Ogni volta che si incontrava Giovanni Paolo II si aveva la
sensazione che stesse accadendo qualcosa di importante; aveva una
solennità immediatamente percepibile. Ma del Papa polacco non si è
ancora riconosciuto tutto il valore: in particolare come filosofo
della morale; un aspetto che dovrà essere studiato più in
profondità. A esprimere queste opinioni è il rabbino Jack Bemporad,
78 anni, una vita spesa a promuovere la mutua comprensione fra le
religioni. Nato in Italia ma trasferitosi negli Stati Uniti a sei
anni, dopo l'approvazione delle leggi razziali, il rabbino ha
guidato comunità ebraiche in Texas, California e New Jersey. Dal
1992 presiede il Center for Inter-Religious Understanding ed è
docente presso la Pontificia università San Tommaso d'Aquino.
Bemporad è ed è stato un importante interlocutore per i rapporti con
la Chiesa: ha lavorato con i cardinali Willebrands e Cassidy per
giungere a piene relazioni diplomatiche fra Israele e Santa Sede,
aveva incontrato Giovanni XXIII - il concilio Vaticano II "è stata
una delle esperienze decisive della mia vita", racconta - e
Benedetto XVI. E, naturalmente ha avuto ripetuti incontri con Karol
Wojtyla, di cui, alla vigilia della beatificazione, parla in questo
colloquio con "L'Osservatore Romano".
Lei ha incontrato Giovanni Paolo II numerose volte, fra le quali
a Denver, nel 1993, e in Vaticano, nel 1994, quando i vostri
colloqui ebbero come tema la visione degli ebrei nel catechismo
cattolico. Inoltre ha guidato una nutrita delegazione di rabbini e
leader religiosi che si sono recati a far visita al Papa poco tempo
prima della sua morte. Che ricordi conserva di quegli incontri?
Forse la prima sensazione che si aveva quando si incontrava
personalmente Giovanni Paolo II era la percezione della sua
solennità. Un elemento che si rendeva immediatamente manifesto e che
ti faceva sentire che stava accadendo qualcosa di importante. Allo
stesso tempo, trasparivano la sua profonda umanità e il suo amore;
sentivi che lui era interessato a te e a cosa stavi facendo, alla
questione che ti stava a cuore in quel momento. A Denver, il mio
incontro con lui poté aver luogo solo tardi nella giornata, dal
momento che era stato programmato dopo i molti colloqui e conferenze
nei quali fu impegnato: la sua preoccupazione però era che le
religioni potessero lavorare insieme per offrire un'etica oggettiva
e universale capace di aiutare ad affrontare i problemi urgenti che
ci troviamo di fronte: la guerra, la povertà, l'ineguaglianza e la
mancanza di educazione in così tante parti del mondo. L'incontro in
Vaticano fu invece molto più teoretico e teologico. Era collegato al
lavoro che il nostro centro aveva fatto riguardo all'educazione
della comunità interreligiosa sul nuovo catechismo e si parlò di
come si poteva condurre al meglio il dialogo teologico fra cristiani
ed ebrei. Quello che rimaneva impresso dopo questi e altri colloqui
era la completa dedizione del Papa a costruire un mondo migliore per
tutti gli esseri umani, il suo impegno per un dialogo nel quale si
potesse essere conformi alla propria fede senza offendere la fede
degli altri, e anche la consapevolezza di come fosse difficile e
serio questo lavoro.
Quando Giovanni Paolo II si recò a Gerusalemme lei fu chiamato a
commentare l'evento per diversi media. A distanza di tempo, secondo
lei, cosa veramente rese quel viaggio così memorabile?
Penso che l'immagine di un Papa fragile, che senza aiuto
camminava lentamente verso il Muro per inserirvi la bellissima
preghiera di perdono e riconciliazione, abbia colpito indelebilmente
i cuori degli ebrei, non solo di quelli di Israele ma degli ebrei di
tutto il mondo. Inoltre, credo che il suo incontro con i
sopravvissuti polacchi della Shoah, i quali riconobbero come questo
Papa da giovane fosse stato testimone di quell'orrore, abbia
dimostrato la sua solidarietà con la sofferenza del popolo ebraico.
Secondo lei, quale atto di Giovanni Paolo II è stato determinante
nei rapporti con la comunità ebraica?
Credo che l'atto più importante sia stato
la visita alla Sinagoga
di Roma, nell'ambito della quale si ebbe la conferma di quella che è
stata la più importante innovazione della dichiarazione
Nostra aetate e dei documenti successivi. Giovanni Paolo II credeva che i
cambiamenti sopravvenuti fra cristiani ed ebrei dovessero avere
un'esplicita espressione. Quale modo migliore poteva esserci se non
entrare nella Sinagoga di Roma e abbracciare il rabbino Toaff
davanti al mondo intero?
Che importanza hanno avuto, nel giudizio degli ebrei sul Papa,
gli atteggiamenti personali di Giovanni Paolo II?
In effetti il popolo ebraico aveva la più alta opinione e il più
alto rispetto per Giovanni Paolo II. È stato il primo Papa a entrare
in Sinagoga e a chiedere perdono per i passati atti di
antigiudaismo, usando la parola ebraica teshuvah, che significa non
solo richiesta di perdono ma determinazione a prendere una nuova
direzione. Oltre a questo, ha avviato e portato a termine la
costruzione di piene relazioni diplomatiche fra Israele e la Santa
Sede e ovunque lui andasse nel mondo, ha sempre incontrato la locale
comunità ebraica per stabilire legami di amicizia e mutua
comprensione. Nessun Papa prima di lui aveva fatto così tanto.
Di Karol Wojtyla si racconta come da giovane prete abbia ritenuto
non opportuno educare al cattolicesimo un orfano ebreo, rispettando
così la volontà dei genitori del bambino, morti in un campo di
concentramento. Se lei si fosse trovato nelle stesse circostanze,
avrebbe agito allo stesso modo?
Sì, anche se devo dire che la religione ebraica non prevede che
si faccia proselitismo attivo. Questo atto testimonia la sensibilità
e la comprensione del Papa.
Giovanni Paolo II ha detto che la Shoah e l'antisemitismo hanno
un intrinseco sentimento anticristiano. È d'accordo con questa
affermazione?
Certo! L'idolatria del culto del Führer e il suo simbolismo
pagano sono antitetici agli insegnamenti tanto del giudaismo quanto
del cristianesimo. E potrei aggiungere anche dell'islam.
Qual è l'eredità più grande che ci ha lasciato Giovanni Paolo II?
Non abbandonare la speranza, non avere paura, il pessimismo è un
grande peccato. Inoltre, e questo sfortunatamente è stato negato,
egli era un grande filosofo etico e morale. I suoi scritti sulla
persona e nel campo dell'etica credo che dovranno essere
attentamente studiati dalle future generazioni.
Lei è un grande esperto di dialogo interreligioso, al quale ha
dedicato gran parte della sua vita. Secondo lei, quale può essere la
chiave per superare le difficoltà in questo campo e in questa epoca
in particolare?
Dobbiamo avere molta più conoscenza gli uni degli altri e
relazionarci con compassionevole comprensione, riconoscendo che solo
in questo modo possiamo lavorare insieme per il bene. Attraverso
questo lavoro comune non solo riusciamo a comprenderci meglio ma
riusciamo a comprendere meglio noi stessi e la nostra relazione con
la nostra religione.
Assistiamo, anche in questi giorni, a molte violenze
anticristiane in diverse parti del mondo. Che origine ha questa
"cristianofobìa"?
Viene dal fanatismo. Questo è un problema molto serio e dobbiamo
lavorare insieme per unirci alle persone di tutte le fedi che amano
la pace e si battono per la pace e la giustizia nel mondo.
C'è stato un momento particolare della sua vita nel quale ha
capito che la mutua comprensione tra le fedi non era più
procrastinabile?
Nel corso di lunghi anni ho capito che la religione ha un grande
potere sul bene e sul male, e che le soluzioni politiche e secolari
non potranno riuscire da sole. Questo compito spetta a tutte le
religioni del mondo.
Qual è il ruolo delle questioni economiche e politiche nel
confronto religioso? Possiamo parlare di pace fra le religioni senza
parlare, allo stesso tempo, di giustizia fra le nazioni?
No, certamente no. Ma riconosciamo pure che è la religione ad
aver dato al mondo l'ideale dell'umanità, un ideale che deve essere
preservato e sviluppato. Forse il miglior esempio è l'istituto dello
shabbath biblico, ovvero nessuno può essere costretto a lavorare
sette giorni a settimana: ognuno deve avere il controllo del proprio
tempo almeno per un giorno, così che una persona possa cominciare a
percepire se stessa come soggetto e non come oggetto. Se le
questioni politiche ed economiche sono trattate in termini
strettamente secolari, senza la cornice dell'intrinseca dignità di
tutti gli esseri umani, si va verso una china estremamente
scivolosa.
(©L'Osservatore Romano 28 aprile 2011)