e l'aumento
dell'individualismo: questi concetti sono profondamente radicati
nelle tradizioni e negli insegnamenti dei nostri maestri.
Ed è in questo campo che le comunità
religiose potrebbero unire gli sforzi per far riemergere nelle
coscienze individuali i valori morali più genuini delle rispettive
dottrine di fronte al materialismo crescente, in un clima di
accoglienza e di rispetto reciproco. Ma, allargando i confini della
nostra vita quotidiana non possiamo dimenticare le preoccupazioni di
tutti noi ebrei della diaspora per la situazione di continuo
pericolo e di minacce in cui vivono i nostri fratelli in Israele:
molto può fare la Chiesa cattolica ed in questa occasione chiediamo
anche a lei una sempre maggior attenzione verso quella pace giusta e
duratura che è l'aspirazione di tutti noi.
Le
iniziative della curia e delle sue organizzazioni in comune con le
comunità ebraiche, oltre a proseguire l'azione di monito sulle
tragedie causate dal razzismo e dall'antisemitismo nel secolo
scorso, dovranno cercare di portare avanti un discorso comune a
sostegno del processo di pace a cui noi siamo tenacemente
aggrappati.
Sono certo che questa sua visita segnerà
l'inizio di un lungo periodo di relazioni cordiali ed aperte al
dialogo ed al confronto interreligioso che, attraverso la conoscenza
reciproca e la ricerca di soluzioni condivise ai problemi della
società, contribuirà allo sviluppo ed al miglioramento della
qualità della vita nella nostra città.
A nome di tutta la comunità ebraica di
Milano le rinnovo l' apprezzamento per la sua decisione di venire in
visita nella nostra sinagoga di via Guastalla, nostro centro
spirituale e formulo i più sinceri auguri di successo della sua
missione pastorale.
Riflessioni
del rav. Giuseppe Laras
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Eminenza
card. Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano: le dò di cuore il
benvenuto della nostra comunità nella sinagoga maggiore di Milano,
centro idealmente propulsivo e ispiratore delle nostre attività
religiose e sociali. La sua visita cade in tempò di Teshuvà o
di Penitenza in questa quasi vigilia del Kippur o Digiuno
dell'Espiazione. La Teshuvà vale per tutti e urge per
tutti. Ma che cos'è questa Teshuvà? È una forza che
converte al bene, che trasforma le nostre persone, restituendole,
rigenerate, a Dio e ai nostri simili, chiunque essi siano.
Parlando di Teshuvà, richiamiamo
automaticamente e fatalmente un'altra straordinaria forza
propulsiva: la fede in Dio. Se, infatti, difettasse la fede, come si
potrebbe fare Teshuvà? Ma, parlando di fede, ci viene
immediatamente alla mente e al cuore l'immagine di Abramo,
capostitipe e fondatore, se così si può dire, della religione
ebraica e padre comune dei fedeli delle tre religioni monoteiste.
Il ricordo del patrimonio umano e spirituale
di Abramo nostro padre deve animare e sorreggere entrambe le comunità
nei momenti particolarmente importanti e critici della nostra
esistenza. lo vedo nella sua figura di arcivescovo di Milano, oggi
in visita da noi, l'anticipazione simbolica di un futuro prossimo di
collaborazione e d'impegno comune su alcuni dei grandi problemi
esistenziali del nostro tempo, che, per meglio essere affrontati,
necessitano di sinergie consapevoli e appassionate.
In Malachia 3,23-24 leggiamo che l'evento
messianico (in cui noi ebrei fortemente crediamo e che intensamente
attendiamo) sarà preceduto e annunciato dal profeta Elia che "avvicinerà
il cuore dei padri a quello dei figli e il cuore dei figli a
quello dei padri". È l' annuncio della riconciliazione,
non solo familiare e intergenerazionale, che caratterizzerà quei
giorni, ma è l'annuncio di un reincontro e di una ricomposizione
nell'unità di fede nel Dio unico fra popoli, creature e fedi
diverse.
A questo riguardo mi piace concludere con
un'altra citazione, questa volta dalla letteratura talmudica (Eduyoth
VIII,7): secondo Rabbi Jeshoshùa, "quando verrà Elia per
annunciare la redenzione messianica universale non verrà per
dichiarare chi è puro e chi è impuro, per
allontanare gli uni e per avvicinare gli altri, ma solo e soltanto
per avvicinare". Secondo altri Elia verrà solo per sedare
e ricomporre divisione e dissidi fra persone e gruppi. Secondo
altri, infine, verrà per mettere pace e concordia fra le creature
nel mondo.
Ecco, Eminenza: i sentimenti e gli auspici
che in questo momento solenne avverto nel mio animo sono orientati
verso la concordia e la pace. Sono certo che anche il suo impegno e
la sua determinazione vanno e andranno anche in futuro nella stessa
direzione. Che il Signore ci aiuti e ci protegga.
Israele "radice santa e "luce delle
genti"
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Vi
sono molto riconoscente per avermi accolto in questa bellissima
sinagoga. A pochi giorni dalla festa di Rosh Ha-shanàh per
l'inizio dell'anno 5764 del calendario ebraico e a un anno dal mio
ingresso come arcivescovo a Milano, sono qui, con particolare gioia
umana e spirituale, per incontrare coloro che, in questa città,
rappresentano - per tutto il mondo e, in particolare, per noi
cristiani e per la nostra fede - il popolo che Dio ha chiamato ad
essere luce per le genti. Ringrazio di vero cuore il presidente ing.
Roberto Jarach e il rabbino capo prof. Giuseppe Laras per le parole
che mi hanno gentilmente rivolto. Sono parole che esprimono
certamente la loro personale sensibilità e apertura d'animo. Ma
sento di doverle accogliere anche come espressione di
quell'attenzione reciproca tra ebrei e cristiani che, a Milano, -
come ha ricordato mons. Francesco Coccopalmiero - ha fatto in questi
anni non piccoli passi in avanti, grazie al clima di dialogo che
l'episcopato del card. Carlo Maria Martini e il rabbinato di rav.
Giuseppe Laras hanno sapientemente favorito.
Questi passi in avanti potranno consolidarsi
e procedere ulteriormente nella misura in cui il dialogo tra
cristiani ed ebrei si svilupperà senza confusione di identità:
differenti, infatti, sono le nostre identità e distinte devono
restare. Il dialogo vero, quello che cerchiamo, può avvenire
nell'incontro schietto e fraterno, destinato a stimolare una
maggiore autocoscienza degli uni nei confronti degli altri. In
questa prospettiva, da parte nostra, come cristiani, non possiamo
avere una corretta consapevolezza della nostra identità se
prescindiamo da Israele, che è, secondo le stesse Scritture
cristiane, la nostra "radice santa" (cf Rm 9-11 ). Tanto
meno possiamo prescindere dalle Scritture ebraiche che, per noi,
costituiscono il primo testamento della Bibbia. Per dono
dell'Altissimo, noi le abbiamo in comune con voi che, come popolo,
siete stati i primi destinatari delle promesse e della rivelazione
del Dio Uno ed Unico. In questo senso, Giovanni Paolo Il ha più
volte ricordato ai cristiani che voi ebrei siete il "popolo
dell'alleanza mai revocata" perché "i doni e la
chiamata di Dio sono irrevocabili" (Rm 11,29). È questa
una verità straordinaria che purtroppo, lo dobbiamo confessare,
nella storia cristiana, abbiamo spesso dimenticato!
Le
Scritture, che abbiamo in comune e che le nostre tradizioni
accolgono come Parola di Dio, ci svelano l'agire del Signore Dio
nella storia: egli sceglie Israele, separandolo dagli altri popoli
per un servizio sacerdotale fra le genti (cf Es 19,5-6). Così, ad
esempio, nel libro di Isaia, Israele è esplicitamente designato più
volte con il titolo di servo del Signore (cf Is 41,8-9; 42,1;
43,10; 44,1-2.21; 45,4; 48,20; 49,3). In particolare, nel primo
canto del servo, Dio si rivolge al suo popolo con queste parole: "Io
il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per
mano; ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo e
luce delle nazioni perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia
uscire dal carcere i prigionieri dalla reclusione coloro che abitano
nelle tenebre" (Is 42,6-7) E, nel secondo canto, è il
servo stesso che parla così del Signore: "Mi ha detto: mio
servo tu sei Israele, sul quale manifesterò la mia gloria... io ti
renderò luce delle nazioni perche porti la mia salvezza fino
all'estremità della terra" (15 49,3.6b).
Isaia, dunque, annuncia che la gloria di
Dio si manifesta nel servizio del suo popolo chiamato ad essere luce
delle nazioni, a portare la luce della Parola di Dio a tutte le
genti. Quest'elezione di Israele, allora, è per una missione nel
mondo e non viene meno nel tempo perché è fondata sulla fedeltà
di Dio alle sue promesse. Dio, poi, intende radunare il suo popolo
per manifestare in esso la sua santità davanti a tutte le genti,
come afferma questo testo di Ezechiele: "Le genti sapranno
che io sono il Signore quando mostrerò la mia santità in voi
davanti ai loro occhi. Vi prenderò dalle genti, vi radunerò da
ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo" (Ez 28,25-26).
E, secondo Zaccaria, "popoli numerosi e nazioni potenti
verranno a Gerusalemme a consultare e a supplicare il Signore... In
quei giorni, dieci uomini di tutte le lingue delle genti
afferreranno un Giudeo per il lembo del mantello e gli diranno:
vogliamo venire con voi perché abbiamo compreso che Dio è con
voi" (Zc 8,20.23).
È questo, anche agli occhi di un cristiano, il significato
profondo della vocazione d'Israele. Questa vocazione non è un
privilegio da invidiare o di cui appropriarsi per sostituirsi al
popolo eletto. È, invece, una grazia ed un compito che il Dio
Creatore e Signore della storia ha affidato al più piccolo di tutti
i popoli della terra (cf Dt 7,7): una grazia e un compito a
vantaggio di tutti, che responsabilizzano il popolo eletto e che,
anche da parte di noi cristiani, vanno accolti con gratitudine verso
l'Onnipotente. Mediante la testimonianza visibile della diversità
di questo popolo, infatti, tutte le genti sono provocate a
riconoscere l'alterità di un Dio che, nello stesso tempo, è
trascendente e immanente, perché le sue vie e i suoi pensieri non
sono come i nostri (cf Isaia 55,8-9) e perché il suo amore
misericordioso di Padre si rende vicino e.si lascia trovare da chi
lo cerca (cf Dt 4,7; Is 55,1-7).
L'elezione
d'Israele, pertanto, non è esclusiva ma rappresentativa. È il
segno e la testimonianza della libera gratuità di Dio, che si
sceglie un popolo perché la sua benedizione passi a tutte le genti,
secondo la promessa fatta ad Abramo (cf Gen 12,3).
Le Scritture del Nuovo Testamento, che la
preghiera liturgica della Chiesa ripropone ogni giorno ai cristiani
confermano e ribadiscono la prospettiva d'Israele come "luce
per le genti": La attestano in tre cantici del Vangelo di
Luca, nei quali rispettivamente, Maria Madre di Gesù, Zaccaria
padre di Giovanni Battista e il vecchio Simeone al tempio parlano di
Israele come servo E popolo del Signore Dio (cf Lc 1,46-56; 1,68-79;
2,39-32). In particolare, Simeone, uomo giusto e timorato di Dio che
attendeva la consolazione d'Israele (cf Luca 2,25), prendendo tra le
sue braccia il bambino Gesù, si rivolge a Dio esclamando: "I
miei occhi hanno visto h tua salvezza, preparata da te davanti a
tutti i popoli, luce per illuminare le geni e gloria del tuo popolo
Israele" (Lc 2,30-32).
Certo, per i Vangeli e per noi
cristiani, l' ebreo Gesù realizza la vocazione del suo popolo in un
modo singolare. Per questo, noi professiamo che nella sua carne
umana ha dimorato in pienezza lo Spirito divino del Padre, Dio
d'Israele Signore del cielo e della terra(cf Gv 1,14;Col 2,9).
In lui riconosciamo il Messia ( cui attendiamo una nuova venuta
perché, secondo la promessa di Dio, anche "noi aspettiamo
nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la
giustizia" (2 Pt 3,13).
Sappiamo che proprio da questa
interpretazione della persona di Gesù deriva l'irriducibile
diversità del fede cristiana rispetto a quella ebraica. E tuttavia
siamo convinti che, come afferma Giovanni Paolo II, Chiesa popolo
ebraico sono due comunità legate a livello dE la loro stessa
identità e che entrambi rimangono nel comune attesa della
realizzazione, in modo visibile pieno, dei tempi messianici. Il
senso apportato dal Vangelo alle precedenti Scritture, infatti, non
elimina ogni altro senso. È Gesù stesso ad affermarlo: "Non
pensate che io sia venuto ad abolire la legge o i profeti" (Mt
5, 17). Per questo il cristiano dovrà sempre considerare che il
popolo ebraico è stato chiamato ad essere, nella storia, luce per
le genti.
Non è certo mia intenzione esplorare qui ed
ora il legame tra le due nostre identità: quella ebraica e quella
cristiana. Desidererei, piuttosto, che lo scoprissimo, più che
nella teoria, sul piano della prassi, dell'azione concreta, del
dialogo per collaborare a realizzare almeno qualche aspetto della
missione che accomuna ebrei e cristiani.
Abbiamo in comune l' esigenza di essere
liberati e di liberare dalla schiavitù dell'idolatria e
dell'ignoranza del nome di Dio. Di fronte alle grandi sfide e ai
gravi problemi del mondo di oggi, possiamo insieme contribuire alla
ricerca di un'etica sapiente, fondata sull'insegnamento di Dio e
sulle nostre secolari tradizioni, e, capace nel contempo, di
coinvolgere anche le componenti laiche delle nostre comunità e di
parlare alle coscienze dei nostri contemporanei.
Nella fedeltà all' alleanza, che Dio rende
sempre nuova secondo la promessa dei profeti, possiamo cooperare nel
servizio di portare la luce della Parola di Dio agli uomini e alle
donne di oggi: questo esige che tutti ci mettiamo in un permanente
atteggiamento di Teshuvà, di ritorno a Dio.
Il 10 del mese di Tishri, per voi è Yom
Kippur, il giorno dell'espiazione e del perdono, il sabato dei
sabati, la festa più santa e più solenne del vostro calendario
religioso. Seguendo le indicazioni della Mishnà, voi
osservate i precetti biblici della Torà, in cui Dio chiede al suo
popolo di fare propiziazione e di umiliarsi (cf Lv 16,2931;
23,27-32; Nm 29,7).
Ci sono sempre di esempio la volontà
sincera di prendere coscienza dei peccati e delle insufficienze
umane nel vivere l'elezione di Dio e la volontà di chiedere perdono
a Dio e di fare festa per poter uscire, in forza della sua
misericordia, dalle situazioni negative.
Per la verità, tutti siamo peccatori, tutti
dovremmo fare Kippur. Lo dovremmo fare anche noi cristiani,
perché anche noi facciamo triste esperienza della nostra infedeltà
alla chiamata di Dio.
Sono qui, allora, a dirvi che noi cristiani
dobbiamo fare Teshuvà. Sì, dobbiamo tornare a Dio e, con la
forza del suo perdono, dobbiamo lenire le ferite che la nostra
storia ha procurato a uomini e donne di altre fedi. Tra questi,
primi fra tutti, ci siete voi e il vostro popolo, che siete il
popolo dell'unico nostro Dio.
È vero: la tragedia della shoà ha
scosso le coscienze. Ma non ancora tutte. Anzi rimangono ancora,
purtroppo, presenti i rischi di un antisemitismo sempre risorgente.
Per questo, è necessaria una comune vigilanza, soprattutto tra gli
ebrei e quei cristiani che hanno incominciato a prendere coscienza
delle forme di antigiudaismo presenti nella propria tradizione.
Mi è stato segnalato un fatto positivo: la
Giornata dell'ebraismo, che i vescovi italiani da ormai tredici anni
promuovono il 17 gennaio per favorire una positiva relazione tra
cristiani ed ebrei, sarà celebrata dal prossimo
gennaio nella nostra città non solo dai cattolici, ma da tutti
i cristiani delle sedici diverse confessioni che aderiscono al
consiglio delle Chiese cristiane di Milano.
È soprattutto per la pace che ebrei,
cristiani, uomini e donne di tutte le grandi religioni devono
dialogare e operare insieme. Anzitutto con la preghiera e
l'intercessione: come certamente sapranno, il mio predecessore, il
cardinale Carlo Maria Martini, si è recato a Gerusalemme proprio
per intercedere ogni giorno per la pace in quella città e in quella
terra, in cui pulsa il cuore della storia. "Non ci sarà
pace sul pianeta - egli non si stanca di dire - finché non ci
sarà pace a Gerusalemme". Anche l'incontro tra i leader delle
religioni è indispensabile affinché i popoli della terra cerchino
vie di pace e non scontri di civiltà, scontri che i fondamentalismi
religiosi alimentano.
In questa prospettiva di pace, l'arcidiocesi
ambrosiana all'inizio di settembre dell'anno 2004 ospiterà a Milano
l'incontro internazionale interreligioso, promosso insieme dalla
comunità di sant'Egidio.
Desidero infine augurare di tutto cuore alla
vostra comunità di Milano, come recita il mio motto episcopale "gioia
e pace" per il nuovo anno appena iniziato e per le
prossime grandi feste di Kippur e Sukkot che vi
attendono. Il Signore benedica il vostro popolo perché sia sempre
luce delle genti.
Card. Dionigi Tettamanzi