La trappola di Hitler

Il peso del passato del popolo tedesco e la «tesi nefasta» della colpa collettiva: un intervento inedito di Hannah Arendt. Sottolineiamo il suo accenno al fenomeno della "emigrazione interiore", un rischio sempre presente, ma possibilmente da non correre, nei 'momenti bui' della storia.

Sta per uscire il libro «L’umanità in tempi bui» di Hannah Arendt (Raffaello Cortina editore, pagine 100, euro 9,00). Il testo della grande intellettuale fu pronunciato il 28 settembre ’59 come discorso in occasione del conferimento del premio Lessing. Si trattò del primo riconoscimento ufficiale per colei che resta famosa soprattutto come autrice di «La banalità del male».

Dal volume anticipiamo un brano sull’essere ebrei in Germania e sul tema della colpa collettiva del popolo tedesco rispetto alla Shoah.

Se sottolineo tanto esplicitamente la mia appartenenza al gruppo degli ebrei cacciati dalla Germania a un'età relativamente giovane, è perché desidero prevenire taluni malintesi che insorgono fin troppo facilmente quando si parla di umanità. In questo contesto, non posso passare sotto silenzio il fatto che per molti anni ho ritenuto che la sola risposta adeguata alla domanda «Chi sei?» fosse: «Un'ebrea». Solo questa risposta teneva conto della realtà della persecuzione. Lo stesso vale per l'affermazione (di cui restituisco il senso, e non la lettera) con la quale Nathan il saggio risponde all'ordine «Avvicinati, ebreo» con le parole «Io sono un uomo» - avrei ritenuto che non fosse altro che una grottesca e pericolosa evasione dalla realtà. Permettetemi di dissipare velocemente un altro malinteso. Quando uso la parola "ebreo", non alludo a un tipo speciale di essere umano, come se il destino degli ebrei fosse o rappresentativo o esemplare del destino del genere umano. (Una tesi di questo genere ha potuto, al massimo, essere legittimamente sostenuta solo nell'ultimo periodo nazista, quando gli ebrei e l'antisemitismo furono effettivamente utilizzati con l'unico scopo di innescare e mantenere attivo il processo di sterminio razziale, proprio di quella forma di dominio totalitario. Fin dall'inizio il movimento nazista tendeva al totalitarismo, ma il Terzo Reich non fu in alcun modo totalitario nei primi anni. Per "primi anni" intendo dal 1933 al 1938). Dicendo «Un'ebrea», non mi riferivo neppure a una realtà dotata di una specificità storica.

Noi ebrei e i nazi

Al contrario, non riconoscevo altro che un fatto politico, attraverso il quale il mio essere un membro di quel gruppo finiva per avere il sopravvento su tutte le altre questioni di identità personale o piuttosto le decideva in favore dell'anonimato. Oggi un tale atteggiamento potrebbe sembrare una posa. Ecco perché oggi è facile notare che quelli che si sono comportati in quel modo non hanno imparato molto alla scuola dell'"umanità", anzi sono caduti nella trappola di Hitler, ossia sono stati succubi dello spirito dell'hitlerismo a modo loro. Sfortunatamente, il principio maledettamente semplice che è qui in questione rientra in quelli che è particolarmente difficile comprendere in tempi di diffamazione e persecuzione: non ci si può difendere se non nei termini dell'identità che viene attaccata. Coloro che rifiutano le identificazioni che vengono loro imposte da un mondo ostile, possono sentirsi mirabilmente superiori al mondo, ma la loro superiorità non è più di questo mondo; è la superiorità di un "paese dei sogni" più o meno ben attrezzato.

Se in questo modo rivelo bruscamente lo sfondo personale delle mie riflessioni, ciò può suonare alle orecchie di quelli che non conoscono il destino degli ebrei se non per sentito dire come uno spiattellare i segreti di un mondo che non hanno frequentato e le cui vicende li riguardano. Ma succede che nello stesso periodo esistesse in Germania il fenomeno noto come "emigrazione interiore" e chi sa qualcosa di quell'esperienza può facilmente riconoscere talune questioni e conflitti che presentano un'analogia - non solo di forma o di struttura - con i problemi che ho sollevato. Come suggerisce il termine stesso, l'"emigrazione interiore" fu un fenomeno curiosamente ambiguo. Significa, da un lato, che all'interno della Germania c'erano persone che si comportavano come se non appartenessero più a quel Paese, che si sentivano come degli emigranti; indicava, dall'altro, che essi non erano emigrati, ma si erano ritirati in uno spazio interiore, nell'invisibilità del pensare e del sentire. Sarebbe sbagliato pensare che questa forma di esilio, di ritirarsi dal mondo per rifugiarsi in uno spazio interiore, sia esistita solo in Germania, e analogamente che tale emigrazione sia finita con la fine del Terzo Reich. In quell'epoca oltremodo buia, dentro e fuori della Germania, fu in realtà particolarmente forte la tentazione, di fronte a una realtà apparentemente insopportabile, di abbandonare il mondo e il suo spazio pubblico per un'esistenza interiore, o semplicemente di ignorarli a vantaggio di un mondo immaginario "come dovrebbe essere" o "come era stato una volta".

Dimenticare o ricordare?

Si è discusso molto sulla tendenza ampiamente diffusa in Germania ad agire come se gli anni dal 1933 al 1945 non fossero mai esistiti, come se quella parte della storia tedesca ed europea, quindi mondiale, potesse essere cancellata dai manuali; come se tutto dipendesse dalla capacità di dimenticare il negativo e di ridurre l'orrore a sentimentalismo. (Il successo mondiale del Diario di Anna Frank dimostrò chiaramente che tali tendenze non erano confinate alla Germania.) Era grottesco che ai giovani tedeschi non fosse permesso di venire a conoscenza di fatti che ogni scolaro, a qualche chilometro di distanza, non poteva ignorare. Dietro c'era certamente un effettivo disorientamento, ed è probabile che l'incapacità di fronteggiare la realtà del passato abbia rappresentato l'eredità diretta dell'emigrazione interiore, così come fu indubbiamente in larga misura, e ancor più direttamente, una conseguenza del regime hitleriano - ossia una conseguenza della colpa organizzata in cui i nazisti coinvolsero tutti gli abitanti dei paesi tedeschi, gli emigrati all'interno non meno dei membri convinti del partito e degli esitanti compagni di strada.

Padroneggiare il passato?

Gli Alleati non fecero altro che riprendere in seguito tale espediente, inserendolo nella tesi nefasta di una colpa collettiva. Di qui deriva il profondo imbarazzo dei tedeschi che colpisce tanto uno straniero, in ogni discussione sui problemi del passato. La difficoltà che devi esserci nel trovare un atteggiamento ragionevole è espressa forse nella maniera più chiara dal cliché secondo cui il passato resta ancora "non padroneggiato", nonché nella convinzione che la prima cosa da fare sia padroneggiarlo. Probabilmente ciò non è possibile con nessun passato, di sicuro non è possibile con il passato della Germania di Hitler. Il risultato migliore che si può conseguire è sapere esattamente che cosa è stato e sopportare il peso di tale presa d'atto, quindi aspettare e vedere che cosa viene fuori dal sapere e dal sopportare.
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[Fonte: Avvenire 9 giugno 2006]

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