1. Le opere scoperte a Qumran1
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Le grotte di Qumran ci hanno restituito un gran numero di
opere ebraiche, scritte sempre materialmente prima della chiusura delle grotte,
quindi prima del 70 d.C. Si tratta, pertanto, di un materiale di prima mano di
singolare importanza, perché non avevamo prima della scoperta di Qumran nessuna
documentazione diretta in ebraico della letteratura del Giudaismo Medio.2
I testi scoperti nelle grotte di Qumran si possono
raggruppare facilmente nei tre tipi seguenti:
-
Testi contenenti libri
biblici o frammenti di libri biblici; in questo caso, anche se si tratta di
frammenti piccoli, poiché il contesto è già noto, essi sono di grande
importanza per la storia del testo biblico. Servono, dunque, per la storia
del testo, non per farci un'idea di libri che non conoscevamo. I libri erano
già noti.
-
Libri, che già
conoscevamo, ma non in tradizione diretta, bensì solo in traduzioni
antiche: sono i cosiddetti «apocrifi o pseudepigrafi dell' Antico
Testamento», che vengono così ad assumere una dignità, un'importanza che
prima non avevano.
-
Testi assolutamente nuovi,
che ci aprono sulla conoscenza di una teologia giudaica che conoscevamo solo
per via indiretta e piuttosto vaga, quella essenica. In effetti le opere
scoperte nelle grotte di Qumran, che non rientrano ne fra quelle bibliche,
ne fra quelle apocrife, si distinguono per una forte unità ideologica.
Dovevano essere testi che non interessavano ne agli ebrei, ne ai cristiani
ed erano quindi caduti nell'oblio. Nelle raccolte di «Manoscritti di Qumran»
si trovano solo questi. Questo tipo di testi è stato individuato come
essenico sulla base delle notizie sugli esseni che ci hanno lasciato alcuni
autori antichi, fra cui i principali sono Filone e Giuseppe Flavio.3
D'
altra parte non è chiaro se tutto il materiale del terzo gruppo, per il solo
fatto che molte opere di esso sono certamente esseniche possa essere considerato
tutto essenico. In altri termini esistono opere qumraniche che potrebbero anche
non essere esseniche.4 Questo comporta la necessità di porre
l'accento più sulle idee e sul loro concatenamento che sull' etichetta da
attribuire a ciascuna di esse.
2. I
manoscritti biblici torna all'indice
Il dato più interessante che è emerso dai frammenti
contenenti passi biblici è questo: abbiamo trovato il modello ebraico su cui fu
fatta la traduzione greca (quella detta comunemente dei LXX). Ora i L XX erano
noti per essere il testo più diverso da quello della tradizione ebraica e da
quello della Vulgata latina, che fu tradotta da S. Girolamo sull'ebraico; questa
differenza era attribuita alle libertà che i traduttori greci si sarebbero
prese. Oggi sappiamo che questo non è vero: i LXX sono soltanto la traduzione
fatta su un testo diverso da quello diventato poi tradizionale all'interno del
giudaismo e, per merito o demerito, a seconda dei punti di vista, di San
Girolamo, anche delle Chiese cristiane.
Penso che questo fatto abbia una discreta importanza teologica
per i cristiani, anche se non sono in grado di esprimere giudizi in questo
campo. La Bibbia greca fu la Bibbia dei «Padri» e oggi noi sappiamo con
discreta certezza che questa Bibbia non era una Bibbia tradotta male
dall'ebraico,5 ma era una Bibbia tradotta da un testo
ebraico diverso da quello che si è affermato in seguito perché usato dai
farisei e divenuto, quindi, dopo la catastrofe del '70 d.C. e la fine delle
competizioni interne del giudaismo, il testo ebraico per eccellenza. Fu a
quest'ultimo che si rifece S. Girolamo, perché al suo tempo (fine del IV inizi
del V secolo) la Bibbia scritta in ebraico non aveva altri tipi di testo.6
Per lui il testo dei rabbini era l' «Hebraica Veritas»7
Inoltre i testi biblici scoperti a Qumran si presentano,
nella maggior parte, simili al testo ebraico medievale (il cosiddetto
"testo masoretico"), sia pure senza le vocali e senza gli accenti, che
furono inseriti solo verso la fine del I millennio d.C. Essi, dunque, pur avendo
rispetto al testo medievale un buon numero di varianti, rappresentano la più
antica tradizione masoretica: una documentazione più antica di circa mille anni
rispetto a quella prima in nostro possesso.
L 'importanza di questi dati deve essere ancora valutata. In
ogni caso i credenti possono stare tranquilli, perché l'antichità della
Bibbia, sia ebraica sia greca, è confermata; i filologi, al contrario, hanno
davanti a sé una bella mole di lavoro.
3. Le scoperte di Qumran e gli apocrifi
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Con il nome di «apocrifi» (detti dai protestanti «pseudepigrafi»)8 si indicano opere tramandate solo da chiese cristiane e
ignorate dalla tradizione giudaica, per quanto si tratti di opere ebraiche
scritte tra il IV sec. a.C. e gli inizi del II sec. d.C. Si tratta sempre di
testi che erano giunti a noi non in lingua originale, ma nella lingua di qualche
chiesa cristiana: talvolta il medesimo libro apocrifo ci è giunto anche in
parecchie lingue diverse. Fra le lingue in cui ci sono giunti libri apocrifi
ricordo il greco, il latino, il siriaco, l'etiopico, il copto nei suoi vari
dialetti, il georgiano, l'armeno, il paleoslavo. Talvolta opere di contenuto
diverso, ma apparentemente aventi all'origine lo stesso titolo, sono oggi
identificate con l'aggiunta del nome della lingua al titolo. Per esempio: Enoc
Etiopico è detto così perché a noi è giunto in forma integrale solo con
la traduzione in questa lingua e non ha nulla a che fare con l' Enoc Slavo, cosiddetto
sempre dalla lingua in cui ci è pervenuto.
Fra queste opere, di alcune delle quali ora possediamo
in originale i frammenti trovati a Qumran, ricordo per la loro importanza i
cinque libri dell' Enoc Etiopico,9 che vanno dal IV
sec. a.C. fino al I a.C., il Libro dei Giubilei (Il sec. a.C.) e i tardi Enoc
Slavo, l' Apocalisse Siriaca di Baruc, il Quarto Libro di Ezra, tutti
del I sec. d.C. Per dare un'idea del peso che alcune di queste opere hanno avuto
nella tradizione culturale cristiana, menziono tre fatti:
-
In calce alle edizioni
della Vulgata è sempre stato stampato dal Concilio di Trento fino agli
inizi di questo secolo l'apocrifo Quarto libro di Ezra. Il motivo è
facile a dirsi: vi è una completa teoria del peccato originale, quale non
si trova esposta in nessun testo canonico. Eppure il testo non è cristiano.
-
In quanto all' Enoc
Etiopico, esso è canonico nella Chiesa copta.
-
Esso è citato nella Lettera
di Giuda (v. 14), testo canonico neotestamentario.
Il fatto
stesso che molte opere lette a Qumran siano state tramandate dai cristiani e
dimenticate dagli ebrei è indizio fortissimo che la tradizione cristiana
affonda le sue radici nell' humus palestinese molto più di quanto non si
credesse: angelologia e demonologia, rappresentazioni dell'inferno e del
paradiso derivano per lo più da tradizioni apocrife, che ora sappiamo bene che
erano di origine ebraica.
Appare sempre più chiaro che anche gli apocrifi niente
altro erano che letteratura giudaica a sfondo religioso del tempo che va dal 300
a.C. in poi. Anche in questo caso i frammenti hanno una grande importanza, perché
ci permettono di farci un'idea più precisa di testi che già conoscevamo.
Eppure il loro studio sistematico e la loro valorizzazione è cominciata solo
con la scoperta dei frammenti qumranici.
Resta da spiegare per quale ragione questi testi
noti da sempre alla nostra cultura non siano mai stati valorizzati come
meritano, in quanto rappresentano lo sfondo del pensiero giudaico sul quale
nacque il cristianesimo. Ma è proprio questo il motivo che li rese sospetti ai
teologi. Erano testi che piacevano soprattutto agli storici laici, che cercavano
le radici storiche del cristianesimo allo scopo evidente di dimostrare che
esso era un prodotto storico simile a tutti gli altri privo di valenze
soprannaturali. Nel sec. XVIII è notevole a questo proposito la figura del
Reimarus,10 il quale pose chiaramente il problema storico
della nascita del cristianesimo, usando, sia pure con una certa discrezione,
testi apocrifi. È naturale la reazione dei teologi, che però imboccò la via
sbagliata: invece di valutare il fenomeno storico quale appariva, preferirono
negare il valore della documentazione, cioè degli apocrifi.
Una prima raccolta di apocrifi fu fatta nel XVIII secolo
in traduzione latina da parte di J.A. Fabricius;11 nel secolo
passato un'altra raccolta fu fatta da J.P. Migne;12 ma solo in
questo secolo sono cominciate le grandi raccolte di apocrifi. In italiano la
prima, la sto curando io e spero di concluderla abbastanza presto. Comunque, lo
studio sistematico del pensiero raccolto in queste opere è cominciato solo con
la scoperta dei manoscritti di Qumran.
E. Mangenot definisce gli apocrifi in blocco come fiction,
«fantasie, inganni»;13 J.B. Frey spiega «la juste sévérité
de l'ancienne église» nella condanna degli apocrifi come dovuta al «péril très
grave pour la pureté de la fois catholique) rappresentata dai detti apocrifi.14
Per quanto l'autore sembri avere in mente più quelli del Nuovo Testamento che
quelli dell' Antico, tuttavia nel giudizio gli apocrifi sono accomunati: sono un
pericolo grave per la fede cattolica (forse voleva dire «cristiana»). Ancora
nel 1948 A. Penna dice che gli apocrifi «letterariamente non meritano
considerazione particolare»: hanno la mania del meraviglioso e sono
inverosimili a differenza dei libri canonici; lamenta che perfino «alcuni padri
e alcune chiese particolari tributarono un onore indebito a scritti di questo
genere».15 Il disprezzo è evidentissimo; non si sfugge
nemmeno all'impressione che questi teologi sentissero davvero gli apocrifi come
un pericolo per la fede. Comunque, se fino alla scoperta dei Manoscritti di
Qumran era possibile ignorarli nello studio del Giudaismo Medio, oggi non è più
possibile.
4. I testi di Qumran e l' essenismo
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Come già detto, dell'essenismo avevamo notizie indirette da
parte di autori ebrei che scrivevano in greco. Ora abbiamo una documentazione
diretta. Se molti manoscritti qumranici né biblici, né apocrifi possono essere
indicati con sicurezza come essenici, per altri restano dubbi circa la loro
matrice ideologica. Da qui la necessità di non insistere troppo sulle
etichette, ma di affrontare i vari problemi indipendentemente dalla sicurezza
che si tratti di materiale veramente essenico.
5. Problemi di metodo per condurre i confronti
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Il confronto del materiale cristiano (Nuovo Testamento) con
quello di altri gruppi giudaici dell'epoca può essere condotto a due livelli,
che possono essere indicati come quello delle macrostrutture e quello delle
microstrutture. Se uno sfoglia lo Strack e Billerbeck16 può
avere l'impressione che nei Vangeli non ci sia nulla che non sia tramandato
anche dalla tradizione rabbinica: singole frasi e singole massime sono
documentate simili o uguali nell'uno come nell'altro corpus. Ma, come nota Ben
Chorin,17 è l'accumularsi nel Nuovo Testamento di un certo
tipo di massime e di pensiero che dà a questo un aspetto inconfondibile di
fronte alla tradizione rabbinica.
Il fatto è
che l'uso, tipico degli ebrei, di esprimersi ricorrendo spesso a tópoi
letterari universalmente noti, tanto che molti sopravviveranno fino al più
tardo Talmud,18 fa sì che una medesima massima possa
essere impiegata per difendere anche idee differenti.19 In
altri termini, il confronto non va condotto, o non va condotto solamente, a
livello di singole frasi (microstrutture), ma va esteso a interi contesti e alle
idee soggiacenti (macrostrutture). Allora si scopre che i paralleli col Nuovo
Testamento sono particolarmente numerosi nella letteratura apocrifa e qumranica:
in termini ideologici, il cristianesimo è più vicino all'essenismo e
all'apocalittica che non al farisaismo, perché da questo diverge su temi
fondamentali. Con questo non voglio dire con Renan che il cristianesimo è
"un essénisme qui a réussi", perché le fratture fra teologia
essenica e teologia cristiana, fra apocalittica e cristianesimo sono robuste.
6. Il tema della giustificazione per adesione a un gruppo e a un credo
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Fino alla scoperta dei Rotoli di Qumran, credevamo che
il concetto di giustificazione e in particolare di giustificazione per fede
fosse paolino. Certo, è paolina l'idea che la giustificazione è per la fede in
Cristo risorto, ma, come vedremo, l'idea che la salvezza è dono gratuito di
Dio, dono condizionato solo da qualcosa che è molto vicino al nostro concetto
di "fede", preesiste al cristianesimo. La teologia cristiana delle
origini ha usato categorie ebraiche già esistenti per interpretare la Croce e
la Resurrezione, il loro significato e il loro valore.
Guardiamo il problema nelle sue linee essenziali. Al
tempo di Gesù erano accettate come verità indiscusse da tutti, o comunque
dalla grande maggioranza degli ebrei, queste due:
-
L' esistenza di una vita
oltre la morte: dopo la morte Dio avrebbe separato i buoni dai cattivi, gli
uni per il paradiso gli altri per l'inferno.
-
La duplice convinzione che
il paradiso toccava ai giusti, ma che il giusto sulla terra non esisteva:
se, pertanto, qualcuno si poteva salvare, questi non poteva essere il
giusto, ma solo colui che Dio considerasse tale, cioè, in termini nostri,
il giustificato. Dunque, il problema su cui si discuteva nel I sec. d.C. non
era se si salvasse il giusto o il giustificato, ma era lo strumento o le
condizioni per cui Dio giustificasse qualcuno sì e qualcuno no.
Esseni e
farisei si fronteggiavano su due posizioni opposte. Per i farisei Dio
giustificava colui che nella vita avesse fatto (lo dico semplificando la
soluzione, che, oltre tutto ci è nota solo da fonti più tarde)20
più opere buone che opere cattive. In altri termini, i farisei concepivano il
Giudizio dopo la morte come riguardante tutta la vita dell'individuo, con tutto
il bene e con tutto il male commesso. In quest' ottica le opere compiute avevano
ovviamente una grande importanza; erano fondamentali. Al contrario gli esseni
dovevano ritenere che in Giudizio si rispondesse solo degli atti di
trasgressione della Legge: in questa visione delle cose il Giudizio fondato
sulle opere non poteva che essere di condanna, perché era convinzione comune
che il giusto assoluto non esisteva.
Nel Commento ad Abacuc o Pesher
Habacuc (pHab 8,1-3) là dove l'autore antico interpreta il celebre passo di
Abakuk "il giusto vivrà per la fede" si legge: «Dio li libererà dal
Giudizio a motivo della loro sofferenza e per la loro fede nel Maestro di
Giustizia».21 Il senso è: «Chi ha fede, o almeno resta
fedele all'insegnamento se non alla persona stessa del Maestro di Giustizia,
eviterà di essere portato davanti al tribunale di Dio». Come si deduce anche
da altri testi qumranici, il credente, l'esseno, vive già in questo mondo nella
dimensione del sacro e dell'eterno: è parte di quell'immenso tempio che è il
cosmo. In alto, al di sopra della sacertà stessa del tempio sta Dio nella sua
divinità, dalla quale scende verso la terra una forza santificante gli angeli e
gli uomini ( ovviamente se hanno accettato l'insegnamento del Maestro di
Giustizia). Per il credente non c'è Giudizio; per questo si salva.
Ed ecco un passo di Giovanni che
sembra strutturato sulla medesima armonia di idee (5,24): «Chi ascolta la mia
parola e crede in colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro
al Giudizio, ma è passato dalla morte alla vita». Il cristiano è già nella
vita e quindi non ha senso il Giudizio che dovrebbe introdurre nella vita. E
ancora per quanto riguarda il Giudizio (3,18): «Chi crede in lui non è
giudicato, ma chi non crede è già stato giudicato». La traduzione corrente,
che segue il senso, recita: «Chi crede in lui non è condannato; ma chi non
crede è già stato condannato». «Essere giudicati» e «essere condannati»
sono diventati sinonimi, perché, evidentemente, si accettava il principio anche
da parte di Giovanni che in Giudizio si parla solo delle trasgressioni della
Legge, non degli atti di osservanza; e non c'è uomo senza peccato. Chi ha fede
è semplicemente liberato dal Giudizio.
Si
legge in Paolo (Gal 3,10): «Quelli che si richiamano alle opere della
Legge stanno sotto la maledizione, perché sta scritto: "Maledetto colui
che non rimane fedele a tutte22 le cose scritte nel libro
della Legge, per praticarle"». Se, dunque, ognuno finisse davanti al
tribunale di Dio per essere giudicato, secondo Paolo nessuno si salverebbe,
perché Paolo pensa al Giudizio come al luogo dove si va solo per rispondere
delle proprie mancanze; se per qualcuno c'è salvezza, questa non può che
dipendere dal fatto che il Giudizio basato sulle opere non c'è, ovviamente per
chi ha la fede nel Cristo risorto. Il sacrificio del Cristo è chiaramente
spiegato per mezzo di categorie teologiche preesistenti e documentate
soprattutto nei testi di Qumran in senso stretto.
7. Il matrimonio torna all'indice
Come è noto, Gesù era contrario al divorzio, o
meglio, nei termini della società giudaica del suo tempo, al ripudio. Nella
tradizione cristiana l'indissolubilità del matrimonio è sempre stata
interpretata come un' innovazione cristiana all' interno della società
giudaica, che si dava per scontato ammettesse tutta il ripudio. Sapevamo di
discussioni in seno al farisaismo circa i motivi che giustificavano il ripudio,
ma non che fosse messo in discussione in seno al giudaismo il principio stesso
della liceità del ripudio. Questo, invece, emerge da un testo di Qumran che
rispecchia il pensiero essenico. Ma osserviamo con quante difficoltà esso viene
usato, se non addirittura ignorato.
Leggiamo il testo di Marco (10,2ss). Vedremo poi qualche
commento di autori moderni. «Avvicinatisi (a Gesù) alcuni farisei, per
metterlo alla prova gli chiesero se fosse lecito ad un uomo ripudiare la propria
moglie». La domanda è chiara: qualcuno domanda a Gesù come la pensa circa un
problema, che evidentemente esisteva già. Pertanto l'interpretazione del passo
non dovrebbe lasciare dubbi, indipendentemente dalla presenza o meno di una
documentazione esterna al Nuovo Testamento. Invece un commentatore - che ha
scritto dopo le scoperte di Qumran, ma che preferisce ignorarle - spiega il
passo in maniera piuttosto lambiccata: «poiché il ripudio era chiaramente
ammesso dalla legislazione in vigore (Dt 24, 14), l'insidia dei fari sei
doveva consistere nell'indurre Gesù a pronunciarsi sull'unica condizione allora
in discussione; e cioè sul modo di intendere la clausola della Legge, secondo
la quale il marito poteva ripudiare la moglie, qualora avesse trovato in lei
"qualcosa di turpe"».23 Ma così il testo di Marco
viene stravolto, in quanto a Gesù si sarebbe chiesto soltanto quali fossero le
cause per cui un uomo poteva ripudiare la moglie. (E questa discussione c'era
effettivamente, ma solo in seno al farisaismo).
Guardiamo adesso un altro commento più complicato:
l'autore24 ammette che chi fece la domanda a Gesù sapeva bene
di porre il problema se era lecito o no il divorzio, ma la soluzione è
sconcertante: i farisei hanno appreso dai cristiani stessi la posizione di Gesù;
questo naturalmente significa che il racconto evangelico è una pseudostoria,
perché in realtà riferirebbe di una discussione avvenuta tra cristiani della
prima ora e farisei. E quello che è più curioso è che l'autore tedesco
ammette che la domanda farisaica potrebbe anche avere a fondamento il
comportamento essenico; ma detto questo, il discorso essenico non è più
ripreso. Ma è proprio necessario mettere avanti ipotesi complicate, quando ce
n' è a disposizione una semplice e ovvia?
Se leggiamo il testo di Marco così come è scritto, il
senso della domanda è chiaro: Il ripudio è lecito, come dice qualcuno, o non
è lecito, come dice qualche altro? Questo «qualcun altro» oggi è noto: è l'essenismo.
E così si capisce bene anche perché l'evangelista abbia scritto «per metterlo
alla prova»: i farisei, come gruppo, volevano sapere da che parte stava Gesù.
Ed ecco ora la documentazione qumranica su questo argomento.
Si legge nel Documento di Damasco 4,20-21: «Essi (cioè gli avversari,
quelli che sbagliano) prendono due donne nella loro vita (con "loro"
al maschile e, quindi, chiaramente riferito agli uomini), mentre il principio
della creazione è "maschio e femmina Dio li creò"». Come si vede,
l'essenismo escludeva non solo il ripudio, ma anche le seconde nozze, perché il
senso del brano letto sopra è: «La colpa consiste nel fatto che gli avversari,
cioè quelli che la pensano diversamente, prendono due mogli durante la loro
vita». Interessante che Gesù usi per fondare nella Bibbia il suo insegnamento
il medesimo passo del Genesi, impiegato dal manoscritto qumranico: «maschio e
femmina Dio li creò». Al Documento di Damasco si può aggiungere anche
la testimonianza del Rotolo del Tempio (57,15-19). In questo testo, che
parla del re, le seconde nozze sono chiaramente ammesse, ma il ripudio è
altrettanto chiaramente proibito: «(il re) non prenda in moglie nessuna donna
figlia di gentili, bensì prenda in moglie una donna del casato di suo padre.
Non prenda in moglie nessun'altra donna. Lei sola sia con lui per tutti i giorni
della sua vita. Se essa muore, prenda in moglie un'altra donna del casato di suo
padre, della sua famiglia».
Mi domando perché tanta ritrosia ad accettare l'evidenza.
Viene in mente che si voglia salvare l'originalità dell'insegnamento di Gesù.
Ma forse è un'altra l'originalità da salvare ed è quella dell'accademia
teologica: in effetti, ogni volta che si stabilisce che un passo evangelico non
è lo specchio di problemi più tardivi, ma è lo specchio di cose del tempo di
Gesù, si porta un colpo contro la complessa costruzione operata dalla critica
letteraria del Nuovo Testamento, che tende ad attribuire alla prima comunità
cristiana insegnamenti e affermazioni che i vangeli attribuiscono a Gesù.
8. Il problema del Figlio dell'Uomo.
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E ora guardiamo un caso in cui i testi di Qumran ci
hanno aiutato a capire il Nuovo Testamento in maniera indiretta, cioè
attraverso la valorizzazione degli apocrifi e attestazioni di credenze
parallele. È il caso del Figlio dell'Uomo. Gesù nei vangeli non chiama mai se
stesso Messia, ma indica se stesso con l'appellativo di "Figlio
dell'Uomo". Poiché la comunità primitiva non usò mai questo titolo per
indicare Gesù, è certo che l'espressione è tipicamente gesuana. Il problema
è che cosa significasse.
I commentatori fanno riferimento a Daniele 7,13-14. Ma
dal libro di Daniele non si ricava molto per capire come Gesù interpretasse se
stesso. Nel libro di Daniele la figura del Figlio dell'Uomo è manifestamente un
simbolo che sta ad indicare il popolo di Israele, il popolo dei santi di Dio (Dn
7,27). Ma per Gesù il termine non è una metafora per indicare Israele, è
un titolo o qualcosa del genere che egli applica a se stesso. La maggior parte
dei critici ha sempre cercato di capire il valore del termine deducendolo dal
contesto stesso dei vangeli e arrivando a una delle conclusioni seguenti: Gesù
chiama se stesso Figlio dell'Uomo per una sorta di umiltà (cf. Bonsirven25
e Lagrange26) .Altri ci ha visto un' assolutizzazione dell'uso
che fece di questo termine Ezechiele (Procksch27). Altri
(Vermes28) ha cercato di spiegare il termine come una forma
dialettale giudaica che vorrebbe dire soltanto "io". Altri ancora
hanno cercato addirittura nella letteratura greca - il poimandres - (Dodd29).
E fa stupore che un'opera seria come quella recente di Conzelmann30
nelle pagine dedicate al Figlio dell'Uomo non menzioni nemmeno il Libro delle
Parabole. Qualcuno (Mowinckel31) ha intuito che l'opera
fondamentale da tenere presente per capire che cosa significasse l' espressione
"Figlio dell'Uomo" è il Libro delle Parabole, ma resta
piuttosto isolato. Ora il Libro delle Parabole è datato con sicurezza a
circa l'anno 30 a.C. e vi appare una figura chiamata Figlio dell'Uomo che ha le
seguenti caratteristiche: è una persona, non una collettività; ha natura
superumana, perché è creato prima del tempo e vive tuttora; conosce tutti i
segreti della Legge e perciò ha il compito di celebrare il Grande Giudizio alla
fine dei tempi.
Questa figura dotata delle funzioni di giudice
escatologico doveva essere ben nota alla gente, perché nessuno domanda mai a
Gesù che cosa mai sia questo Figlio dell'Uomo. Alla luce di quanto abbiamo
appreso dal Libro delle Parabole, leggiamo qualche passo dei vangeli a
proposito del Figlio dell'Uomo. Si legge in Giovanni 5,27: «Dio ha dato a Gesù
il potere di giudicare, perché è il Figlio dell'Uomo». Dunque, Giovanni
sapeva, e si rivolgeva a lettori che sapevano, che cosa voleva dire «Figlio
dell'Uomo» (in questo caso nel greco manca l'articolo, ma si tratta di un
problema di sintassi greca, perché «Figlio dell'Uomo» è predicato nominale).
Ed ora sentiamo le parole che un altro evangelista, Marco, mette in bocca a Gesù
(2,1ss). È l'episodio della guarigione del paralitico. Gesù si trova in una
casa e un gruppo di persone che trasporta un paralitico su una lettiga cerca di
avvicinare Gesù, all'evidente scopo di ottenerne la guarigione. Poiché c'è
troppa gente, scoperchiano il tetto e calano il paralitico davanti a Gesù, il
quale, trovatosi davanti a quest'uomo, gli dice: «Figliolo, ti sono rimessi i
tuoi peccati». A questa sortita alcuni dei presenti protestano osservando che
solo Dio può rimettere i peccati. Allora Gesù interviene e continua così il
suo discorso col paralitico: «Che cosa è più facile? dire "ti sono
rimessi i peccati" o dire "alzati, prendi il tuo lettuccio e
cammina?". Ora, perché sappiate che il Figlio dell'Uomo ha il potere sulla
terra di rimettere i peccati, io ti ordino - disse al paralitico - alzati,
prendi il tuo lettuccio e va' a casa tua"», Dunque, per Gesù il Giudice
escatologico (questo lo sapevano tutti) poteva rimettere i peccati al momento
del Giudizio finale e questo appare ben chiaro dalla lettura del Libro delle
Parabole; ma Gesù aggiunge «qui sulla terra». Se anche non si identificò
col Figlio dell'Uomo delle credenze del tempo, Gesù affermò almeno di avere
quei poteri che si attribuivano comunemente alla figura del Figlio dell'Uomo e
li aveva già, cioè da sempre.
Ma Qumran ci ha dato qualcosa in più oltre a imporci di
leggere attentamente gli apocrifi: ci ha fatto vedere che la credenza
nell'esistenza di figure angeliche superumane era ammessa. Esisteva un
Melkisedek celeste che aveva funzioni simili a quelle del Figlio dell'Uomo del Libro
delle Parabole. Sono nomi diversi che indicano funzioni analoghe.32
Un rapporto tra il Libro delle Parabole e Gesù
era già stato notato sporadicamente, ma ora tutto deve essere approfondito, La
via per capire l'autocomprensione di Gesù non è quella del titolo messianico
col quale è passato alla storia, ma quella di far perno sul concetto di Figlio
dell'Uomo. Così molte cose si chiariranno.33
9. La concezione essenica del peccato
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Anche nella concezione del peccato la teologia cristiana
deve qualcosa a quella essenica. Si legge negli Inni (Hodayot) 4,29-30:
«L'uomo è nell' awon ('peccato', ma diverso da 'trasgressione') fino
dall'utero». Se l'uomo può essere peccatore fino dall'utero, è chiaro che per
l'essenismo il peccato non consisteva soltanto nella trasgressione. C'era
nell'uomo qualcosa che gli si attaccava addosso fino dal concepimento: era una
sorta di macchia che in maniera reale e concreta danneggiava la natura umana. L'
'awon era un aspetto dell'impurità; per questo nell'essenismo impurità
e peccato finivano di fatto col coincidere.34 Di conseguenza
la liberazione dal peccato era concepita come purificazione.
«Chiunque rifiuta di entrare [nel Patto di D]io (cioè nella
setta), procedendo nell'ostinazione del suo cuore... non sarà annoverato tra i
giusti... Egli lo' yisdaq ('non sarà giusto', dove 'giusto' non può che
significare giustificato)... Non sarà purificato da nessuna purificazione. Non
sarà reso puro dall'acqua lustrale. Non si santificherà né per mezzo dei
mari, né per mezzo dei fiumi... resterà completamente impuro,... perché è
per mezzo dello spirito dell' Assemblea della Verità di Dio che sono purificate
le azioni dell'uomo, tutte le sue colpe...» (Regola della Comunità [lQS]
2,25 - 3,9).
Naturalmente questa purificazione eccezionale non toglie che
l'essenismo abbia continuato tutti i riti di purificazione previsti dalla
tradizione sacerdotale; i riti restano, ma solo per purificare gli stati di
impurità, diciamo così, storica, che l'uomo può contrarre nelle varie
occasioni della vita; invece dall'impurità connaturata con l'uomo ci si
purifica soltanto per mezzo dell'adesione alla setta, cioè con un atto di fede:
«Dio li libererà dal Giudizio per quello che hanno sofferto e per la loro fede
nel Maestro di Giustizia» (pHab 8,1-3). Questa concezione del peccato è quella
ripresa dalla tradizione cristiana col concetto di «peccato originale».
9.1 Giovanni Battista
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Il centro della predicazione del Battista è il
problema del peccato: esso conduce alla rovina e, se Israele vuole salvarsi,
deve abbandonare la via del peccato. La concezione che il Battista ebbe del
peccato ha qualcosa in comune con quella essenica, anche se se ne distingue per
il fatto che, stando ai documenti che ci sono restati, non parlò mai di un
peccato d'origine o connaturato con l'uomo. Giovanni non si limita a predicare
la conversione: essa non era sufficiente, ci voleva anche un rito di
purificazione per immersione. Evidentemente per il Battista il peccato produceva
una macchia, un'impurità che doveva essere purificata, perché la traccia del
peccato, cioè l'impurità che lasciava nell'uomo, continuava la sua opera
devastante indipendentemente dalla conversione.
Per Giovanni la purità era stato di grazia
fondamentale. Per questo evitava di mescolarsi alla gente e preferiva mangiare
cibi non solo puri, ma anche non toccati da nessuno per timore di contrarre una
qualche impurità. Abitò a lungo nel deserto e mangiava cavallette e miele
selvatico (quindi cibi non toccati da nessuno se non da lui).
10. Gesù e il peccato
torna all'indice
Gesù, come è ben noto, si staccò da Giovanni e non
ebbe timore né a mescolarsi con la gente che poteva essere in stato di impurità,
né a mangiare cibi toccati da altri. Imboccò una strada molto diversa e non
trovò nulla di male se i discepoli non rispettavano le norme relative al pasto,
poco importa se stabilite solo dalla tradizione e non dalla Legge. Secondo Marco
(cap. 7 e passi paralleli), Gesù abolì le norme di purità riguardanti i cibi
(Mc 7,19). Ma, se uno legge il testo attentamente, si accorge che Gesù prese
spunto da un problema particolare, quello che riguardava gli alimenti, per
arrivare a conclusioni che andavano aldilà della sfera alimentare, anche se non
è chiaro di quanto.
«Non quello che entra dalla bocca rende impuro l'uomo,
ma quello che esce dalla bocca rende impuro l'uomo» (Mc 7,12). La domanda
riguardava solo il problema se era lecito o meno mangiare senza una certa
abluzione prescritta dalla tradizione. La risposta di Gesù va già oltre la
domanda con le prime parole: «Non quello che entra dalla bocca rende impuro
l'uomo», Essa, infatti, riguarda non il modo di mangiare, ma gli alimenti
stessi. Ma la seconda parte ( «quello che esce» ) abbraccia conseguenze più
vaste ancora ed enuncia, in qualche modo, un principio generale. La sola cosa
che può contaminare l'uomo (e qui 'contaminare' deve avere il significato che
gli ebrei di allora gli davano, significato di depotenziamento spirituale più
che fisico, di impedimento ad avvicinarsi a Dio ) è la trasgressione della
Legge, ovviamente quale era insegnata da Gesù. L'interpretazione
dell'Evangelista: «Con questo Gesù intendeva dichiarare puri tutti gli
alimenti» è riduttiva e mostra un certo imbarazzo della prima tradizione
cristiana di fronte all'insegnamento di Gesù.35
In altri termini, Gesù conserva il concetto di impurità
come valenza negativa strettamente legata al peccato - e questo è sulla linea
dell'essenismo -, ma i contenuti dell'impurità sono detti diversi da quelli
ritenuti tali dalla tradizione anche essenica.36 Nel
cristianesimo resta, pertanto, l'idea che il peccato non è solo trasgressione,
ma è qualcosa che distrugge realmente l'uomo. Nel farisaismo il peccato era
considerato solo in quanto trasgressione: in seguito il rabbinismo, cioè il
giudaismo derivato essenzialmente dal farisaismo, considererà la stessa
trasgressione delle norme di purità come trasgressione della Legge, non come
atto capace di produrre una contaminazione, un vero depotenziamento dell'uomo.
Il rabbinismo manterrà la validità delle norme di purità, ma le interpreterà
come norme riguardanti esclusivamente una relazione con le cose e i comandamenti
relativi come comandamenti alla pari di tutti gli altri.
11. Il calendario
torna all'indice
Le scoperte di Qumran hanno costretto gli studiosi ad
affrontare anche il problema dell'esistenza in Palestina, al tempo di Gesù, di
due calendari diversi. L' esistenza di due calendari era nota da tempo dal Libro
dei Giubilei e da quello di Enoc Etiopico, ma non si era mai data
importanza a questo fatto, che avrebbe potuto portare luce sul problema delle
incertezze del primo cristianesimo sulla data della Pasqua e chiarire il
rapporto tra il modo con cui i sinottici da un lato e Giovanni dall'altro
parlano dell'ultima cena di Gesù: si chiarisce inoltre, dentro certi limiti, la
cronologia della passione. I due calendari sono detti l'uno lunisolare e l'altro
solare.
Nel calendario lunisolare i mesi coincidevano più o
meno con le fasi lunari. Esso constava di 12 mesi composti alternativamente di
29 e di 30 giorni, dato che la fase lunare dura circa 29 giorni e mezzo. Dodici
mesi così composti formano un anno di 354 giorni, destinato pertanto a restare
indietro rispetto all' anno solare di circa 11 giorni ogni anno. Per ovviare a
ciò, ogni due o tre anni veniva inserito un mese intercalare come ultimo mese
dell'anno, in modo che il primo mese fosse sempre quello in cui cadeva la prima
luna piena dopo l'equinozio di primavera: questo giorno di luna piena del primo
mese era il giorno 15, quello della principale festività ebraica, la Pasqua.
Essa pertanto coincideva con il plenilunio indipendentemente dal giorno della
settimana.
Il calendario solare del tempo di Gesù37
aveva 364 giorni con 8 mesi di 30 giorni e 4 di 31. I mesi di 30 e di 31 giorni
erano disposti in maniera da ottenere 4 periodi uguali, ognuno formato da 2 mesi
di 30 giorni seguito da uno di 31. Questa suddivisione del tempo presentava
innegabili attrattive sul piano della speculazione numerica. L 'anno era
divisibile perfettamente in 4 stagioni di 91 giorni ciascuna; ciascuna di queste
era divisibile perfettamente in 13 settimane; l'inizio dell'anno cadeva sempre
di mercoledì, giorno della creazione degli astri e, quindi, del tempo storico.
L'inizio dell'anno attualizzava liturgicamente il giorno della creazione degli
astri. Secondo questo calendario tutti gli anni erano uguali, non solo perché
tutti lunghi 364 giorni, ma anche perché ogni giorno del mese corrispondeva
sempre al medesimo giorno della settimana. Di conseguenza le feste cadevano
sempre nello stesso giorno della settimana. La Pasqua, che anche secondo questo
calendario era il 15 del primo mese, cadeva sempre di mercoledì, che era il
giorno della settimana liturgicamente più forte, perché era il giorno degli
inizi. Si tenga presente che i giorni della settimana erano gli stessi nei due
calendari: mercoledì era mercoledì per tutti gli ebrei, come il sabato era
sabato.
Questo calendario restava indietro rispetto all' anno
solare di un giorno o poco più. Non è chiaro come avvenisse il pareggiamento,
che doveva esserci necessariamente. È escluso che venisse intercalato un giorno
o due tutti gli anni, perché questo avrebbe portato allo spostamento dei giorni
della settimana all'interno del calendario, che invece erano fissi.
Probabilmente veniva inserita ogni 5 anni circa una settimana intera: settimana
embolima e, quindi, fuori del computo dell' anno. Sono però possibili anche
altre soluzioni.38
Circa il problema della Pasqua cristiana, si veda
l'articolo della Cocchini in Bibliografia. Mi soffermo, invece, a schematizzare
la tesi della Jaubert,39 oggi vastamente accettata almeno
nelle linee generali, che risolve una grossa difficoltà dei testi
neotestamentari. È noto che secondo i tre sinottici Gesù celebrò la Pasqua
prima del suo arresto e, ovviamente, prima della sua morte e resurrezione. La
fretta di togliere il cadavere di Gesù dalla croce è spiegata dai sinottici
col fatto che il giorno successivo cadeva la «festa» degli ebrei. Al contrario
Giovanni non dice che l'ultima cena di Gesù fosse pasquale, ma solo che si
trattò di una cena particolare, quella dell' addio. La morte di Gesù avvenne
un venerdì (dato certo della tradizione) che cadeva prima della Pasqua. La
narrazione degli avvenimenti è sostanzialmente la medesima nei sinottici e in
Giovanni, ma i nomi dati alle due ricorrenze sono diversi. Questo aveva sempre
fatto problema, ma le soluzioni erano state cercate in direzione diversa da
quella più semplice e quindi più probabile: l'esistenza di due calendari che
non era mai stata presa in considerazione, anche se ne avevamo già l'
attestazione in alcuni apocrifi. Secondo Jaubert Gesù celebrò la Pasqua
secondo il calendario solare la sera del martedì (il giorno per gli ebrei
cominciava alla sera, e, quindi, quando era già mercoledì 15 del primo mese),
ma la morte avvenne alla vigilia della Pasqua secondo il calendario lunisolare.
12. Qumran e il testo del Nuovo Testamento
Ma Qumran ci potrebbe aver lasciato anche un' altra
grande sorpresa: è il caso tutto particolare della grotta n. 7. Essa contiene
testi scritti quasi tutti su papiro (rarissimo nelle altre grotte) e solo in
greco (raro nelle altre grotte). I frammenti sono in tutto una ventina, uno dei
quali identificato come il canonico Esodo (28,47) e uno come il deuterocanonico Epistola
di Geremia (= cap. 6 di Baruch). Nessuno degli altri frammentini fu
identificato dagli editori, evidentemente perché nessun testo noto dell' Antico
Testamento o degli apocrifi sosteneva quei frammenti. O' Callaghan,40
invece, li ha sistemati tutti nel Nuovo Testamento, sia pure con qualche sforzo,
suscitando un'infinità di polemiche. Bisogna riconoscere che i frammenti sono
tutti troppo piccoli perché si possa accettare l'identificazione
neotestamentaria di ciascuno, ma il fatto che tutti permettano
un'identificazione neotestamentaria, e sempre di testi che la tradizione
cristiana ha considerato antichi, difficilmente può essere un caso. Non c'è né
Giovanni, né l'Epistola agli Ebrei e neanche Matteo. C'è Marco, Luca degli
Atti, Paolo e Pietro. È chiaro che non è un problema da considerarsi chiuso.
Particolarmente interessante è il caso del fr. n. 5 che
dovrebbe contenere resti di Mc 6,52-53. La scrittura è di un tipo che non può
essere posteriore al 50 d.C. Se l'identificazione è esatta, ne consegue che il
vangelo di Marco era già stato scritto prima del 50, e di qualche anno. Ma
questo, se accettato, fa cadere tutte le speculazioni teologico-filologiche
dell'ultimo cinquantennio, che vogliono che Marco, il vangelo più antico, sia
stato scritto o subito dopo o subito prima del 70. Sono cinquant' anni di
teologia neotestamentaria predominante da mettere da parte. Non per nulla sono
proprio gli specialisti di Nuovo Testamento i più restii ad accogliere
l'identificazione del frammento 5 col testo di Marco.
Indicazioni bibliografiche di alcune opere
relative alle questioni particolari trattate nell' articolo:
- Raccolte di apocrifi
CHARLESWORTH J.H., The Old Testament Pseudepigrapha, 2 voll.,
Garden City -New York, Doubleday & Company 1983-1985. È la raccolta più
vasta e aggiornata di apocrifi. Molti sono, però, sicuramente assai più
tardi dell'epoca delle origini cristiane e altri di datazione incerta, ma
tarda. Questi ultimi apocrifi non possono essere utilizzati per la
comprensione del tempo delle origini cristiane se non con cautela. In ogni
caso, la dizione «apocrifi dell' Antico Testamento» non si adatta a queste
opere.
SACCHI P. (ed.), Apocrifi dell'Antico Testamento, 2 voll., Torino,
UTET 1981 e 1989. Altri tre volumi sono in corso avanzato di preparazione
per la Paideia di Brescia.
- Il testo biblico
CHIESA B., Il testo biblico, Condizionamenti antichi e moderni, in:
SACCHI P., Il giudaismo palestinese dal I sec. a. C. al I sec. d.
C. , Bologna, Fattoadarte 1993, 5-18.
- I calendari
COCCHINI P., L 'evoluzione storico-religiosa della festa di
Pentecoste, in «Rivista Biblica» 25 (1977) 297-326.
CRYER P.H., The 364-Day Calendar Year and Early Judaic Sectarianism, in
«Scandinavian Journal for the Study of the Old Testament» 1 (1987)
116-122.
JAUBERT A., La date de la cène, Paris 1957.
MODA A., La date de la cène: sur la thèse de M.lle Annie laubert, in
«Nicolaus» 3 (1975) 53-116.
VANDER KAM J.C., The Origin, Character and Early History of the 364-Day
Calendar: A Reassessment of laubert's Hypothesis, in «Catholic Biblical
Quarterly» 41 (1979) 390-411.
- Il «Figlio dell'Uomo» e altre figure
superumane
PESCE M., Dio senza mediatori, Brescia, Paideia 1979.
SACCHI P., Esquisse du développement du messianisme juif à la lumière
du texte qumranien 11QMelch, in «Zeitschrift fiir die Alttestamentliche
Wissenschaft» 100 (1988) 202-214. L'originale italiano in forma più ampia
col titolo Il messianismo ebraico dalle origini al II sec. d.C., si
trova in «Vita Monastica» 46 (1987) 14-38, ma con troppi errori di stampa
per essere comprensibile. È ristampato anche nella pubblicazione del
seminario torinese della FIST in «FIST informazione» 9/1 (1990) 27-52.
- Datazione degli scritti neo testamentari
L' opinio communis odierna è bene esposta in CONZELMANN H. e
LINDEMANN A., Guida allo studio del Nuovo Testamento, Genova,
Marietti 1986.
Controcorrente è l' opera di Robinson che ignora completamente la
documentazione qumranica (frammenti della grotta 7), del resto appena nota
alla data della pubblicazione del libro.
ROBINSON J.A.T., Redating the New Testament, London, SCM Press 1976
(traduzione francese del 1987 con titolo Re-dater le Nouveau Testament). Quest'opera
propone date più alte di quelle accettate dall' opinio communis. Più
che di una innovazione si tratta di un ritorno alla buona filologia, che
recupera molti dati della tradizione. Vedi la Bibbia a cura dei Professori
del Pontificio Ist. Biblico, Firenze, Salani 1962 nelle introduzioni ai
testi neotestamentari.
MAYER B. (ed.), Christen und Christliches in Qumran? (Eichstätter
Studien 32), Regensburg, Verlag Friedrich Pustet 1992. Il volume raccoglie
gli atti del simposio di Eichstätt (18-20.10.1991) dedicato espressamente
al problema del NT a Qumran, in particolare al discusso frammento 7Q5
identificato da J. O'Callaghan con Mc 6,52-53.
NOTE
1. Se i primi manoscritti scoperti poterono
essere detti indifferentemente «del Mar Morto» o «di Qurnran», oggi è
opportuno distinguere le due dizioni, perché sono stati scoperti altri siti
oltre a quello di Qurnran che ci hanno offerto scoperte archeologiche simili,
anche se numericamente molto inferiori. Per una completa visione dei siti
esplorati, cf. F. GARCÍA MARTÍNEZ, Textos de Qumràn, Madrid, Trotta
1992.
2. Per la dizione «Giudaismo Medio» indicante il periodo che va dal III sec.
a.C. al II sec. d.C. cf. G. BOCCACCINI, Il Medio Giudaismo, Genova,
Marietti 1993.
3. Le fonti principali indirette per la conoscenza dell' essenismo sono: FILONE, Quod
omnis probus liber, §§ 75-91; Apologia, §§ 1-18. GIUSEPPE FLAVIO,
Guerra Giudaica, II, 119-161; Antichità Giudaiche, XVIII, 18-22.
Per una raccolta completa di fonti greche relative all'essenismo: cf. A. ADAM, Antike
Berichte über die Essener, Berlin 1961.
4. Circa la natura dell'ideologia della maggior parte dei testi qumranici si
hanno più posizioni. Ai due estremi si possono collocare N. GOLB, L 'origine
des manuscrits de la Mer Morte, in «Annales» 40 (1985) 1133-1149, per il
quale i libri trovati nelle grotte di Qurnran proverrebbero tutti da una
biblioteca di Gerusalemme e sarebbero stati nascosti dove sono stati ritrovati
solo in occasione dell' avvicinarsi delle truppe romane: sarebbero pertanto
privi, nel loro insieme, almeno aprioristicamente, di qualunque unità
ideologica. Al limite opposto sta F. GARCÍA MARTÍNEZ, Qumran Origins and
Early History: A Groningen Hypothesis, in «Folia Orientalia» 25 (1988)
113-136 e A "Groningen" Hypothesis of Qumran Origins and Early
History, in «Revue de Qumrân» 14 (1990) 522-541. Per lui i testi detti
essenici sarebbero più propriamente appartenenti a un gruppo interno all'
essenismo e dissidente dalla corrente principale. Per quanto per la maggior
parte delle opere principali scoperte nelle grotte di Qumran non vi siano dubbi
circa la loro matrice essenica, nel caso di frammenti, sia pure interessanti, ma
privi di un sufficiente contesto, è prudente sospendere il giudizio circa la
matrice ideologica. Ciò non toglie che essi restino sempre testimoni, sempre
che contengano frasi di senso compiuto, di idee che circolavano nella Palestina
del tempo di Gesù.
5. Come frammenti ebraici più sicuri fra quelli considerati alla base della
versione greca si indicano: 4Q71 (4QJerb) e 4Q71a (4QJerd); poi 4Q26 (4QLevd),
4Q44 (4QDeutq), 2Q12 (2QDeutc), 4Q30 (4QDeutc), 4Q51 (4QSama), 4Q52 (4QSamb),
4Q53 (4QSamc), 4Q80 (4QXIIe), 5Q1 (5QDeut), 5Q2 (5QKgs). Per una recente
pubblicazione su questo problema, cf. E. Tov, Groups of Biblical Texts Found
at Qumran, in: D. DIMANT - L.H. SCHIFFMAN (Edd.), Time to Prepare the Way
in the Wilderness, Leiden, Brill 1995, 85-102. L'elenco dei frammenti citati
sopra è più lungo di quello di Tov: deriva da appunti del Dr. Corrado Mar
tone.
6. In realtà anche all'interno della tradizione tardoantica e medievale ebraica
si notano alcune varianti, ma di natura molto minore rispetto a quella che
distingue il testo ebraico (masoretico) nel suo insieme da quello di altri tipi
di testo.
7. L' espressione hebraica veritas fu coniata da S. Girolamo. Cf. la sua
introduzione ai Salmi, PL 28, coll. 1123 ss; alla col. 1125: «Certe
confidenter dicam... me nihil, dumtaxat scientem, de H ebraica veritate mutasse»:
cf. G. MILETTO, Die "Hebraica Veritas" in S. Hieronymus, in:
H. MERKLEIN, K. MÜLLER, G. STEMBERGER (Edd.), «Bibel in jüdischer und
christlicher Tradition». Festschrift J. Maier, Frankfurt a.M. 1993.
8. I protestanti col nome di «apocrifi» indicano i libri deuterocanonici.
9. Enoc Etiopico è un pentateuco con un'introduzione (capp. 1-5) e alcune
piccole appendici (capp. 105-108). I cinque libri che formano l' Enoc
Etiopico sono: il Libro dei Vigilanti (capp. 6-36: il più antico, IV
sec. circa a.C.), il Libro dell'Astronomia (capp. 72-82: circa
contemporaneo), Il Libro dei Sogni (capp. 83-90: circa 160 a.C.), l'Epistola
di Enoc (capp. 91-104: ca. metà del I sec. a.C.), il Libro delle
Parabole (capp. 37-71: ca. 30 a.C.). Il Libro delle Parabole sostituisce
per ragioni ignote un più antico Libro dei Giganti (ca. III sec. a.C.),
che ci è ora noto da ampi frammenti qumranici.
10. Cf. H.S. REIMARUS, I frammenti dell'anonimo di Wolfenbüttel, pubblicati
da G.E. Lessing (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, serie testi 3),
F. PARENTE (a cura), Napoli 1977.
11. Codexpseudepigraphicus Veteris Testamenti, 2 voll., Hamburg 1713.1723.
12. Dictionnaire des Apocryphes, 2 voll., Paris 1856. 1858.
13. Dictionnaire de Théologie Catholique, vol. 1, 1923, 1503.
14. Dictionnaire de la Bible, Suppllment, vol. I, 1928,356.
15. Enciclopedia Cattolica, 1948, col. 1631.
16. L'opera di H.L. STRACK e P. BILLERBECK , intitolata Kommentar zum Neuen
Testament aus Talmud und Midrasch, München 1922-28, in 6 volumi, contiene
una lunga serie di riferimenti soprattutto formali fra frasi del Nuovo
Testamento e testi rabbinici. Esso, talvolta, è veramente fuorviante.
17. Cf. S. BEN CHORIN, Fratello Gesù; un punto di vista ebraico sul Nazareno,
Brescia, Morcelliana 1985, 116 (edizione tedesca 1967).
18. I Talmudìm sono due, quello palestinese e quello babilonese. Ogni Talmud
è formato dal testo della Mishnah e dal commento a questa (diverso
nei due talmudim). Il commento è detto Gemarà. Le notazioni
storiche derivano normalmente dalla Gemarà. Il Talmud palestinese
fu chiuso intorno agli inizi del V secolo, quello babilonese intorno al 600.
19. Cf. G. VERMES, Jewish Literature and the New Testament Exegesis;
Reflexions on Methodology, in «Journal of Jewish Studies» 33 (1982)
361-378.
20. La formulazione classica è dovuta a R. Aqibà, ucciso dai romani nel 135
circa d.C., e conservata in Pirqe Avot 3,15. Essa recita: «Tutto è
previsto (quindi, non predeterminato); la libertà di scelta è data; il mondo
(cioè gli uomini) è giudicato con bontà; tutto dipende dalla quantità delle
opere (buone o cattive). Che il Giudizio sia fatto «con bontà» significa che
Dio, per sua grazia (non per giustizia), non si limita (come vorrebbe la sola
giustizia) a considerare le trasgressioni della Legge, ma tiene conto anche
degli atti di osservanza. Il Giudizio è il bilancio di tutta una vita sulla
base delle opere. Dio giustifica chi ha compiuto più bene che male.
21. Il Maestro di Giustizia è il fondatore, o meglio, la figura più importante
dell' essenismo. «Maestro di Giustizia» potrebbe essere il titolo del del capo
della setta. In questo caso avremmo una serie di Maestri di Giustizia,
garanti di una certa tradizione (quella essenica).
22. La parola "tutte" è aggiunta di Paolo al testo biblico. L'
aggiunta, anche se insignificante sul piano del contenuto, sottolinea con forza,
sul piano stilistico, il pensiero di Paolo.
23. Cf. A. SISTI, Marco, Roma 1974, 310.
24. Cf. R. PESCH, Il vangelo di Marco, II, Brescia, Paideia 1982, 189.
25. Cf. J. BONSIRVEN, Teologia del Nuovo Testamento, Torino 1952,
25-28.
26. Cf. M.J. LAGRANGE, Évangile selon Saint Marc, Paris 1947, CXLIX-CLI.
27. Cf. O. PROCKSCH, Christentum und Wissenschaft, vol. III, 1927, 425ss.
28. Cf. G. VERMES, Gesù l'ebreo, Roma 1983, pp. 187ss.
29. Cf. C.H. DODD, The Interpretation of the Fourth Gospel, Cambridge
1955, 54.
30. Cf. H. CONZELMANN e A. LINDEMANN, Guida allo studio del Nuovo Testamento, Genova,
Marietti 1986, 376-380. In una proposta di lavoro (p. 376) si consiglia di
guardare tutti i passi in cui compare nel NT il titolo di Figlio dell'Uomo,
cercando di individuare i casi in cui il titolo è aggiunto in un secondo
momento e a quali fonti risalga (non è però indicato nessun metodo e si conta
evidentemente sulla genialità degli allievi).
31. Cf. S. MOWINCKEL, He that Cometh; The Messiah Concept in the Old Testament
and Later Judaism, Oxford 1956, 346ss.
32. Il testo in questione è 11Q Melkisedek. Recentemente, vedi E. PUECH, La
croyance des Esseniens en la vie future: immortalité, resurrection, vie
eternelle? Histoire d'une croyance dans le judaisme ancienne (Études
Bibliques, NS 22), vol. II, Paris, Gabalda 1993, 516ss.
33. Cf. oggi in Italia P. ARDUSSO, Gesù Cristo figlio del Dio vivente. Cinisello
B., Edizioni Paoline 1992, 125.
34. Un qualche legame tra impurità e peccato è già presupposto da Isaia (cap.
6) e da qualche altro passo veterotestamentario. In Is 6 l'autore
racconta di essere stato preso da timore perché si era accorto di essere alla
presenza di Dio - la divinità sacra che uccide - in stato di impurità. Allora
un serafino gli si avvicinò tenendo in mano un tizzone ardente. Ci aspetteremmo
che il racconto continuasse dicendo «per togliere l'impurità di Isaia».
Invece il testo recita (v. 7): «il tuo male ('awon) si è allontanato;
il tuo peccato è espiato». Tra impurità, 'awon e peccato esiste una
stretta correlazione.
35. Per ciò che riguarda la difficoltà della prima chiesa ad accettare
l'insegnamento di Gesù circa la purità, si vedano Atti 10,10-16 (vedi
anche Gal 2,11ss).
36. Gli esseni, di fatto, radicalizzarono la teologia di Isaia riguardante il
peccato (v. nota 34). Mantennero, quindi, con grande rigidità tutte le norme di
purità della tradizione, ma considerarono il fatto stesso di trasgredire come
una fonte di impurità; inoltre l'impurità del peccato era per loro presente
nell'uomo ancora prima della nascita.
37. Al tempo di Gesù il calendario solare esisteva da tempo. Probabilmente era
il calendario liturgico del tempio. Il calendario lunisolare era di fatto il
calendario del mondo ellenistico, perché era usato dalla Babilonia alla Grecia:
era un calendario che potrebbe essere detto internazionale e certamente quello
in uso nei documenti profani. La liturgia del tempio fu adattata al calendario
"laico", quello lunisolare, probabilmente solo verso la fine del I
sec. a.C.: cf. P. SACCHI, Storia del Secondo Tempio, Torino, SEI 1994, p.
461.
38. Per una soluzione diversa, vedi M.O. WISE, Second Thoughts on dwq and the
Qumran Synchronistic Calendar, in: Pursuing the Text. Studies in
honor of B.Z. Wacholder, J.C. REEVES and J. KAMPEN (Edd.), Sheffield, Sheffield
Academic Press 1994,98-120.
39. Cf. A. JAUBERT. La date de la cène, Paris 1957.
40. Cf. J. O'CALLAGHAN, Los papiros griegos de la cueva 7 de Qumrân, Madrid,
La Editorial Católica 1974.
_________________
[Fonte: "Tra giudaismo e
cristianesimo" a cura di Andrzej Strus, Libreria Ateneo Salesiano, Roma
1995]
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