Dell' ultimo periodo degli anni oscuri di Gesù, dopo la
visita al tempio, praticamente non si sa niente, ed è molto
difficile formulare delle congetture, come è stato fatto sino
ad ora. Per ogni essere, anche se predestinato, l'infanzia e
l'adolescenza sono in gran parte determinate da dati molto
facilmente definibili: ambiente sociale e storico. I primi
anni di Gesù potevano essere parzialmente descritti in
funzione di questi elementi.
Ma,
dopo questo episodio decisivo, costituito dalla sua prima
visita al tempio, tutto è diverso. Ormai, lo storico esita e
il miracolo fa la sua apparizione. A questo punto, nel fondo
di una coscienza diventata adulta e votata a Dio, avviene uno
dei drammi più straordinari e maggiormente pieni di
conseguenze che abbia conosciuto la storia del
mondo.
Indubbiamente è normale che persista questa oscurità e
che un tale mistero non si lasci analizzare in tutti i
particolari. Proudhon, che fu, tra gli atei, uno dei più
attratti dalla figura di Gesù [1], mette in ridicolo quelli
che vogliono ridurre gli episodi della sua vita alle
dimensioni abituali della nostra vita quotidiana. Esiste
gente, dice press'a poco, che vorrebbe sapere se, durante
l'ultima Cena, si usavano le forchette.
Non
seguiremo il loro esempio. Per l'ultimo periodo degli anni
oscuri, ciò che importa sicuramente ben più che i particolari
dei fatti, rimasti nell'ombra, è il significato e il risultato
dell' itinerario spirituale, in germe prima della visita al
tempio, stimolato da questa visita, e che ha termine più tardi. Le due
precedenti parti di questo libro ci hanno permesso di
precisare alcuni dati iniziali dell'evoluzione di Gesù.
L'ultima concerne il compimento del suo destino, partendo dai
fattori storici e spirituali che costituivano la formazione di
un giovane ebreo del suo tempo.
Tutto
ciò che possiamo, alla peggio, formulare come ipotesi precisa
sulla fine degli anni oscuri, concerne fatti di due specie,
d'altronde molto controversi.
Il
primo ha rapporti con i manoscritti del Mar Morto, che furono
recentemente scoperti. Ne risulta che, all'epoca in cui viveva
Gesù, comunità ebraiche, d'ispirazione essena, se non
dipendenti da questa setta, conducevano una vita
monacale.
Sensibili alla crisi religiosa che turbava allora le
coscienze, esse annunciavano l'evento di una "Nuova Alleanza";
la loro regola comportava probabilmente dei precetti che il
cristianesimo riprenderà in seguito per i propri sacerdoti e
per i propri conventi: povertà, castità, battesimo, pasto in
comune, rinuncia dei sacrifici nel tempio, culto più intimo,
disprezzo delle ricchezze… tali erano i precetti formulati dal
"Signore di Giustizia", in cui si è tentati talvolta di
scorgere una prima rappresentazione del Messia, un
predecessore di Gesù Cristo.
Tra
questi precursori della vita monacale cristiana, alcuni
vivevano interamente in comunità chiuse e praticavano
l'ascetismo. Altri restavano nella vita secolare, potevano
sposarsi, costituivano una specie di Ordine Terziario, di meno
stretta osservanza, ma soggetti alle stesse regole morali, e
condividevano le stesse speranze di una alleanza rinnovata.
Gesù conobbe direttamente i monasteri del Mar Morto? Oppure ne
apprese l'insegnamento, alla fine degli anni oscuri, da San
Giovanni Battista? La decisione spetta agli
esegeti.
Sembra
in ogni caso certo che la setta di Qumran stabilisce
una transizione tra il giudaismo di stretta osservanza che il
fanciullo Gesù aveva conosciuto a Nazareth e una fazione del
giudaismo in cammino verso il cristianesimo o una causa o una
conseguenza d'una evoluzione religiosa che sfociò nei Vangeli?
In ogni caso, essa lo affianca e ne costituisce un
sintomo.
Dal
punto di vista strettamente ebraico, l' esistenza di queste
comunità monastiche riproponeva uno dei problemi che Israele
continuamente deve porsi e discutere.
Religione del Dio vivente, religione inserita nella
storia, il giudaismo è contrario a ogni ascetismo. Bisogna,
dichiara il Talmud [2] in un passo molto famoso,
seguire " le strade della terra " : non bisogna isolarsi dalla
vita sociale. Solo attraverso le vie dell'immanenza, mediante
la pratica costante di un'esistenza normale, si può esprimere
nel miglior modo possibile la Legge promulgata da Dio. Il
rabbino, come abbiamo visto, non è un prete di professione; la
sinagoga non è un tempio; le benedizioni sono riferite a tutti
gli atti quotidiani, accompagnandoli con un contesto religioso
senza trasformare la loro natura né isolarli dal
mondo.
Tutt'al
più, si può discutere per sapere se, in alcuni momenti di
grande crisi religiosa, di estremo pericolo per Israele, non
convenga che certuni si tengano lontani da una società
minacciata o pervertita, e apportino così al loro tempo quel
supplemento d'anima necessario per compensare l'avvilimento
della fede, supplemento " d'anima che il Talmud auspica
e che, come noi ben sappiamo, Bergson ha raccolto, a sua
insaputa, dalla eredità ebraica.
Il meno
che si possa dire delle comunità del Mar Morto è che esse
probabilmente provocarono una costante disputa d'Israele,
della quale è certo che Gesù era stato informato.
Il
secondo episodio che possiamo ricostruire con una certa
verosimiglianza per la fine degli anni oscuri, è la morte del
capo della famiglia in cui nacque Gesù, la morte del suo padre
putativo, Giuseppe.
Sembra
probabile che il suo decesso avvenga in questo periodo e che
Gesù abbia pregato davanti alla tomba di famiglia.
I
Vangeli apocrifi danno il testo di una preghiera che non
sembra corrispondere a ciò che si conosce della liturgia
ebraica [3], contemporanea di Gesù, e
che probabilmente è stata redatta molto dopo la sua
epoca.
In
cambio, per ritrovare le parole che Gesù probabilmente
pronunciò in occasione di questo lutto, si può provare la
tentazione di ricordare la preghiera che, ancora oggi è
recitata dagli orfani e che data dall'epoca del secondo
tempio.
Questa preghiera, detta il Qaddish, è
redatta in aramaico letterario, cioè in una lingua più vicina
a quella parlata da Gesù di quanto non lo fosse l'ebraico
biblico. Le intonazioni che essa racchiude possono così in una
certa misura evocare l'accento stesso di Gesù, nella sua
parlata quotidiana o nella sua predicazione durante gli
offici. D'altra parte, è una preghiera fondamentale del
giudaismo, una di quelle che, lungo i secoli, non ha cessato
di serpeggiare attraverso tutte le manifestazioni della vita
religiosa ebraica.
All’inizio aveva una funzione
puramente scolastica, la si recitava alla fine delle
conferenze culturali nelle scuole. Da qui passò nel rituale,
dove sottolineava i passaggi di una parte dell'officio a
un'altra: è dunque essa che, da duemila anni, a più riprese
durante i servizi divini i fedeli ascoltano ritti in piedi,
come un tema permanente d'adorazione in mezzo alle diversità
del culto.
Più tardi essa diventa la preghiera
d'intercessione che il figlio dice per suo padre al momento
dell'ultimo addio. È probabile che al funerale di Giuseppe
quest'ultima applicazione del Qaddish non fosse ancora
in vigore. Ma è quasi certo che durante le cerimonie che
seguirono il suo lutto, Gesù la sentì pronunciare o la
pronunciò egli stesso, se non altro durante gli offici della
sinagoga dove egli rievocava il ricordo del defunto e ne
occupava il posto vuoto.
Ecco il testo del Qaddish nella traduzione
di Edmondo Fleg :
"Sia innalzato e santificato il nome del Signore,
nel mondo da lui creato secondo la sua volontà. Faccia
regnare il suo regno nella vostra vita e nei vostri giorni,
e nella vita di tutta la stirpe d'Israele, ora e sempre, E
dite: Amen. Benedetto il nome del Signore, sulla terra e
nell'eternità. Sia benedetto, lodato, onorato, esaltato,
magnificato e glorificato il Nome del Santo, sia egli
benedetto, oltre ogni benedizione e ogni canto, oltre ogni
lode e ogni consolazione che si pronunciano in questo mondo,
E dite: Amen, Siano ricevute le preghiere e le suppliche di
tutto il popolo d'lsraele, davanti al loro padre che è nei
cieli, E dite: Amen, Benedetto il nome di Dio, ora e sempre
- una grande pace del cielo e la vita sia su noi, e su tutto
Israele, e dite: Amen. Ogni aiuto mi viene da Dio che fece
la terra e i cieli, Colui che fa la pace nei cieli, su di
noi faccia la pace e su tutto Israele, E dite:
Amen."
La
traduzione, fedele al movimento della lingua aramaica, non può
rendere l'accento del vocabolario iniziale, Si permetta di
trascriverne qui il primo versetto, se non altro per
rievocare, sebbene maldestramente, alcuni di quegli accenti
che furono familiari a Gesù durante gli anni
oscuri:
"Itgaddal veitqaddash sheme rabba ve o/me divera
qire'ute, veyamlik mal'qute be hayye chon uve hayye de
qolbeth Israel ha ayala uvizmon qariw weimru.
Amen."
Il
Qaddish, così d'uso frequente ai tempi di Gesù, come lo
è ancora oggi, non presenta soltanto un interesse
retrospettivo. Si prolunga in una delle preghiere fondamentali
della Chiesa, il Pater, cui la tradizione ebraica ha
fornito numerosi temi ed espressioni, Questa preghiera, che
risale ai primi tempi del cristianesimo, illustra così il
passaggio da una religione all'altra, quale si è maturato
durante gli anni oscuri. È uno dei soli punti di riferimento
che sussistano per l'itinerario spirituale di Gesù a partire
dalla sua visita al tempio.
Si può
dire, senza esagerazione, che il Pater è una preghiera
ebraica [4], e si può fornirne
parecchie prove, mediante l'analisi dei testi. Da una parte,
l'uso del plurale "Padre nostro" è abituale nella preghiera
ebraica che si formula generalmente in nome dell'assemblea dei
fedeli; ed è per questo motivo che, durante l'officio di
Kippur, ogni ebreo sgrana la litania di tutti i peccati
possibili che ha potuto compiere durante l'anno la comunità
d'Israele, anche se egli personalmente non li ha commessi. Il
Talmud spiega quest'abitudine di preghiera
collettiva:
"
Abbai dice: 'L 'uomo deve associare nella sua preghiera
tutta la comunità, e dirà per esempio: sia fatta la tua
volontà, Signore nostro Dio, di dirigere noi tutti
verso la pace' ". (Berakoth, 30
a)
In
questa preghiera collettiva del Pater si trovano molte
espressioni tratte direttamente dal rituale ebraico.
Nonostante l'aridità di tale elenco, conviene citarle in
questa sede: sono d' altra parte impregnate di significato
religioso e rievocano per molti spiriti tradizioni
commoventi.
"Padre
nostro che sei nei cieli" è l'ebraico " Abinu cheba
shamaim", la cui traduzione abbiamo già visto nel
Qaddish
"Sia
santificato il nome tuo" è la formula quasi testuale che apre
il Qaddish.
"Venga
il regno tuo... sia fatta la tua volontà..." Continuazione
della preghiera Alenu, che contrassegna la speranza
nell'avvento dei tempi messianici e l'universalismo ebraico;
si può leggere: " Anche noi speriamo in te, Signore, che ci
mostri in breve la gloria della tua potenza... Tutti
accetteranno il giogo del tuo regno; su di loro
regnerai per sempre".
"Dacci
oggi il nostro pane quotidiano..." Nelle benedizioni che
accompagnano i pasti e durante i quali il capofamiglia divide
e benedice il pane, troviamo la seguente espressione: "Padre
nostro, Nostro Dio, dacci il nostro nutrimento e provvedi alle
nostre necessità ". Il tema del pane quotidiano lo troviamo
anche in altri testi della Torah o del Talmud (
Esodo, XVI, 15-19), in cui si parla della manna (Talmud,
Sotah 48 b).
"Rimettici i nostri peccati." Variazione della sesta
benedizione del Shemone-Ezre: "Perdonaci, Padre nostro,
perché abbiamo peccato contro di te; cancella e togli le
nostre iniquità davanti i tuoi occhi; infatti grande è la tua
misericordia. Tu sia benedetto, Signore, che hai
abbondantemente perdonato."
"Non
indurci in tentazione, ma liberaci dal male". Ricordo di
un'idea espressa di frequente nei Salmi e di cui il
Talmud fornisce diversi commenti.
Così
questa preghiera fondamentale del cristianesimo è, in diversi
suoi passi, nata direttamente da preghiere ebraiche
fondamentali, che Gesù pronunciò durante gli anni oscuri. Non
è il solo caso. Il Magnificat deriva quasi interamente
dai testi dei Salmi e dei Profeti. E quando si
rilegge, secondo i metodi attuali della critica letteraria, il
rituale delle feste ebraiche, si ritrovano in diversi punti i
temi che la liturgia cristiana o i Vangeli
riprenderanno.
Quanto
è vero per il rituale, lo è anche per il dogma, che dispensano
le due religioni. Gesù stesso, nei Vangeli sinottici, confessa
senza circonlocuzioni il suo legame con la fede giudaica. Lo
fa in Marco e in Matteo, lo fa anche in Luca,
in termini quasi equivalenti
"
Allora, avvicinatosi uno degli scribi che aveva udito la loro
discussione, visto che aveva ben risposto, gli domandò: 'Qual
è il primo di tutti i comandamenti?'. Gesù rispose: 'Il primo
è: Ascolta, Israele, il Signore Dio nostro è 1'unico Signore,
e tu amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con
tutta la tua anima, con tutta la tua mente, e con tutte le tue
forze. Il secondo è questo: Ama il tuo prossimo come te
stesso. Non c'è altro comandamento più grande di
questo."
Questa
risposta rivela una duplice radice nella tradizione ebraica:
da una parte, essa cita due testi fondamentali del giudaismo,
lo Shema lsrael, preghiera base del monoteismo, e la
Legge d'amore, fondamento della vita morale; dall'altra,
ripete in maniera quasi eguale un discorso di Hillel, quando
questo dottore, influente all'epoca di Gesù, faceva capire a
un pagano l'essenziale della Torah. Gesù, in questo
versetto, sottolinea dunque la sua fedeltà alla Legge e il suo
legame con il pensiero rabbinico.
Non è
il solo esempio. Se ne potrebbero dare innumerevoli. In un
libro pubblicato nel 1955 dalle Edizioni Vaticane, il
Reverendo Padre Bonsirven ha fatto la lista dei "testi
rabbinici dei due primi secoli cristiani per servire alla
comprensione del Nuovo Testamento". Ne cita migliaia, tratti
dalle diverse raccolte di commenti ebraici, come il Pirqe
Aboth, i midrashim [5] o i trattati del
Talmud. Tutti questi frammenti certamente non erano
ancora redatti all'epoca in cui viveva Gesù; ma, tramandati
per tradizione orale, costituivano la base dell' insegnamento
dei dottori.
Senza
eguagliare la vastità del lavoro fatto da Padre Bonsirven,
alcuni scrittori israeliti, sin dall'inizio del XIX secolo,
avevano cercato le fonti ebraiche dei principali passi dei
Vangeli. Ecco, secondo uno di questi scrittori, il rabbino
Elia Soloweyczyk, il risultato delle ricerche per il
Discorso della
Montagna.
Ognuna
delle benedizioni con cui inizia questa predica essenziale di
Gesù ha dei riferimenti talmudici :
"Beati
i poveri in ispirito..." assomiglia ai precetti di Rabbi
Levitas nel trattato Aboth (v, 4) sui benefici
dell'umiltà, e a quelli di Rabbi Akiba nel trattato Ketub
sul "giusto mezzo" desiderabile.
"Beati
gli afflitti" ripete il pensiero del Talmud (
Erubin, 41 b) secondo cui "il dolore riscatta le
anime".
"Beati
i miti..." ricorda quello del Talmud (Sukka 29 b ), "
gli umili possiedono la terra e godono una pace inalterabile"
.
"Beati
quelli che hanno fame e sete di giustizia " riprende ciò che
dice il Talmud (Baba Bathra, 10 a) a proposito della
giustizia e della carità.
"Beati
i misericordiosi", cfr. Talmud (Shabbath, 10 b).
"Chiunque avrà pietà degli altri, Dio avrà pietà di
lui."
"Beati
i pacificatori", cfr. Talmud (Shabbath, 151 b) dove
invoca il "Dio di pace".
"Beati
quelli che sono perseguitati per causa della giustizia", cfr.
Talmud (E. Kamma, 93 a). "Meglio essere perseguitato
che persecutore."
"Beati
sarete voi quando vi oltraggeranno e vi perseguiteranno per
cagione mia...", cfr. Talmud (Shabbath, 118 b) che
glorifica "quelli che si lasciano oltraggiare, ma non
oltraggiano nessuno".
Dopo le
benedizioni il testo del Discorso della Montagna resta
egualmente nutrito di riferimenti talmudici :
"Rallegratevi ed esultate perché grande è la vostra
ricompensa nei cieli", cfr. Talmud (Shabbath, 118 b):
"È bella e io l'invidio, la parte di quelli che sono
sospettati e non hanno meritato il sospetto".
"Voi
siete il sale della terra". Il sale, termine di paragone molto
usato e molto importante per gli ebrei, è l'immagine
dell'incorruttibilità e simboleggia l'alleanza con Israele: un
patto indissolubile si chiama in ebraico "un patto di sale". I
Numeri (XVIII, 19) consacrano questa espressione: un
patto di sale, sempiterno davanti al Signore, per te e per i
tuoi figli". Da parte sua, il Talmud, nel suo trattato
Ketuboth, dà un commento pratico della stessa idea: "
Il tuo cibo ha bisogno di sale per essere conservato. Anche il
denaro ha bisogno di essere salato, se vuoi conservarlo. Con
che cosa deve essere salato il denaro ? Con la carità
"
La
densità e il numero delle formule talmudiche in un testo così
importante dimostrano quanto durante gli anni oscuri Gesù si
era impregnato del commento tradizionale della
Legge.
Non
solo nell' Antico Testamento bisogna cercare le fonti del modo
d'esprimersi dei Vangeli, ma anche nel Talmud. Questi
due rami di uno stesso tronco, Talmud e Vangeli,
presentano alcune affinità. Affinità formali, come quelle di
cui abbiamo citato alcuni esempi. Ma affinità ben più
profonde, e nello stesso tempo anche divergenze.
L'essenziale della morale è comune a queste due
derivazioni del giudaismo biblico: e questo indubbiamente è
importante. Nel suo libro Morale juive et morale
chretienne, il gran rabbino Elia Benamozegh dimostra che
la legge cristiana segna la continuazione di tutta la
tradizione ebraica. Egli cita Mosè, per cui "tutte le vie del
Signore sono carità e verità." Cita il profeta Michea: "Che
cosa ti chiede Dio? Praticare la giustizia, amare la carità e
mettere ogni cura nel seguire il tuo Dio". Egli cita uno degli
iniziatori della tradizione rabbinica, di parecchi secoli
anteriore a Gesù, Simeone il Giusto, per il quale la società
poggia su tre colonne : scienza religiosa, culto, carità.
Altri talmudisti più recenti, come ad esempio Hillel e Rabbi
Akiba, che noi conosciamo, esprimono lo stesso precetto: " Ama
il prossimo tuo come te stesso" dice l'ultimo "è il grande
principio della Legge".
La
virtù cristiana dell'umiltà è anche essa di origine ebraica, e
più particolarmente farisea. Testimone questa citazione del
Talmud dove appare un sentimento che sarà ripreso dal
Vangelo: "Sii oscuro. Chiunque si umilia sarà innalzato e
chiunque si innalza sarà umiliato. Chiunque si fa piccolo in
questa vita per la Legge, sarà grande nella vita futura
".
Il
contenuto è dunque in maggior parte lo stesso : ma ciò che
sembra ancor più rivelatore, ciò che permette forse
maggiormente di far luce sul mistero degli anni oscuri, è la
constatazione che il sistema di ragionamento midrashico e
talmudico si perpetua in diversi passi dei Vangeli. Così la
tradizione ebraica non è per Gesù solo una fonte di formule o
di precetti ma anche una scuola di pensiero.
Vi
trova una dialettica che indubbiamente egli trasformerà, ma
che all'origine si rivela nei suoi discorsi.
Nel
Midrash e nel Talmud il metodo di ragionamento
presenta due caratteri: da un lato, lo sappiamo, per
comprendere un versetto della Scrittura, per trarne le
conclusioni pratiche o poetiche, lo si confronta con la
citazione di altri versetti, tolti da raccolte differenti
dalla sua. Così a proposito di un passo dell'Esodo, si
citerà un versetto dei Salmi o una frase dei Profeti
o un paragrafo di Giobbe. Il commento ebraico si muove
all'interno della parola ispirata, non cerca conferma né
riferimenti estranei.
Quando,
nei Vangeli; si tratta di dimostrare che Gesù è il Messia
annunciato dalle Scritture, lo si farà citando i testi
dell'Antico Testamento, trovando nelle loro pagine una nuova
applicazione adattata alle circostanze. Questo modo di
ragionare è frequente nei Vangeli : diamone un solo
esempio.
Il
capitolo 53 di Isaia descrive, senza dire chi è, il
"Servitore di Yahweh":
" è
stato piagato per le nostre iniquità. è stato trafitto
per i nostri peccati. Piombò sopra di lui il castigo che
ci ridona la pace, per le sue piaghe siamo stati
risanati."
Di chi
si parla in questo testo ? E una domanda che la acutezza dei
talmudisti si pone. Per il Talmud di Babilonia si
tratterebbe di Mosè; per quello di Gerusalemme di Rabbi
Akiba.
Quando
San Marco, nel suo Vangelo (XV, 28) afferma che il profeta
annunciava in questi versetti la venuta di Gesù Cristo, egli
porta una terza risposta a una discussione rabbinica. Il suo
ragionamento è eguale a quello dei suoi predecessori:
semplicemente ne trae delle conclusioni nuove. Bisogna provare
che la Passione di Gesù era già prevista dalla tradizione
profetica. Quella che l'evangelista chiede al sistema
talmudico è una legittimazione del pensiero
cristiano.
D'altra
parte, il sistema talmudico, come ben sappiamo, implica un uso
minuzioso e preciso della logica formale per far scaturire un
significato nuovo da posizioni note, per trarre delle
conclusioni, spesso sottili e ingegnose, da premesse
indiscusse. Capita a volte che nei Vangeli riemerga questa
destrezza dello spirito e che susciti ragionamenti che
parimenti potremmo chiamare talmudici.
Nel
Vangelo secondo San Matteo, nell'episodio
dell'indemoniato, Gesù risponde ai farisei adottando la loro
maniera di ragionare: "Ma i farisei che udirono, dissero:
'Costui non caccia i demoni se non per virtù di Beelzebul,
principe dei demoni'. Ora, Gesù, conosciuti i loro pensieri,
disse: 'Ogni regno, diviso contro se stesso, sarà devastato; e
ogni città o casa, divisa contro se stessa, non potrà reggere.
Se dunque Satana scaccia Satana, egli è in discordia con se
stesso; come dunque potrà durare il suo regno? E se io caccio
i demoni per virtù di Beelzebul, per opera di chi li cacciano
i vostri adepti ? Per questo essi saranno i vostri giudici. Ma
se in virtù dello Spirito Santo io caccio i demoni, è dunque
giunto a voi il regno di Dio' ".
Se i
Farisei non apprezzarono la conclusione, tuttavia non
dovettero trovarsi spaesati di fronte al modo di
ragionare..
Sarebbe
possibile, con uno studio minuzioso dei Vangeli, elencare
tutti i punti in cui affiorano influenze rabbiniche, sia nella
forma che nella sostanza, sia nella
dialettica.
Lungo
tutti i Vangeli, Gesù dunque si esprime in stile rabbinico,
usa la parabola (machal), usa il commento (deracha),
per esporre idee ebraiche. E quando, dopo gli anni oscuri,
ritornerà a parlare nella sinagoga di Nazareth, lo stupore da
lui provocato non deriverà né dai suoi riferimenti ai libri
sacri né dal linguaggio con cui li esporrà e che non doveva
meravigliare i frequentatori delle funzioni. La sua origine
sarà diversa.
Non
bisognerebbe però lasciare il minimo dubbio, neppure per un
istante, sulla diversità che rivelerebbe la predicazione di
Cristo, se confrontata con la tradizione rabbinica. Arrivati a
questo punto, in questo libro che si pone esclusivamente tra
due periodi di mistero e che non può quindi rievocare né l'uno
né l'altro, non possiamo far altro, per una volta ancora, che
delineare questa differenza senza esaminarne le cause,
naturali o soprannaturali.
La
ragione prima per cui Gesù doveva stupire i frequentatori
delle discussioni talmudiche risulta dal modo in cui si
rivolgeva ai fedeli.
I
Vangeli, ogni qualvolta riferiscono uno dei suoi discorsi, lo
mostrano sempre espresso in prima persona: "In verità, vi
dico..." o formule equivalenti.
E con
queste semplici parole, Gesù infrangeva la tradizione
farisaica, anche se la sostanza delle sue frasi era
rigorosamente farisaica. Il Talmud, come sappiamo, è
una tribuna libera, dove la ricerca del vero si opera
confrontando le opinioni di vari dottori. Mai nessuno parla in
prima persona: "Rabbi Tale dice...", "Rabbi Tal altro
risponde...". Le opinioni si articolano, si affrontano, si
completano in una discussione che, praticamente, non sarà mai
conclusa e che considera sempre possibile l'intervento di
nuovi interlocutori. Come a dire che non esiste paternità
individuale per la verità del Talmud. Il suo
insegnamento è collettivo: e, che io sappia, nelle antologie
più o meno giustificate, fatte di questa gigantesca raccolta,
nessuno si è mai curato di classificare per autore le opinioni
espresse. Il Talmud è un' opera comunitaria:
corrisponde al sentimento propriamente ebraico che il commento
della Legge è una dimostrazione dell'alleanza conclusa da Dio
non con questo o quell'uomo, ma con l'insieme della comunità
d'Israele.
Innovazione quindi particolarmente audace, quella di
parlare, come fa Gesù nella Sinagoga, non riferendosi a questo
o a quel talmudista ma riprendendo a proprio vantaggio,
considerandoli come pensiero proprio, alcuni elementi tratti
dal pensiero dei dottori. Dovette essere uno scandalo per i
farisei di quei tempi: Gesù s'attribuiva una parte importante,
prendeva un'iniziativa, assumeva un'indipendenza spirituale
cui neppure Mosè aveva mai potuto ambire. Egli parlava in nome
di Dio, trascurando la tradizione, adducendo un'alleanza
personale con il Signore. Alleanza personale: per un
ebreo nato nella tradizione, le due parole non potevano non
contrapporsi: da collettiva che era stata sino a quel momento,
affidata al popolo ebraico, l'indagine religiosa metteva capo
a un tentativo personale, si localizzava su un predicatore che
veniva a disporre di un'iniziativa che non aveva mai avuto
nessun profeta.
Il
secondo punto su cui Gesù introduce delle innovazioni nella
predicazione, come l' hanno riferita i Vangeli, è meno
semplice da delineare e forse ancor più pieno di
conseguenze.
Il
pensiero ebraico biblico non sente sempre la necessità di
pronunciarsi francamente sulla materialità dei fatti.
L'universo è sacro, nella totalità del suo ordine come nel
minimo particolare, nello svolgimento generale della sua
storia, voluta da Dio, come nel più piccolo aneddoto. Nessuna
distinzione di sorta tra sacro e profano. Nessun ordine
soprannaturale né naturale. Nessun miracolo, isolato, poiché
tutto ciò che avviene sotto la volta del cielo, essendo
impregnato nello stesso tempo di umano e di divino, è per
forza oggettivo e miracoloso. Non esiste un atomo di materia
in cui non si trovino forze collegate con Dio; non esiste
gesto o atto, all'apparenza indifferente, che non sia in
realtà partecipe del destino cosmico, e che non possa influire
sul suo svolgimento.
Ne
risulta una concezione tutta a sfumature del
miracolo.
Per l'
ebreo, nella misura in cui egli prende coscienza della natura
umana, ogni atto è parimenti oggettivo e allegorico o, se si
preferisce una diversa formulazione, razionale e miracoloso.
In questa ambivalenza, ogni ebreo biblico attribuisce maggior
importanza e maggior verità al significato più che alla realtà
di un fatto. Avrebbero riso, o piuttosto si sarebbero
scandalizzati gli ebrei contemporanei del roveto ardente o del
passaggio del Mar Rosso, se avessero immaginato che, ai nostri
giorni, alcuni volgarizzatori della scienza, che si
considerano anche pilastri della fede, si sarebbero sforzati a
dimostrare che questi fatti miracolosi sono scientificamente
possibili.
Cercate
dunque le forchette nell'ultima Cena. Invocate l' orario delle
maree, consultate i sismografi per spiegare che il mare si
aprì davanti a Mosè. Analizzate le emanazioni di gas naturale
sulla vetta del monte Horeb per giustificare il roveto
ardente... Per un ebreo biblico siete soltanto profanatori,
allorché ingenuamente, stupidamente, credete di provare
l'episodio del Diluvio o del Mar Rosso.
Per un
ebreo biblico, per un ebreo talmudista e midrashista del tempo
in cui visse Gesù, la materialità dei fatti non è che la ganga
in cui si nasconde il loro significato, ed è questo solo che
conta.
Il
passaggio del Mar Rosso ( come sappiamo, ma è necessario
ripetersi...) poco importa che sia avvenuto secondo l'orario
della Bibbia. Poco importa persino che sia avvenuto:
importante, ripetiamolo, è solo il suo significato. Conta
soltanto che per Dio che ha ispirato questo episodio, che per
gli uomini che vi credono, esso costituisca un Machal,
forma specifica della narrativa ebraica, specie di
allegoria reale più che i fatti medesimi. Il passaggio del Mar
Rosso, per un ebreo, non è una impresa analoga alla ritirata
dei Diecimila o alle manovre di Austerlitz. È la risposta di
Dio alle inquietudini umane da lui stesso provocate con il
Diluvio universale. Per liberarne gli uomini, per avvertirli,
nello sviluppo della storia, che mai più il Signore
distruggerà l'umanità, Dio fa emergere la terra dall’acqua,
operazione opposta a quella dell' immersione.
In un
certo senso, si può dire che il Monte Sinai corrisponde al
monte Ararat, e che a un fatto comprovante la sua. collera,
Dio ha fatto seguire quello che dimostra per l'eternità la sua
clemenza, e i cui dati materiali sono esattamente opposti. Il
passaggio del Mar Rosso, come abbiamo già detto, è, in una
parola, l.'anti-Diluvio. In una simile prospettiva ritorniamo
alla predicazione di Gesù, alla forma che essa assume, al
paradosso che essa incarna.
Gesù,
di tradizione ebraica, sa benissimo che un fatto non vale
tanto di per se stesso quanto per la sua interpretazione. Ma
egli vive in un'epoca in cui lo spirito greco-latino si
diffonde in Israele, in cui la Bibbia dei Settanta
razionalizza e isterilisce la religiosità ebraica, in un'epoca
in cui i fatti destinati a dimostrare l'esistenza di Dio e
l'avvento del suo regno, cominciano ad essere apprezzati nella
loro positività.
Gesù,
come il suo uditorio, si trova tra due sistemi
d'interpretazione del mondo. Per gli uni, il mondo è sacro, e
innanzi tutto conta il suo significato. Per gli altri, è
profano; le sue dimensioni, le sue concatenazioni logiche, e
forse anche la sua tecnica, sono ciò che contano
soprattutto.
Come
potrebbe Gesù, la cui missione provvidenziale è di estendere
al mondo pagano il monoteismo ebraico, non essere combattuto
anche lui nel suo processo intellettuale ?
Da
quanto i Vangeli riferiscono sulle sue parole, si vede che,
involontariamente, esse danno adito, per un uditorio romano o
ebreo, a malintesi derivanti da una doppia origine.
Da un
lato, l'epoca di Gesù, quella degli anni oscuri, corrisponde a
un momento in cui, sotto la spinta dello spirito greco-latino,
le metafore della Scrittura cominciano a essere interpretate
come fatti: il Machal diventa un vero racconto, una
affermazione oggettiva. Prendiamo un esempio dai Salmi:
in queste poesie liriche, originariamente, non bisognava
interpretare alla lettera tutte le metafore che vi
abbondavano. Tuttavia, passando nella società greco-Iatina, i
temi utilizzati nei Salmi mutano radicalmente natura
:
"I
simboli, sempre poetici" scrive Teodoro Reinach "sono resi
materiali e trasformati in realtà tangibili. L'infermo dei
Salmi, puramente colpito da sofferenze morali, diventa
un vero e proprio malato. L'aceto che si ritiene che il
Malvagio metta nel piatto del povero si muta in autentico
aceto. E quest'immagine finisce con l'esser presa in senso
proprio e messa seriamente in atto. "
Ciò che
era vero per i Salmi, lo sarà forse anche per i
Vangeli. Come ha dimostrato un commentatore, in verità
abbastanza anticonformista, del Nuovo Testamento: "La
moltiplicazione dei pani che rappresenta l'Eucarestia
perpetua, la pesca miracolosa che significa la cattura delle
nazioni nella rete del Vangelo... è futile chiedere, dove e
quando questi fatti sono accaduti; essi avvengono di continuo.
E valgono in quanto simboli di realtà spirituali " [6]
Arriviamo adesso alla seconda origine di quei malintesi
tra ebrei biblici e latini che in un certo senso influiranno
sul dramma della Passione. Non soltanto gli episodi della
storia non hanno la stessa natura per un ebreo o per un
latino. Ma le parole per designarli non hanno lo stesso
significato, che ora è simbolico, ora letterale.
Quando
Gesù riconosce di essere re dei Giudei, l'espressione non ha
lo stesso significato per lui, fedele alla tradizione
religiosa dei suoi padri, e per tutti i
latinizzati e latini che lo giudicano. Per loro è
un'affermazione rivoluzionaria, un crimine di lesa maestà. Per
lui è il ricupero di un'espressione midrashica
che non ha un significato politico ma un valore
spirituale.
È in
parte da malintesi di questo tipo che è scaturito il
verdetto finale e che si è preparato il supplizio del
Nazareno. Si potrebbe così dimostrare come le
principali espressioni, disseminate nella predicazione
di Cristo che, per le reazioni suscitate, stanno all'origine
del suo martirio, fossero interpretate diversamente, conforme
alla tradizione spirituale del tale o del tal
altro.
Così
come dimostra giustamente Jules Isaac, l'appellativo "Figlio
di Dio" o "Figlio dell'Uomo", nel pensiero
ebraico tradizionale indica una filiazione spirituale che
ora è attribuita agli angeli, ora ai re d’Israele, e di
preferenza a David: "Possiamo attestare che l'idea di una
filiazione divina intesa in senso proprio, non solo non
esisteva nella teologia ebraica al tempo di Gesù, ma non era
neppure concepibile, tanto essa offendeva il rigore della sua
fede monoteista e della trascendenza divina".
Assumeva essenzialmente un valore di
allegoria.
Parimenti, per citare Monsignor Ricciotti,
l'espressione "Regno dei cieli" usata nel Vangelo secondo
San Matteo non indica il momento dell'evoluzione in
cui Dio regnerà sulla terra: vorrebbe dire, una volta di più,
interpretato alla lettera, in un senso quasi politico,
che si addice alle concezioni religiose dei romani, ma non
a quelle degli ebrei.
Dunque
Gesù, durante gli anni oscuri, durante questo periodo
misterioso di meditazione che lo prepara al mistero della sua
predicazione e della sua morte, partecipa a due fasi della
evoluzione spirituale. Egli si trova ai confini di due
civiltà, forse di due mondi. Da una parte, la tradizione
ebraica, in cui per la prima volta lo spirito biblico cozza
contro l'egemonia dei metodi razionalisti. Dall'altra parte,
l'Impero Romano, nel quale culmina la civiltà pagana,
innamorata della chiarezza logica e dell'efficacia pratica, ma
che subordina la fede ai bisogni della società.
Gesù è
radicato nell'una e costretto a manifestarsi nell'altra. Ogni
tentativo di spiegare ciò che poté essere allora la sua lotta
interna, ogni tentativo di fare ricadere la responsabilità del
dramma su uno dei due partiti, ebraico o romano, ne falserebbe
le prospettive e ne mutilerebbe nello stesso tempo il
significato umano e divino.
In
realtà, la Passione di Gesù deriva dall'urto fatale di due
civiltà e assume cosi un significato storico, ancora più
profondo possibile, ma anche un senso religioso che nessuno
può contestare.
Si sia
pur ebrei o cristiani o atei, è certo, qualunque possa essere
l'interpretazione data, che in un avvenimento simile
intervengono dei fattori che non sono interamente
discernibili.
Dal
Qaddish al Pater è ben chiara la filiazione,
chiara l'eredità dell'una all'altra. Ma per capire la funzione
straordinaria che questi ultimi anni oscuri hanno avuto
nell'evoluzione del mondo, bisogna essere persuasi che al di
fuori di ogni mutazione umana, essi corrispondono a una svolta
nella storia di Dio.
NOTE:
[1] Proudhon Portrait de
Jésus. (N.d.A)
[2] Talmud = studio. La Torah Orale è
stata tramandata di generazione in generazione fino al momento
in cui è stato opportuno scriverla, perché altrimenti c’era il
rischio che andasse dispersa. I rabbini citati nel Talmud sono
quelli del tempo del secondo Santuario, epoca nella quale è
stato scritto. Contiene la Mishnah (le discussioni dei
Tannaiti, i rabbini del primo periodo) e la
Ghemara’ (le discussioni degli amoraiti, i
rabbini del secondo periodo), la Brayta e la
Tossefta (discussioni avvenute fuori del Bet
Midrash). Tutte le discussioni hanno spirito profetico
quindi, come nella Torah, ogni parola ha la sua importanza,
sia per la posizione che per il contenuto spesso scritto con
linguaggio allusivo. Il Talmud rappresenta la
base di tutta la legislazione ebraica dal punto di vista
dell'attuazione; infatti, mentre la Torah Scritta
contiene dei principi, i 613 precetti, tramite lo studio del
Talmud ne fanno comprendere gli ambiti di
attuazione. Non si tratta di un'opera scritta una
volta per tutte; è un universo mentale che si sviluppa e si
rinnova con tutta la complessità e la diversità della
vita. (N. della redazione)
[3] F. Amiot: Les
Evangiles apocryphes, p. 110. (N.d.A.)
[4] A. Lipman:
Origines juives de l'Oraison dominicale, p. 28.
(N.d.A.)
[5] Midràsh (dalla radice DRSH,
investigare, studiare a fondo) scoprire il senso più profondo
della Scrittura, per rendere il messaggio in essa racchiuso
sempre attuale e vitale. Il termine indica il risultato di una
indagine esegetica del Testo sacro che venne praticata dai
Maestri dell’epoca talmudica e dai loro continuatori. I
Midrashìm (plurale di Midràsh), che inizialmente erano
tramandati oralmente (distinguendoli dal testo biblico, fisso
ed immutabile) si distinguono in Midràsh Halakhà e
Midràsh Aggadà.
-
Il Midràsh Halakhà è di contenuto giuridico
e attraverso esso i rabbini hanno fatto scaturire dal Testo
tutte le norme che permettono l’applicazione della legge
biblica nella vita quotidiana del singolo ebreo e della
collettività.
-
Il Midràsh Aggadà - raccolta di
narrazioni e di favole, di nozioni e di fantisticherie, di
immagini e simboli - riguarda tutto ciò che non è
strettamente rituale e rende la Torà più vicina all’uomo,
sensibilizzandolo verso problematiche inerenti il rapporto
tra gli uomini e tra questi e Dio. (N. della
Redazione)
[6] Paul Couchoud: Le
Dieu Jésus, p. 204. (N.d.A.)
Fonte: Robert Aron, Gli anni oscuri di
Gesù, Oscar Saggi Mondadori, Milano 1978
- p.229-250 |
|