di Paolo Affatato
Un desiderio della società israeliana di conoscere,
avvicinarsi, capire meglio i cattolici, c'è. Il dialogo è
possibile". Lo afferma P. Pierbattista Pizzaballa OFM,
responsabile della Qehillah, comunità cattolica di tradizione
ebraica a Gerusalemme, che raccoglie anche ebrei convertiti. Padre
Pizzaballa racconta l'esperienza, le attività, le difficoltà
della comunità, cha fa da ponte nel dialogo ebreo-cristiano.
"I cattolici di tradizione ebraica non hanno lasciato il
giudaismo ma vedono in Gesù il perfezionamento della legge e il
vertice della storia del popolo di Israele. Conservando le loro
radici ebraiche, vedono nella Chiesa il completamento del loro
cammino spirituale.
I membri delle comunità sono prevalentemente
ebrei convertiti, ma non solo: vi sono altre persone non ebree, ma
che vivono in contesto israeliano, parlano ebraico e quindi si
trovano più a loro agio in queste comunità. Per un ebreo
divenuto cristiano è difficile riuscire a vivere e conciliare la
propria fede con il contesto in cui vive. Il ruolo della comunità,
perciò, è molto importante: essa diventa punto di riferimento
per la vita spirituale, una seconda famiglia, un gruppo di persone
con le quali ci si può esprimere liberamente".
I cattolici di tradizione ebraica, spiega il Francescano, si
trovano in comunità a Sheva, Gerusalemme, Tel Aviv e Haifa. Le
comunità sono composte prevalentemente da famiglie.
Nella Qehillah di Gerusalemme vi sono famiglie, religiosi, laici e
giovani, per un totale di circa 60 persone. "Una particolarità
di questa esperienza è celebrare la liturgia in ebraico. Questo
richiede uno sforzo notevole perché è difficile rendere la
ricchezza liturgica della Chiesa cattolica nella monolingua
semitica. Oltre all'aspetto linguistico, vi è un problema di
mentalità: la liturgia ha bisogno di una reimpostazione. Abbiamo
scelto, per ora, di seguire la liturgia cattolico-romana,
rielaborandola: si mantengono le stesse idee, ma senza tradurle
letteralmente, perché è impossibile. La comunità vive momenti
di preghiera e catechesi ma ha pure attività con i giovani e
incontri nelle famiglie, importanti per discutere problemi di
carattere morale e sociale".
Ma vi sono anche degli ostacoli: esiste in Israele un timore
diffuso per l'espandersi di sette religiose, e
spesso, nota P. Pier Battista, "la società e i mass-media
non distinguono tra le grandi Chiese tradizionali e le nuove
sette", fatto che rallenta il dialogo. Tant'è che "la
nostra comunità non è specificamente missionaria. Non andiamo in
giro a distribuire Vangeli o volantini. La società ebraica ha
difficoltà ad accettare che un ebreo aderisca a una Chiesa, in
particolare alla Chiesa cattolica. Perciò uno dei nostri criteri
è la discrezione. Come comunità siamo molto discreti, visibili
ma non troppo appariscenti, per evitare incomprensioni".
Ma, nonostante tutto, la comunità sta crescendo e ogni anno ha
nuovi catecumeni. Un beneficio c'è stato nell'ultimo biennio,
dopo la visita del Papa in Terra Santa nel marzo del Duemila.
Padre Pizzaballa spiega: "La visita del Papa è stata intesa
soprattutto come riconoscimento e apprezzamento delle istituzioni
israeliane-giudaiche, come il rabbinato. Ed è stata un segno
concreto della vicinanza della Chiesa al popolo di Israele, dove
affondano le nostre radici. I benefici vi sono stati per tutti, a
medio e lungo termine. La società israeliana desidera conoscere,
avvicinarsi, capire meglio i cattolici. È un atteggiamento
positivo, che non si riscontrava fino a poco tempo fa. Per la
Qehillah è una nuova e stimolante sfida".
[Tratto dalla Rivista "Popoli e
Missione" 1/2003 delle Pontificie Opere Missionarie]
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