Se sottolineo tanto
esplicitamente la mia appartenenza al gruppo degli ebrei cacciati dalla
Germania a un'età relativamente giovane, è perché desidero prevenire
taluni malintesi che insorgono fin troppo facilmente quando si parla di
umanità. In questo contesto, non posso passare sotto silenzio il fatto
che per molti anni ho ritenuto che la sola risposta adeguata alla
domanda «Chi sei?» fosse: «Un'ebrea». Solo questa risposta teneva
conto della realtà della persecuzione. Lo stesso vale per
l'affermazione (di cui restituisco il senso, e non la lettera) con la
quale Nathan il saggio risponde all'ordine «Avvicinati, ebreo» con le
parole «Io sono un uomo» - avrei ritenuto che non fosse altro che una
grottesca e pericolosa evasione dalla realtà. Permettetemi di dissipare
velocemente un altro malinteso. Quando uso la parola "ebreo",
non alludo a un tipo speciale di essere umano, come se il destino degli
ebrei fosse o rappresentativo o esemplare del destino del genere umano.
(Una tesi di questo genere ha potuto, al massimo, essere legittimamente
sostenuta solo nell'ultimo periodo nazista, quando gli ebrei e
l'antisemitismo furono effettivamente utilizzati con l'unico scopo di
innescare e mantenere attivo il processo di sterminio razziale, proprio
di quella forma di dominio totalitario. Fin dall'inizio il movimento
nazista tendeva al totalitarismo, ma il Terzo Reich non fu in alcun modo
totalitario nei primi anni. Per "primi anni" intendo dal 1933
al 1938). Dicendo «Un'ebrea», non mi riferivo neppure a una realtà
dotata di una specificità storica.
Noi ebrei e i nazi
Al contrario, non
riconoscevo altro che un fatto politico, attraverso il quale il mio
essere un membro di quel gruppo finiva per avere il sopravvento su tutte
le altre questioni di identità personale o piuttosto le decideva in
favore dell'anonimato. Oggi un tale atteggiamento potrebbe sembrare una
posa. Ecco perché oggi è facile notare che quelli che si sono
comportati in quel modo non hanno imparato molto alla scuola
dell'"umanità", anzi sono caduti nella trappola di Hitler,
ossia sono stati succubi dello spirito dell'hitlerismo a modo loro.
Sfortunatamente, il principio maledettamente semplice che è qui in
questione rientra in quelli che è particolarmente difficile comprendere
in tempi di diffamazione e persecuzione: non ci si può difendere se non
nei termini dell'identità che viene attaccata. Coloro che rifiutano le
identificazioni che vengono loro imposte da un mondo ostile, possono
sentirsi mirabilmente superiori al mondo, ma la loro superiorità non è
più di questo mondo; è la superiorità di un "paese dei
sogni" più o meno ben attrezzato.
Se in questo modo rivelo
bruscamente lo sfondo personale delle mie riflessioni, ciò può suonare
alle orecchie di quelli che non conoscono il destino degli ebrei se non
per sentito dire come uno spiattellare i segreti di un mondo che non
hanno frequentato e le cui vicende li riguardano. Ma succede che nello
stesso periodo esistesse in Germania il fenomeno noto come
"emigrazione interiore" e chi sa qualcosa di quell'esperienza
può facilmente riconoscere talune questioni e conflitti che presentano
un'analogia - non solo di forma o di struttura - con i problemi che ho
sollevato. Come suggerisce il termine stesso, l'"emigrazione
interiore" fu un fenomeno curiosamente ambiguo. Significa, da un
lato, che all'interno della Germania c'erano persone che si comportavano
come se non appartenessero più a quel Paese, che si sentivano come
degli emigranti; indicava, dall'altro, che essi non erano emigrati, ma
si erano ritirati in uno spazio interiore, nell'invisibilità del
pensare e del sentire. Sarebbe sbagliato pensare che questa forma di
esilio, di ritirarsi dal mondo per rifugiarsi in uno spazio interiore,
sia esistita solo in Germania, e analogamente che tale emigrazione sia
finita con la fine del Terzo Reich. In quell'epoca oltremodo buia,
dentro e fuori della Germania, fu in realtà particolarmente forte la
tentazione, di fronte a una realtà apparentemente insopportabile, di
abbandonare il mondo e il suo spazio pubblico per un'esistenza
interiore, o semplicemente di ignorarli a vantaggio di un mondo
immaginario "come dovrebbe essere" o "come era stato una
volta".
Dimenticare o ricordare?
Si è discusso molto sulla
tendenza ampiamente diffusa in Germania ad agire come se gli anni dal
1933 al 1945 non fossero mai esistiti, come se quella parte della storia
tedesca ed europea, quindi mondiale, potesse essere cancellata dai
manuali; come se tutto dipendesse dalla capacità di dimenticare il
negativo e di ridurre l'orrore a sentimentalismo. (Il successo mondiale
del Diario di Anna Frank dimostrò chiaramente che tali tendenze
non erano confinate alla Germania.) Era grottesco che ai giovani
tedeschi non fosse permesso di venire a conoscenza di fatti che ogni
scolaro, a qualche chilometro di distanza, non poteva ignorare. Dietro
c'era certamente un effettivo disorientamento, ed è probabile che
l'incapacità di fronteggiare la realtà del passato abbia rappresentato
l'eredità diretta dell'emigrazione interiore, così come fu
indubbiamente in larga misura, e ancor più direttamente, una
conseguenza del regime hitleriano - ossia una conseguenza della colpa
organizzata in cui i nazisti coinvolsero tutti gli abitanti dei paesi
tedeschi, gli emigrati all'interno non meno dei membri convinti del
partito e degli esitanti compagni di strada.
Padroneggiare il passato?
Gli Alleati non fecero
altro che riprendere in seguito tale espediente, inserendolo nella tesi
nefasta di una colpa collettiva. Di qui deriva il profondo imbarazzo dei
tedeschi che colpisce tanto uno straniero, in ogni discussione sui
problemi del passato. La difficoltà che devi esserci nel trovare un
atteggiamento ragionevole è espressa forse nella maniera più chiara
dal cliché secondo cui il passato resta ancora "non
padroneggiato", nonché nella convinzione che la prima cosa da fare
sia padroneggiarlo. Probabilmente ciò non è possibile con nessun
passato, di sicuro non è possibile con il passato della Germania di
Hitler. Il risultato migliore che si può conseguire è sapere
esattamente che cosa è stato e sopportare il peso di tale presa d'atto,
quindi aspettare e vedere che cosa viene fuori dal sapere e dal
sopportare.
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[Fonte: Avvenire 9 giugno 2006]
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