Sono
due gli slogan diventati luoghi comuni e come
tali spacciati come truismi, vale a dire
verità che si dimostrano da sole.
Il
primo slogan ha un “cuore” antico. Viene
affermato che gli ebrei, già vittime dello
sterminio nazista, si comportano con i
palestinesi come i nazisti si erano comportati
con loro.
Il
secondo slogan è per forza di cose più
recente ed è accreditato da non pochi
commentatori e tuttologi, secondo i quali è
la presenza di Ariel Sharon alla guida del
governo israeliano la causa principale (magari
anche se non la sola) dell’attuale
gravissima crisi mediorientale.
Il
primo slogan ha una matrice precisa. Aveva
cominciato ad essere diffuso in Israele poco dopo il 1967 da un lato in ossequio
acritico della politica sovietica del tempo, e
dall’altro in omaggio al “business is
business” fatto proprio da politici
variopinti costituitisi in comitato d’affari
petroliferi.
Ma
il perverso slogan (<gli ebrei, che hanno
tanto sofferto…>) ha fatto e fa danni
forse addirittura al di là delle intenzioni
dei fedeli di Mosca e di quelli della Borsa.
Chi
ha frequenti incontri nelle scuole,
generalmente le medie, si è spesso incontrato
con questo slogan perverso, che ha il pregio
dialettico di esprimere in una riga un
concetto retoricamente e letterariamente
attraente: la vittima che diventa carnefice
nell’ambigua visione dei molti “nipotini”
di de Sade. E puntualmente ad ogni incontro c’è
sempre qualche ragazzo che salta su a
domandare: <Ma perché gli ebrei che hanno
tanto sofferto…>.
È
del tutto inutile obiettare che in Israele o
nei Territori gli ebrei non hanno impiantato
camere a gas, forni crematori o lager, non
hanno dato la caccia ai musulmani solo perché
musulmani, non hanno dato alle fiamme moschee,
non hanno deportato e ucciso bambini, donne,
vecchi, malati. Non hanno tentato il genocidio
di tutta la popolazione araba e islamica. Non
ci sono in Israele o in Cisgiordania e Gaza
fosse comuni di arabi come quelle rinvenute
nei lager nazisti o come quella sovietica di
Katyn, dove migliaia di ufficiali polacchi
erano stati trucidati per ordine di Stalin.
È
comprensibile che l’occupazione israeliana
sia male sopportata, ed è certo che l’occupante
abbia qualche volta o spesso impiegato metodi
condannabili. Tuttavia non più, o molto meno,
di quanto siano state, anche ai giorni nostri,
altre occupazioni militari.
Ma
soprattutto non vi è possibilità di
raffronto tra l’occupazione israeliana in
Cisgiordania e a Gaza e quella tedesca in
Europa.
Fare
un tale raffronto, adombrare che le vittime
siano diventate carnefici, è blasfemo. In
questo slogan diventato luogo comune è
racchiusa una tale carica di antisemitismo di
tutte le origini e radici, da avere già
prodotto l’espandersi di una virulenza
epidemica, puntualmente registrata tra l’altro
dalla rilevazione campionaria di Mannheimer,
apparsa sul Corriere della Sera del 26
gennaio.
Paragonare
le azioni militari israeliane alle nefandezze
naziste è dunque una bestemmia e un’infamia,
una cellula cancerogena che decompone la mente
e l’anima.
Il
secondo slogan, quello più recente, nasce con
la premiership di Ariel Sharon (<È Sharon
che impedisce qualunque negoziato, è lui che
non vuole la pace, che calpesta i diritti del
popolo palestinese…>), semplicemente non
tiene conto della realtà, spesso per mancanza
di conoscenza, talvolta in malafede.
Se
anche dessimo per scontato che Sharon è la
“belva umana” dipinta a più mani, come
dimenticare che il suo vero Grande Elettore è
stato Yasser Arafat?
Come
dimenticare che erano stati proprio il “no”
di Arafat alle generose proposte dell’allora
Premier israeliano, il laburista Ehud Barak
(un rifiuto che aveva sollevato l’ira del
Presidente americano Clinton), e la decisione,
a freddo, di organizzare e scatenare la
seconda intifada, a disarmare la sinistra d’Israele,
ad ammutolire i pacifisti israeliani, che non
sapevano proprio cosa offrire di più ai
palestinesi?
Il
rifiuto di Arafat, la decisione di respingere,
armi ed esplosivi alla mano o alle cinture,
ogni negoziato che non portasse alla
sparizione dello Stato ebraico, ecco il vero
motivo dell’indurimento dell’opinione
pubblica israeliana e della sua scelta
politica. Guerra per guerra, questa la
riflessione del corpo elettorale d’Israele,
è sempre meglio affidarne la conduzione a chi
vi è più preparato e determinato. Meglio
dunque il “falco” Sharon che la “colomba”
dalle ali bruciate Barak.
La
scelta del corpo elettorale israeliano può
essere capita anche alla luce di un illustre
precedente: la Gran Bretagna aveva scelto un
“falco” conservatore, il grande Winston
Churchill, per gestire la guerra contro la
Germania di Hitler, ma subito dopo la vittoria
non aveva esitato a metterlo da parte e votare
Labour. “Colombe” in pace, ma “falchi”
in guerra.
E
che Israele fosse entrato suo malgrado in
guerra, che fosse stato ancora una volta
aggredito, era risultato chiaro agli
israeliani dopo il “no” di Arafat e dopo i
primi attentati con conseguenti indiscriminate
stragi.
Marginalmente
si può rilevare come dopo la strage di Sabra
e Chatila, perpetrata non dagli israeliani, ma
dai libanesi cristiani di Hobeika (assassinato
pochi giorni fa) per rappresaglia contro i
presunti autori dell’assassinio del
neo-Presidente libanese Gemayel, l’Alta
Corte d’Israele condannò l’omissione di
soccorso o la tacita connivenza dell’allora
ministro della Difesa israeliano Ariel Sharon,
costringendolo alle dimissioni e provocando
poi la crisi di governo.
Questo
naturalmente non può far proporre Israele e
ancor meno l’odierno Premier per una
beatificazione, ma induce a riflettere su
molte falsificazioni. Ma sembra che la
riflessione, contrariamente alla speranza, sia
la prima a morire.
Luciano Tas
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