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Si guarda e si rimane perplessi. Non è l’unico conflitto della terra. Forse non è neanche, per numero di vittime, il più grave. Ma interessa più di ogni altro. Azzardare una lettura teologica di questa situazione storica? Ci si scontra subito con le letture teologiche che già ci sono, quelle del fondamentalismo ebraico e quelle del fondamentalismo mussulmano. Di fronte a queste si preferisce battere immediatamente in ritirata attestandosi sul più agevole piano laico: diritti dei popoli, autodeterminazione, democrazia. Ma l’impulso rimane. Ad un cattolico attento a tutti gli sviluppi dei rapporti fra cristiani ed ebrei nell’ultimo secolo non mancherebbero elementi sui quali impostare un serio discorso teologico. L’alleanza fra Dio e Israele non è stata mai revocata, quindi permane anche con l’Israele vivo di oggi. Gli ebrei sono carissimi a Dio. La loro coscienza della elezione e della missione deve essere rispettata, apprezzata e amata e può essere utile al cristianesimo per una migliore comprensione di se stesso.[1] Qui si tratta di elementi di fede e non semplicemente di proposte di pace e di buon vicinato. Più si riconduce il cristianesimo alle sue radici culturali ebraiche e più si ha l’impressione di comprenderlo in maniera maggiormente autentica. Non si tratta di rinnegare la storia e nemmeno la grande e concreta inculturazione del cristianesimo nella cultura greco-romana, che caratterizza, in particolare la Chiesa cattolica.[2] La Chiesa cattolica sia quello che è, ma non dimentichi che la via a Dio non è stata aperta da uomini, ma da Dio stesso ed è stata aperta con l’alleanza mai revocata stipulata con il popolo prescelto. Un popolo che, in qualche modo, resta sempre nomade, privo di quella sicurezza della città e della civiltà dominante, sempre di fronte a un compito più grande di lui. Un popolo chiamato, più di ogni altro, ad essere libero da ogni atteggiamento idolatrico e per questo privato di ogni possibile idolo. Un popolo sacerdotale, in quanto tale segregato dalle idolatrie degli altri, dove le idolatrie si possono presentare come aspirazione alla totalità, aspirazione e gratificazione (illusoria), dove la totalità, alternativa all’infinito, ha una pericolosa vicinanza col totalitarismo.[3] Un popolo che sta davanti a Dio, come scriveva Rosenzweig, insieme ai re degli altri popoli, colpito da malattie perché essi ottengano la guarigione, permettendo così che si stringa, inestricabile per mani umane, un nodo di sofferenza e di colpa, di amore e di giudizio, di peccato e di riconciliazone.[4] La via della discesa di Dio è certamente anche la via del possibile ritorno a Lui. C’è qualcosa in Israele che manca a noi, non perché noi siamo i religiosi della croce e loro non lo sono, ma, probabilmente per un più di purificazione che è richiesta a loro. Sia chiaro che di ciò che manca all’istituzione come tale - e non manca ai singoli santi, nomadi di Dio anche fra i cristiani, veri figli di Israele al di là dei suoi confini etnici - si può usufruire mediante la condivisione. Nessuna religione è un’isola, insegnava Heschel, la volontà di Dio è la condivisione.[5] Un’obiezione contro queste aperture non è da aspettarsela oggi tanto dai custodi dell’ortodossia più tradizionale, quanto dai fautori di un malinteso ecumenismo o di un vago misticismo, mistura di altre religioni. C’è un ecumenismo e un dialogo-cooperazione fra le religioni che parte dal rispetto dell’altro, che evita di mortificarne le peculiarità che sono anche le sue più grandi ricchezze. Tale era, ad esempio, l’attitudine ecumenica di Rosenzweig rispetto al cristianesimo. In questo rispetto e in questo ascolto ci si possono comunicare carismi, scambiare ricchezze spirituali. È l’ecumenismo che cresce sempre di più nella Chiesa e nelle Chiese, è l’attitudine che cresce nel cristianesimo e in altre religioni. Permane, tuttavia, in alcuni, un ecumenismo concepito come mistura di alcuni elementi che si suppongono validi nelle diverse religioni, sulla base di ideologie costruite nella modernità. È chiaro che, per questo tipo di concezione ecumenica o mistica, un Dio che apre un dialogo con l’uomo, che lo apre attraverso un popolo e dei profeti, attraverso un suo inviato venuto o da venire, è semplicemente assurdo.[6] Il documento della Pontificia Commissione per le relazioni con l’ebraismo intitolato Orientamenti e suggerimenti per l’applicazione della dichiarazione conciliare Nostra aetate (1974) esortava a tener presente la coscienza che gli ebrei di oggi hanno di se stessi e della propria tradizione religiosa. Possiamo far riferimento a qualche testimone. Il laico israeliano A. B. Yehoshua, in un saggio di vasta risonanza anche internazionale,[7] trattò esplicitamente della necessità di fare dello stato di Israele uno stato uguale a tutti gli altri, eliminando dalla cultura ebraica ogni discorso su concetti come quelli di elezione o missione, esattamente all’opposto di quanto, invece, chiedeva M. Buber, secondo il quale Israele non poteva mai divenire uno stato come gli altri.[8] Può un credente cristiano rimanere indifferente di fronte alla prospettiva della perdita dell’identità della fede nel popolo da cui anche la nostra fede cristiana fluisce? Si può veramente pensare che la storia dell’odierno Israele debba ridursi a una storia pagana di un popolo che si colloca nella competizione di tutti gli altri popoli (Buber), senz’altro desiderio che di starci onorevolmente? D’altra parte, se, come è naturale, pensiamo che Israele abbia ancora un compito e una missione, un compito esigente e pesante, noi cristiani possiamo lasciar solo Israele nell’adempimento di questo compito, possiamo metterci alla finestra e stare a guardare? Molti cristiani, purtroppo, si comportarono così al tempo della Shoah e di questo comportamento si rammaricava Elie Wiesel quasi più del comportamento dei carnefici nazisti.[9] La dialettica interna alla società israeliana, poco nota all’esterno perché poco diffusa dai mass media, è vivissima anche oggi. Secondo V. Jankélévitch “lo stato di Israele è figlio della sventura. E’ nato dalla sventura, è nato da sofferenze indicibili, le più grandi, le più atroci che un popolo abbia mai subito”.[10] Mentre André Schwarz-Barth poteva scrivere: “Già sentito questo isolamento fra le nazioni, quest’impressione di essere di troppo sulla terra, quest’impressione che la nostra esistenza esasperi persino i nostri amici” e anche: lo stato di Israele è ben presto diventato “l’ebreo fra le nazioni”;[11] Amos Oz notava: “Tutto ciò che accade nel mondo, accade qui, comincia e finisce prima qui”.[12] Prima dell’ultima Intifada era fortissima l’impressione del pericolo di sgretolamento della società israeliana, a causa delle tensioni interne e della pesantezza del compito incombente su quella stessa società. La condizione difficilissima che si è venuta a creare ha prodotto, come sempre succede, una nuova coesione fra gli israeliani. Quasi come per una misteriosa e storicamente immanente attuazione del capitolo 53 di Isaia, Israele si è trovato caricato dell’ostilità maturata dai mussulmani contro i popoli cristiani in secoli di crociate, di inferiorità e di colonizzazione. Gli ebrei dei secoli passati, in fondo, si erano trovati assai meglio dei cristiani nel mondo islamico e per molti di loro l’impero ottomano aveva rappresentato il rifugio al tempo delle espulsioni dai paesi cristiani, particolarmente dalla Spagna. La difficile condizione in cui si trova oggi lo Stato di Israele ha fatto sì che di Israele si parli ogni giorno nel resto del mondo, particolarmente fra i popoli cristiani. Rispetto alla reciproca ignoranza, al disinteresse e all’ostilità che ha caratterizzato i tempi passati, questo è già un progresso. Questo fenomeno si produce mentre a livello teologico molti ebrei si aprono alla conoscenza del cristianesimo, particolarmente delle sue origini dall’ebraismo, e molti cristiani lavorano alacremente per ritrovare la radice ebraica della fede al di là dell’inculturazione ellenistica. Come ho già accennato, non si tratta di deprecare le inculturazioni. La storia è stata quello che è stata e le varie inculturazioni hanno il loro valore tanto per il cristianesimo quanto per l’ebraismo. Si tratta di andare oltre un’ontoteologia pervasiva, che rappresenta un handicap per una nuova espressione della fede. Un dogma come quello della Trinità, per esempio, così come si è andato strutturando all’epoca dei Padri - ontoteologicamente - è certamente impensabile nell’ebraismo. Sembra tuttavia che, senza negare il valore di quanto approfondito nel passato, questo dogma verrebbe detto in un modo molto più pregnante oggi se si riconducesse alle sue radici ebraiche, se si vedesse come esso germina nell’ebraismo e dall’ebraismo. La fede nella Trinità è la fede in un Padre che vive per un Figlio e in un Figlio che vive per il Padre nello Spirito. Queste relazioni esistenziali - Padre-Figlio, Figlio-Padre, Spirito tra Padre e Figlio - nascono nel rapporto fra il Dio di Israele e l’Israele di Dio, rapporto che si produce attraverso la Ruah, che appare subito, all’opera, fin dall’inizio (Gen 1, 2) e appare moltissime altre volte nella Bibbia ebraica, prima che nella parte esclusivamente cristiana della Bibbia. La dottrina cristiana della Trinità nasce in quel rapporto di Spirito fra Adonaj e Israele, per cui il rabbino Emil Fackenheim faceva dire a Dio: “Se voi non siete il mio popolo, io per quanto possibile, per così dire, non sono più Dio”.[13] E Emmanuel Lévinas poteva scrivere che è come “se la storia di Israele fosse la ‘divina commedia’ o la ‘divina ontologia’ stessa”.[14] L’ebreo Joseph Klausner scriveva già nel 1922 che Gesù è il più ebreo fra gli ebrei e per questo fu ucciso dai suoi connazionali ebrei.[15] Tutta la concezione di Dio, dell’uomo e del mondo che Gesù manifesta nella sua coscienza, non escluso, naturalmente, il suo rapporto al Padre e allo Spirito, è stata mediata, particolarmente tramite Maria,[16] dalla coscienza di Israele. Di fronte a questa realtà, che noi confermiamo recitando ogni giorno i salmi di Israele e leggendo le sue Scritture sante, la situazione di divisione, reciproco sospetto, che a volte ancora permane, appare veramente paradossale e assurda. Noi cristiani dovremmo avere un’immensa riconoscenza verso questo popolo da cui abbiamo ricevuto beni tanto grandi. Come non pregare per Gerusalemme? Come non pregare per il popolo di Adonaj? Come non adoperarsi in ogni modo affinché la testimonianza che questo popolo è chiamato a rendere al suo e nostro Dio sia facilitata e continui anche oggi e in futuro? Per poco che ci pensiamo, troviamo che l’esortazione del salmo posta in capo a questo editoriale Domandate pace per Gerusalemme, non è ricordo di un’epoca passata e lontana, ma è un’esortazione attuale oggi. Veramente è possibile ed anche urgente riconoscere la peculiarità di ciascuna delle nostre testimonianze, di quella ebraica e di quella cristiana e riconoscere che, come sempre, la vita dell’ebraismo, con le concrete difficoltà che incontra oggi, è esperienza dell’agire di Dio sull’umanità, è compito, vocazione e missione. Il corretto e veritiero riconoscimento dell’altro è punto di partenza per l’amore e la cooperazione. ______________________________________ [1] Faccio riferimento, particolarmente, alla dichiarazione Nostra aetate, 4, ai passi paralleli della LG, 16, e ai documenti esplicativi della NA, Orientamenti e suggerimenti per l’applicazione della dichiarazione conciliare NA (1974) e Ebrei ed ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica (1985). [2] Cf le riflessioni che si trovano, a questo proposito, nell’encliclica Fides et ratio, di Giovanni Paolo II, nn. 71-72 [3] Cf,
per questo, le riflessione di E. Lévinas nella fondamentale opera Totalità e infinito (Jaka Book,
Milano, 1980). [4] Cf F. Rosenzweig, La stella della redenzione, Marietti, Casale M., 1986, p. 328. [5] Cf A. J. Heschel, No Religion is an Island, in Union
Seminary Quaterly Review, 21 (Jan. 1966), pp. 117-134. [6]
Sembra che sia questa la concezione ecumenica di E. Drewermann. Secondo
lui, se il cattolico mantiene fede alle proprie convinzioni, anche le più
peculiari come quelle riguardante il ruolo di Maria nella storia della
salvezza, non potrà mai avvenire una soddisfacente intesa con le altre
religioni (C’è speranza per la
fede? Il futuro della religione all’inizio del XXI secolo, Queriniana,
Brescia, 2002, pp. 229-230 e altrove). Suppone quindi che l’intesa
avvenga, come nel deismo illuminista, su un piano comunemente accettato,
una specie di essenza comune frutto di una raffinazione, che eviti le
particolarità – e probabilmente le più profonde ricchezze – di ciascuna
religione. Di fatto, poi, per
questo autore la religione è quella della ragione moderna,
rimpianta nonostante il passaggio al postmoderno. [7] Elogio della normalità. Saggi sulla Diaspora e Israele, Giuntina, Firenze, 1991. [8] Cf
Sette discorsi sull’ebraismo,
Carucci, Roma, 1986, pp. 140-141. Come è noto questi discorsi, scritti fra
il 1909 e il 1918, sono ben anteriori alla costituzione dello stato di
Israele, ma Buber rimase sempre fedele a questa concezione. Scriveva ad esempio assai più
tardi: “Nations can be led to peace only by a people that has made peace a
reality with itself. The realization of the spirit has a magnetic effect
on mankind wich despairs of the spirit” (On the Bible. Eighteen Studies by M.
Buber, Schecken Books, New York, 1968, p. 158). [9] Cf specialmente La città della fortuna, Giuntina, Firenze, 1990, pp. 152 ss. “I carnefici li capivo, le vittime anche, per quanto fosse più difficile. Ma gli altri, tutti gli altri, coloro che non erano né a favore né contro… coloro che pretendevano di essere al di sopra della mischia, loro mi erano rimasti totalmente incomprensibili” (p. 152). [10] La coscienza ebraica, Giuntina, Firenze, 1986, pp. 96-97. [11] Riportato in F. Coen, Israele, quarant’anni di storia, Marietti, Genova, 1987, pp. 174-175. [12] Riportato in F. Coen, op. cit., p. 174. [13] Cf Judaïsme au présent, Michel,
Paris, 1992, pp. 395-398. [14] Cf L’aldilà del versetto, Guida, Napoli, 1986, pp. 74-75. [15] Cf J: Klausner, Jesus von Nazareth, Seine Zeit, sein Leben und seine Lehre, Berlin, 1952, p. 520. Questa opera fu pubblicata originariamente in ebraico nel 1922. E il noto studioso Leo Baeck, scriveva già all’inizio del secolo passato: “Gesù fu un ebreo fra ebrei; da nessun altro popolo sarebbe potuto venire un uomo come lui e in nessun altro popolo avrebbe potuto operare un uomo come lui” (Harnack’s Vorlesungen über das Wesen des Christentums, in Monatsschrift für Geschichte und Wissenschaft des Judentums, 45, 1901, p. 118). [16] Scriveva lo studioso ebreo D. Flusser: “Mussulmani, ebrei e cristiani di ogni tendenza, liberali e conservatori, perfino atei, tutti quanti accettano l’esistenza di Gesù ammetteranno che Maria sua madre lo collega al popolo ebreo” (Il cristianesimo. Una religione ebraica, Paoline, Cinisello B., 1992, p. 17). Analogamente il cattolico Balthasar insegnava che la Mariologia è essenziale per la cristologia in quanto Maria introduce Gesù nella tradizione religiosa di Israele, senza la quale “il Verbo di Dio non sarebbe divenuto carne, dal momento che l’essere nella carne significa pur sempre farsi ricettivi da altri” (Le persone del dramma: l’uomo in Cristo. Volume tre di TeoDramatica, Jaka Book, Milano, 1992, pp. 166-167). | home | | inizio pagina | |